sabato 26 luglio 2008

La Magistratura italiana calpesta i diritti umani

La quinta puntata del libro di Giacalone sulla Malagiustizia è di pesante lettura, tuttavia è di estremo interesse, specie in questi giorni che hanno visto l' opposizione parlamentare stracciarsi le vesti per l' "infamia" del pacchetto sicurezza varato dal governo con annesse sospensioni dei processi e polemiche per i diritti umani dei Rom.

Queste urla di disperazione mi appaiono come le lamentazioni di un malato terminale di cancro che si dispera perchè gli è venuto un orzaiolo all' occhio.

Interessante è anche un fatto che scoprirete oggi: la legge che ha aggravato la lentezza e l' onerosità dell' azione penale italiana (puntualmente condannata dalla Corte Europea) è una delle perle che ci ha regalato il penultimo governo di centrosinistra, ad ennesima dimostrazione della incapacità a governare di quello schieramento.

Ogni anno, alla fine del mese di gennaio, si tengono in tutta Italia le cerimonie d’apertura dell’anno giudiziario. E già che l’anno cominci alla fine di gennaio la dice lunga, per una categoria, quella dei magistrati, il cui lavoro in tribunale viene poi sospeso per due mesi di ferie estive, manco siano bambini dell’asilo.

Ogni anno si abbatte sui cittadini un diluvio di parole inutili e dati sconfortanti, fuoriuscenti dalla bocca di chi non si sente mai responsabile di quel che accade, ma, anzi, non perde l’occasione per attribuire a tutti gli altri ogni possibile colpa.

Una prima buona cosa, quindi sarebbe la soppressione di tali cerimonie, il cui lato più umanamente toccante è rappresentato dalla strenua battaglia che molti degli invitati, specie nelle prime file dove le più alte cariche dello Stato coincidono con le età meno giovani, ingaggiano con il sonno.


Nel 2007 s’è anche raggiunto il grottesco relativo all’inesistenza di un legittimo presidente della Cassazione, giacché chi avrebbe dovuto tenere il discorso non poté farlo, perché non era il presidente della Cassazione, avendo il Csm bocciato l’unico candidato, Vincenzo Carbone.

Lo ha bocciato perché le correnti di sinistra non lo volevano, ma sarebbero finite in minoranza se non le avesse salvate il presidente Napolitano, il quale si è presentato, si è astenuto e così facendo ha ottenuto il pareggio, quindi la sconfitta di Carbone.

Quest’ultimo non si arrende e ricorre al tribunale amministrativo regionale, bloccando la procedura per la scelta del nuovo vertice, sarà poi il Consiglio di Stato a dargli definitivamente ragione (e definitivamente torto al Csm ed alla trovata tattica di Napolitano).


Riassumendo: magistratura politicizzata, divisa in correnti, incapace di autogovernarsi, impegnata a sfidarsi in tribunale. Il giorno della cerimonia ermellinata il Presidente della Repubblica non intendeva assistere ad un discorso di Carbone (aggiungendo i capricci al torto giuridico), e, quindi, s’è trovato un sostituto per anzianità. Ed anche questo è a suo modo emblematico.

Fatta questa premessa, però, cercando bene fra le acque del diluvio si trovano perle di gran valore. Abbiate pazienza, non lasciatevi spaventare dal linguaggio falso forbito, perché i concetti sono davvero straordinari.

Tocca a Gaetano Nicastro, presidente di Cassazione in attesa che s’insedi quello vero, tenere il discorso ufficiale, nel quale si trova la seguente frase :

Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti per l’irragionevole durata dei processi non basterebbero – è stato detto – tre finanziarie”.

Ma vi rendete conto? Il presidente Nicastro non solo ammette candidamente che l’Italia viola massicciamente un diritto dell’uomo, ma immagina d’essere arguto nel sottolineare che neanche potrebbe permettersi di risarcire il danno, perché ci vorrebbero troppi soldi. Forse avrebbe potuto dire solo questo, fermarsi lì ed invitare tutti a tornare a casa.


