mercoledì 30 luglio 2008

Quando i PM commettono, impuniti, un reato

Nella seconda parte del terzo capitolo del libro di Giacalone si parla della violazione del segreto istruttorio, reato che sta alla base del connubio mostruoso fra giornalisti e Pubblici Ministeri e si inizia ad affrontare, poi, il tema della differenza sostanziale che esiste fra il dovere che i processi si svolgano in pubblico e l' abuso perpetrato dai giornalisti che li trasformano in spettacolo.

Lo svolgimento di quest' ultimo tema lo troverete nel prossimo post.

Intanto cercate di riflettere attentamente sul primo tema: la violazione del segreto istruttorio, quello che stigmatizzava persino il boss mafioso Buscetta (!!!) e che invece viene difeso a spada tratta dai vari Travaglio, Di Pietro, Violante e compagnucci forcaioli vari.

I principali responsabili di questo reato sono i PM, ovviamente, anche quando non ne siano direttamente colpevoli, nel senso che non vigilano affinchè questo reato non sia commesso.

Sapere che è un Magistrato a commettere IMPUNEMENTE un reato (o a non impedire che venga commesso) basterebbe, a mio avviso, a fugare ogni dubbio sulla necessità di riformare profondamente il sistema giudiziario italiano.

Purtroppo così non è e non lo è perchè il nostro è sempre stato e continua ad essere un popolo profondamente disinteressato alle libertà individuali, che non siano quelle di violare impunemente leggi e regolamenti.

Purchè ci lascino gettare in strada i nostri rifiuti, non rispettare la segnaletica stradale, percepire stipendi lavorando il meno possibile, evadere le tasse appena se ne offra l' occasione, noi siamo disposti a farci governare da un dittatore da operetta per venti lunghi anni o, persino, da governi democratici catto-marxisti, cioè incapaci ed imbelli, per decenni e decenni.

E siamo pure disposti, se incappiamo nelle maglie della giustizia, a farci massacrare da una casta di intoccabili mandarini, tanto si tratta di una evenienza remota persino per i delinquenti abituali .....

Angelo Guglielmi (allora direttore di Rai3, la rete delle trasmissioni verità, delle piazze e dei processi) ed Umberto Eco si sono pubblicamente chiesti quanto, in quello che trasmette la televisione, è realtà e quanto è artificio retorico.

Si sono risposti: rispettivamente il 10 ed il 90 per cento.

Sulla base di questo dosaggio si linciano le persone.

Altro che ossequio alla notizia, altro che dovere professionale, così si evoca solamente il desiderio delle masse di assistere ad esecuzioni capitali, così si sollecitano gli aspetti più bui dell’animo umano.

Per capire questi meccanismi, per capirli fino in fondo, fino al punto in cui, grazie al cielo, ancora non siamo arrivati, occorre andare a rileggere gli atti dei processi alle streghe, che si concludevano con un rogo che serviva, ad un tempo, a salvare l’umanità dal maligno ed a dare, caritatevole idea, possibilità di salvezza all’anima della strega.

Che disastro non avere più fra noi Leonardo Sciascia! Solo una penna come la sua avrebbe potuto chiarire questo intrico di sentimenti, di desideri e di paure.

Questo spettacolo con “cadaveri, drammi e storie morbose”, ha detto Dan Rather, il più famoso conduttore dei notiziari della CBS, negli Stati Uniti, fa sì che “i nostri telegiornali sono finiti ad Hollywood”.

Ma senza finzione scenica, e con la pretesa di essere presi sul serio.

E per riuscire a tenere il pubblico incollato allo schermo, questo spettacolo della realtà, deve continuamente alimentare un clima di guerra. Così, dalla guerra del golfo alle trasmissioni che propongono le liti familiari, tutto deve procedere con il ritmo serrato di un’attacco all’arma bianca.

Il che comporta che non necessariamente si trasmettono falsità, ma che anche le verità vengono trasmesse in un contesto falsato.

Poi ci si meraviglia se capita, com’è capitato, che una giovane ragazza manca da casa una notte per consumare una scappatella sentimentale, torna a casa e racconta una bugia pietosa: mi hanno rapito.

E si ritrova, la sventurata, incredibilmente, sulle prime pagine di giornali e telegiornali, quel giorno a secco di notizie.

Prima come rapita, poi come bugiarda, infine come puttana.

In un crescendo parossistico e folle, in cui una normalissima storia di scappatelle diventa una notizia da dare in pasto alla nazione. Il tutto esercitando su quella ragazza una violenza incredibile, rispetto alla quale sarebbe stato meglio che l’avessero rapita sul serio.

Com’è possibile che tutti siano caduti in questo abbaglio, com’è possibile che di quella ragazza abbiano parlato tutti i giornali?

Semplice, perché i giornali sono succubi volontari della televisione.