Spingiamoci oltre anche noi, leggiamolo:

“Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti per l’irragionevole durata dei
processi non basterebbero – è stato detto – tre finanziarie. Il problema non è tuttavia quello di evitare le condanne dello Stato italiano, bensì di assicurare quello che è ormai definito, con termine in fondo improprio ma caustico, il ‘giusto processo’, il tempestivo riconoscimento del diritto, il tempestivo proscioglimento dell’innocente o l’applicazione della pena al colpevole.

Nel 2006 la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo non appare costellata, come negli anni precedenti, di condanne dell’Italia per la violazione della ragionevole durata del processo. Ma ciò si deve, chiaramente, all’applicazione della cosiddetta ‘legge Pinto’ (l. 24 marzo 2001, n. 89), che ha previsto e regolamentato l’equa riparazione, demandando alle corti di appello i relativi accertamenti e le corrispondenti liquidazioni.

Dopo alcune controverse decisioni, si può dire che le Corti italiane (ivi compresa la Corte di cassazione) si siano ormai adeguate ai parametri della Corte europea, evitandosi in tal modo il ricorso a quest’ultima in una funzione di supplenza, chiarimento ed integrazione.

Vistosa eccezione alla limitazione degli interventi della Corte europea le otto sentenze pronunciate dalla Grande Chambre il 29 marzo 2006 per violazione dell’art. 6 comma 1 della Convenzione: nonostante la ragionevolezza dei tempi della procedura per conseguire l’equa riparazione, i ricorrenti avevano dovuto attendere vari mesi e in alcuni casi iniziare una procedura esecutiva prima di ottenere l’indennizzo loro riconosciuto: per essere efficace, il rimedio – secondo la Corte - deve essere accompagnato da previsioni di bilancio adeguate al fine di dare immediata esecuzione alle sentenze (vi si segnala altresì che certe spese fisse, come quelle di registro, possono ridurre grandemente l’efficacia del risarcimento)”.

Cos’è la legge Pinto lo vedremo nell’ottavo capitolo, ma, visto che ancora sarà citata, qui basti sapere che si tratta di un trucchetto inventato dal legislatore, nel 2001, per rendere più difficile la vita agli italiani e togliere loro il diritto di ricorrere subito a Strasburgo, imponendo di andare prima a lamentarsi presso una Corte d’appello.

Il trucchetto si è poi rivelato anche un boomerang, intasando quei tribunali. Il senatore Michele Pinto è stato anche ministro nel primo governo Prodi, e temo che per molti questa sia già una spiegazione.

Infatti, lo stesso Nicastro osserva:

“L’aumento dei procedimenti di primo grado presso le Corti di appello preoccupa (…), ove si consideri la correlativa limitata competenza dell’organo, indicando una massiccia incidenza delle richieste di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo (cosidetta ‘legge Pinto’), come,
del resto, confermano quasi tutte le relazioni pervenute dai vari distretti”.

In altre parole: le Corti sono schiantate sotto la Pinto e ci mettono un tempo lunghissimo a discutere cause relative alla lunghezza dei processi.

Sembra una scena dal teatro dell’assurdo.

Nonostante il trucchetto e la conseguente catastrofe, però, l’Italia continua a beccare botte da orbi in quel di Strasburgo, e sono sempre parole di Nicastro:

“Sempre più la nostra giurisprudenza si trova a confrontarsi con le convenzioni internazionali e con il riconoscimento in quei testi di ampi diritti fondamentali.

Chiarificatrice, al riguardo, ed in linea con numerose pronunce della nostra Corte Costituzionale (dinanzi alla quale è stato ripetute volte sollevato conflitto da parte dei tribunali italiani) la sentenza della Corte europea 20 aprile 2006 (Patrono e altri c. Italia), in ordine al problema della immunità parlamentare prevista dall’art. 68 della Costituzione, con la quale è stato ribadito che sussiste la violazione della Convenzione allorché le deliberazioni del Parlamento vengano a paralizzare le azioni dei privati a tutela della loro reputazione, in assenza di un evidente collegamento tra le condotte ascritte e l’attività parlamentare, rilevandosi che nella fattispecie sottoposta al suo giudizio non era stato rispettato ‘il giusto equilibrio tra le esigenze del generale interesse della comunità e gli imperativi della tutela dei diritti fondamentali della persona’, anche perché i parlamentari non avevano manifestato, in quella circostanza, opinioni politiche, ma avevano espresso esclusivamente affermazioni denigratorie nei confronti dei ricorrenti.


Con numerose pronunce la Corte ha censurato il meccanismo dell’occupazione appropriativa, considerata quale forma di ‘espropriazione indiretta’, che, permettendo all’amministrazione di superare le regole del procedimento di espropriazione, consolida una situazione di illegalità che contrasta con il principio di legalità che deve presiedere all’attività della pubblica amministrazione (sentenza 2 febbraio 2006, Genovese e altri c. Italia; sent. 9 febbraio 2006, Prenna e altri c. Italia; e, recentissimamente, sent. 21 dicembre 2006, De Angelis e altri c. Italia); né vale a sanare tale illegittimità l’art. 43 del testo unico sulla espropriazione per pubblica utilità (d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327), poiché l’occupazione acquisitiva, anche se disciplinata dalla legge, non può costituire una alternativa alla procedura ‘en bonne et due forme’ (sent. 12 gennaio 2006, Sciarrotta e altri c. Italia).

La Grande Chambre ha preso posizione anche sulla determinazione della indennità di espropriazione, ponendo chiaramente in discussione il sistema italiano dell’art. 5 bis d.l. n. 333 del 1992, convertito in legge n. 359 del 1992, e l’art. 37 del t.u. n. 327 del 2001: pur riconoscendo la discrezionalità degli Stati, che in via eccezionale possono fissarne l’entità in misura non coincidente con l’integrale compensazione, ha ritenuto che l’art. 1 del I°protocollo addizionale della Convenzione impone in ogni caso di mantenere un giusto equilibrio tra le esigenze riconducibili all’interesse generale della comunità e la salvaguardia del diritto fondamentale dell’individuo al rispetto dei propri beni (sent. 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

Il contrasto della disciplina interna con la Convenzione universale dei diritti dell’uomo e col suo I°Protocollo addizionale, come interpretato dalla Corte europea, ha indotto la Corte di cassazione a sollevare la questione di costituzionalità delle norme interne in tema di indennità di espropriazione (Cass., ord. 29 maggio 2006, n. 12810) e di risarcimento da occupazione appropriativi (Cass., ord. 20 maggio 2006, n.. 11887), sotto il profilo, tra l’altro, della violazione dell’art. 117, c. 1, della Costituzione (nel testo risultante dalle modifiche apportate al titolo V) e delle norme convenzionali, cui quel testo avrebbe conferito valore di ‘norme interposte’”.

So di avere abusato nelle citazioni, ma portate ancora la pazienza necessaria a leggerne altre due, questa volta tratte, sempre in quella radiosa giornata, dall’intervento di Mario Delli Priscoli, procuratore generale della Repubblica.

Fatevi coraggio, ne vale la pena (questa volta ho inserito io delle sottolineature).

Anche il procuratore generale ha qualche cosa da dire sui poveri cittadini che la giustizia massacra: “La cosiddetta legge Pinto, che disciplina l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, dispone, all’art. 5, che il decreto di accoglimento della domanda sia comunicato, a cura della cancelleria, ‘ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento’.

Sono ben note le imponenti ripercussioni economiche che la predetta legge determina sulle finanze dello Stato, non tanto per l’entità dell’indennizzo liquidato nei singoli casi, quanto piuttosto per l’ammontare complessivo degli esborsi dell’erario, in ragione dell’elevato numero di soggetti aventi diritto al compenso per la lesione del diritto alla ragionevole durata di ogni processo.