Sui giornali della mattina non trovate il racconto della giornata precedente, più i commenti, no, trovate i commenti su quello che ha trasmesso la televisione il giorno prima, più un breve riassunto per chi abbia perso quelle trasmissioni.

Quando qualche editore di giornali si lamenta per il ruolo preponderante della televisione nel mercato pubblicitario e, più in generale, nel mercato dell’informazione, penso sempre: provate a non portare i vostri cervelli all’ammasso, e vedrete che qualcuno si accorgerà anche della vostra esistenza.

Inutile dire che, in un sistema di questo tipo, cercare di far passare una qualche smentita delle notizie false è più un atto di guerriglia che l’esercizio di un diritto (che la legge riconosce, ma di cui nessuno si cura).

Querelare per diffamazione, poi, è il massimo del ridicolo:

ti danno ragione, se ti danno ragione, se non ti vengono a dire che il clima era tale da rendere meno gravi gli insulti, anni dopo, con il risultato di allargare anziché sanare la piaga.

Eppure si deve fare lo sforzo di non lasciarsi andare a questo modo di interpretare la professione, ed ai giornalisti vorrei chiedere: ma voi siete proprio sicuri che la deontologia professionale non debba subire una qualche rimeditazione alla luce della trasformazione subita dai mezzi di comunicazione?

Già, perché quando si stampava un solo Gazzettino era eroico dovere del giornalista dire sempre e comunque la verità, riportare la notizia, fare i nomi ed i cognomi di persone che, se lo avessero voluto, se fosero state nelle condizioni di farlo, il giorno dopo avrebbero potuto rispondere, difendersi, accusare a loro volta.

Ma oggi capita che chi è finito in un’inchiesta, o è stato protagonista di vicende giudiziarie, ha dovuto sentire il proprio nome ripetuto cento volte al giorno, da diecine di telegiornali e giornali radio, e lo ha dovuto leggere centinaia di volte al giorno, su quotidiani, settimanali e fogli di varia natura.

Siete proprio sicuri che questo non cambi le regole del giuoco?

E se, una volta, il controllo sulla fondatezza e la veridicità di una notizia era un dovere verso il lettore, oggi lo è diventato, ancora di più, verso i soggetti dei quali si scrive.

Ad essi si possono arrecare danni che poi è ben difficile riparare e ripagare.

I giornalisti fanno bene a difendere la loro libertà d’azione, il loro diritto di scrivere a proposito di tutte le notizie di cui vengono in possesso. Ma devono farlo sentendo il peso della responsabilità che si assumono, capendo quali sono le caratteristiche della macchina che stanno maneggiando.

Se si vuole evitare il bavaglio alla stampa, se si vuole evitare che certi problemi siano affrontati in sede legislativa (com’è avvenuto in Francia e come si sta facendo anche in Italia), allora si deve professionalmente avere un maggiore rispetto delle cose di cui ci si occupa.

Senza crescita professionale, senza rinuncia al sensazionalismo ad ogni costo, allora non si ha il diritto di sbarrare la strada a leggi che impongano un maggiore rispetto della privacy, o che, in qualche modo, comportano un certo tasso di censura.

Inutile convocare scioperi o manifestazioni, questo è un problema che sta nelle mani dei giornalisti. E nelle loro menti.

Quando i giornalisti che si occupano di questioni giudiziarie non sono impegnati a scrivere, e quando, conversando, li si porta ad affrontare i problemi di cui abbiamo fin qui parlato, capita di ascoltare l’esposizione della seguente tesi:

sì, certo, non è cosa bella pubblicare integralmente, come fosse oro colato, la velina che ci viene passata dalla procura della Repubblica, ma, sai, il problema è che se uno di noi non lo fa, se, magari, si spinge a criticare la violazione del segreto istruttorio, automaticamente viene depennato dalla lista di coloro che hanno diritto alla velina, e, quindi, sarà destinato a bucare (cioè perdere) tutte le notizie della cronaca giudiziaria.

Questa tesi non è una giustificazione, giacché se non è cosa bella prendere le veline dai politici, che incarnano il potere legislativo e, talora, esecutivo, cosa ancor meno ammirevole è prendere le veline dai pm, che incarnano il potere della repressione.

Tutti i poteri, in democrazia, se regolati, sono legittimi, ma quando si passa agli abusi di potere, ed alle violazioni delle regole che ai poteri sono imposte, la qualità della nefandezza cambia a seconda di quale potere ne è protagonista.

Quel discorso, però, ci porta ad affrontare l’altra faccia della medaglia:

se ci sono giornalisti che si piegano alle veline dei pm, ci sono anche dei pm che scrivono veline.

La prima cosa equivale ad una forte dequalificazione professionale, la seconda è un reato. Ed è un reato grave. Molto grave.



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