La stessa Corte europea (sentenza Scordino, 1 § 183) ci ha ammonito sull’errore di direzione rappresentato da questa strada che ritiene di risolvere con il ristoro economico la violazione sistematica di un diritto fondamentale dei cittadini, quello alla ragionevole durata dei processi.

Tale Corte ha suggerito un’altra strada, peraltro ovvia, se non si vuole seguire quella della monetizzazione dell’ illecito: l’adozione di misure acceleratorie del procedimento, come era previsto nell’originario disegno di legge Conso e come hanno fatto Paesi più attenti agli effetti perversi di leggi frettolose.

Ma questa legge ha prodotto e sta producendo gravissimi danni, oltre che per l’erario dello Stato, anche per il funzionamento della giustizia.

Non sono solo le Corti di appello e la Corte di cassazione, investite ogni anno da migliaia di ricorsi, ad essere interessate dal problema. Anche la Procura generale della Corte di cassazione, cui vengono trasmessi, senza alcun filtro selettivo, tutti i decreti di condanna relativi a ritardi dei giudici ordinari, (3.612 nel 2006) risulta sovraccaricata di accertamenti di natura disciplinare.

L’obbligatoria, automatica comunicazione di tali decreti comporta per l’ufficio disciplinare la gestione e l’esame di una quantità notevole di procedimenti, prendendo le mosse da una situazione di totale carenza di informazioni, posto
che, di regola, i decreti stessi si limitano a dare atto delle vicende processuali e dei relativi tempi di definizione, senza specificare né l’identità dei magistrati che le hanno trattate, né possibili responsabilità individuali di natura disciplinare.

È così demandata alla Procura generale l’attuazione di una cernita, pressoché ‘in astratto’, che impone comunque di richiedere poi informazioni agli uffici giudiziari coinvolti in ciascun caso apparentemente rilevante a fini disciplinari.

Se si ha riguardo alla delicatezza del tema e, quindi, alla cura con cui detti uffici devono dare corso alle richieste della Procura generale, all’impegno che ciascuna risposta comporta (in quanto inerente a vicende processuali risalenti nel tempo, spesso complesse e coinvolgenti diversi magistrati) e alla combinazione di tali caratteri col numero di casi sui quali i vari uffici giudiziari sono chiamati a riferire, se ne desume la significativa entità delle risorse e del tempo dedicati allo scopo (e contestualmente sottratti, quindi, al lavoro ordinario).

Ma l’effetto negativo del meccanismo disciplinare innescato dall’art. 5 cit. si coglie appieno rapportando l’impegno dianzi illustrato ai risultati concreti.

L’esperienza ormai pluriennale mostra che la percentuale di casi nei quali la Procura generale è in grado di ravvisare estremi per l’esercizio dell’azione disciplinare è assai bassa e, peraltro, l’esito dei relativi procedimenti disciplinari è pressoché costantemente assolutorio, in quanto la durata dei processi risulta quasi sempre conseguenza di difficoltà operative e strutturali, piuttosto che di responsabilità di singoli magistrati.

Infatti nell’anno 2006 non è stato possibile iniziare sulla base di detti decreti alcun procedimento disciplinare e negli anni precedenti dei 19 procedimenti iniziati uno solo si è concluso con la irrogazione di una sanzione; e la più lieve, cioè l’ammonimento.

In prospettiva futura, tale tendenza dei risultati è destinata a perpetuarsi, ed anzi ad accentuarsi (…).

Alla luce di tale quadro di insieme è auspicabile un intervento legislativo che elimini l’automatismo della comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare attualmente previsto dall’art. 5 della legge n. 89 del 2001”.

L’ottimo Delli Priscoli ci consegna una perla d’inestimabile valore: noi riceviamo, per ogni condanna subita dallo Stato, quindi per ogni violazione dei diritti dei cittadini, una segnalazione disciplinare, però, primo, non siamo in grado di scoprire nemmeno chi sono i magistrati cui addebitare qualche cosa (ma come fanno a non essere in grado? I nomi sono nelle sentenze!), secondo, quando anche ci riusciamo tanto li assolvono tutti.

Meraviglioso, questa è la descrizione di un’irresponsabilità di massa. I
processi vanno così lentamente da violare i diritti umani, ma la colpa non è mai, dicasi mai, di nessuno.

Sì, certo, ci sono le solite lamentele sui soldi e l’organico, ma fra poco ci arriviamo e vedremo che sono tutte balle.

Rimane, però, la consapevolezza di quanto sia grave la condizione dell’Italia:

“Particolarmente grave appare la
situazione del nostro Paese dinanzi agli organi di tutela dei diritti dell’Uomo di Strasburgo (C.E.D.U.).

Nel corso della riunione del dicembre dello scorso anno, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha ripreso l’esame del piano di azione elaborato dalle autorità italiane per dare una soluzione globale al persistente problema della lentezza dei procedimenti giudiziari.

Il Comitato dei ministri ha preso atto che il Capo del Governo ed il Ministro della Giustizia hanno riconosciuto l’importanza fondamentale di trovare finalmente una soluzione durevole al problema e che questa necessità è riconosciuta del Consiglio superiore della magistratura e da tutti coloro che partecipano alle procedure giudiziarie.

L’organo di tutela ha, in particolare, preso nota del rapporto presentato in data 30 novembre 2006 dal Sottosegretario di Stato alla Giustizia sull’adozione di un certo numero di riforme legislative sulle procedure giudiziarie e su un ambizioso progetto riguardante l’organizzazione informatica delle procedure civili (c.d. processo telematico), ma ha deciso di rendere più incisivo e pressante il procedimento di controllo sulla situazione – che, giova ricordarlo, risale alla sua Risoluzione n. 336 del 1997 – rinviando alla riunione del 13/14 febbraio 2007 l’approfondito esame delle informazioni fornite.

Accanto però al problema della intollerabile lentezza dei procedimenti, le preoccupazioni degli organi di Strasburgo si sono accentrate sull’omesso adempimento, da parte delle autorità italiane, dell’obbligo di uniformarsi alle sentenze della Corte europea e di eliminare le perduranti conseguenze delle riscontrate violazioni.

L’argomento ha formato oggetto del rapporto della Commissione giuridica e dei diritti dell’uomo sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e dei relativi provvedimenti dell’Assemblea Parlamentare contenenti l’ennesimo severo monito nei confronti del nostro paese”.

Insomma, siamo dei sorvegliati speciali, siamo un Paese considerato a rischio e lo siamo sul delicato terreno dei diritti umani. Una cosa vergognosa e gravissima.

Nel corso di quell’inaugurazione nessuno ha citato i dati riguardanti i detenuti e la loro condizione giuridica.

Il pianeta delle carceri, e più in generale il tema della pena, meriterebbe un libro a sé.

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2 commenti:

Andrea ha detto...

Hai notat amico mio che da quando stai pubblicando questi "fatti" nessun sinistro ha più osato replicare?

Opera meritoria questa tua, se non hai nulla in contrario vorrei segnalarla all'amico Giacalone. Il quale naturalmente non verrà mai invitato in tv a parlarne, , solo a Travaglio è concesso tale onore...altro che riforma dei grembiulini (peraltro giustissima), qui bisogna veramente intervenire sui libri di testo nelle scuole.

Un abbraccio

*paraffo* ha detto...

Mah, spero che sia come dici tu. Io credo, invece, che i sinistroidi siano in ferie :-P

Ovviamente non ho nulla in contrario alla tua segnalazione a Giacalone, al contrario: penso che farebbe piacere ad entrambi, no?

Ricambio l' abbraccio. Ciao, amico mio!