mercoledì 17 dicembre 2008

Di Pietro? Il nostro cavallo di Troia!

Appena qualche mese fa avrei "goduto come un riccio" assistendo ai telegiornali di ieri che raccontavano la cocente sconfitta elettorale del PD, in Abruzzo, seguita dalla notizia dagli arresti, per corruzione, di insigni amministratori locali dello stesso partito, alla faccia della superiorità morale di chi amministra la cosa pubblica da sinistra.

Ora non più. Non arrivo ad addolorarmi, ma certo non godo. 

Rimango indifferente, come mi capita quando sento dell' ennesima morte sul luogo di lavoro o sulla strada, il sabato notte.

L' indifferenza è dovuta al fatto che l' essere umano, si abitua a tutto. 

Basta che un avvenimento si ripeta spesso o, addirittura, troppo spesso, perchè l' uomo smetta di stupirsi e di indignarsi.

Alle sconfitte del PD, dunque, mi sono ormai abituato. Ancora di più al malaffare dei politici ANCHE  di sinistra che do per scontato da sempre, ancora prima di tangentopoli.

Invece c'è stata, nella giornata di ieri, una notizia che mi ha colpito molto: quella secondo la quale il sindaco di Pescara, inquisito, avrebbe concordato con la Procura il suo arresto subito DOPO le elezioni.

Questa notizia fa a pezzi la tesi che la magistratura non possa rispettare i tempi della politica senza mancare ai suoi doveri, con buona pace di tutti i forcaioli nostrani.

Ultima annotazione: Di Pietro, malgrado il suo candidato sia stato sconfitto clamorosamente, esulta e, lui sì, "gode come un riccio" - pubblicamente - perchè ha strappato al PD una notevole percentuale di voti.

Io credo, amici miei di centrodestra, che dovremmo cominciare a considerare Di Pietro un nostro alleato!!! Un cavallo di troia annidiato nella città nemica, uno che, inseguendo soltanto il suo tornaconto personale, in realtà sta lavorando per noi.

Ci sta aiutando a seppellire per sempre gli ultimi epigoni del vecchio PC.

Dunque, lunga vita a un Di Pietro che è, e resta, un personaggio detestabile ma che si sta rivelando assai utile alla nostra parte politica, nella migliore tradizione italica, nella quale il personaggio del "vil traditore" è sempre stato centrale.

Ah, dimenticavo! Una notizia mi ha davvero rallegrato, ieri: 

l' UDC ha "tenuto"! Ha conservato - nientepopàdimeno - la stessa percentuale di voti delle ultime politiche!

Questo fatto allontana (almeno per un po') il pericolo che Casini, Buttiglione & Compagni tornino nel centro-destra dove di democristiani ce ne sono già fin troppi ...

Come ha trionfalmente detto il segretario Cesa: queste elezioni hanno dimostrato che l' Italia ha bisogno di un centro!

Ecco, bravo Cesa, rimanete al centro e nun ve movete da lì ... me raccomanno!

La Patria ve ne sarà grata ....

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domenica 7 dicembre 2008

Che bella domenica questa domenica!


Dopo mesi di risvegli rattristati dagli squallidi spettacoli offerti dal teatrino della politica post elezioni di Aprile, finalmente una bella domenica mattina!

Bella? Esilarante, direi ....

Accendo il mio mac e mi fiondo sul sito di Repubblica per sapere qualcosa della vicenda del Sindaco di Firenze, incatenato davanti alla sede dell' editoriale L' Espresso.

Mio Dio, come sono sensibili questi Piddini! Il loro settimanale di riferimento li attacca col pressappochismo giornalistico di sempre e loro si addolorano e indignano al punto di incatenarsi per protesta. Se Domenici si è incatenato ad un palo, cosa avrebbe dovuto fare il Berlusca? Inchiodarsi mani e piedi al portone?

Non entro nel merito della vicenda fiorentina denunciata dall' Espresso, perchè la trovo insignificante. Solo un fesso di sinistra può stupirsi che un sindaco parli e tratti con palazzinari e scarpari di successo in merito ad aree fabbricabili o meno.

Vi invito, invece, a leggere i commenti (all' articolo già linkato) degli aficionados di Repubblica che si schierano pro o contro il loro giornale del cuore.

Come direbbe Totò, roba da scompisciarsi. Mentre scrivo queste note ancora ridacchio fra me e me ....

Dalla vicenda fiorentina, passo a quella del Csm vs i procuratori di Catanzaro e Salerno. Rilevo, fra l' altro, che un PM catanzarese ha subito una perquisizione da parte dei Carabinieri alle 6 del mattino, in casa sua. Pare che sia stato obbligato a togliersi tutti i vestiti di dosso e che siano stati persquisiti anche gli zainetti dei bambini.

Se questa notizia è vera, è stato un gran giorno, quello. Per l' Italia? No, per quel PM! Ritengo, infatti, che l' umiliazioni subita abbia fatto, di lui, un magistrato migliore. D' ora in poi ci penserà due volte prima di mandare i carabinieri in casa di qualcuno che non sia PALESEMENTE un reo ..... Non parliamo poi dell' arrestarlo con disinvoltura ....

Tornando alla vicenda in sè, questa guerra fra procure viene "a fagiolo" e per questo mi rallegra assai.

Chissà che una storiaccia del genere non convinca solo i piddini ma soprattutto i democristiani bianchi e neri del PDL che la magistratura è arrivata al capolinea della sua credibilità e che una riforma seria è ormai improcrastinabile.

Riforma seria - occorre ricordarlo - significa, INNANZI TUTTO, separazione delle carriere e separazione fisica delle sedi dei tribunali da quelle della procure. 

Poi, abolizione della obbligatorietà dell' azione penale, il grande scudo al riparo del quale si nasconde l' arbitrio dei sostituti del Procuratore capo che deve diventare l' unico responsabile dell' azione penale e, come tale, deve rispondere al Csm.

Infine, riforma del Csm stesso che deve essere sdoppiato e composto per almeno due terzi da gente eletta direttamente dal popolo o, almeno, dal Parlamento, perchè il più normale buon senso insegna che controllato e controllore non possano essere colleghi e sodali.

Queste tre riforme, attenzione, costituiscono l' opzione minima. 

La massima sarebbe, invece, assumere in blocco l' ordinamento anglosassone, ma questo sarebbe sperare troppo e persino un errore, anche perchè noi non siamo anglosassoni e saremmo capaci di eleggere procuratori e giudici con lo stesso discernimento con cui eleggevamo, quando esistevano le preferenze, politici incapaci e persino mafiosi .....

Il terzo avvenimento che ha reso allegra la mia domenica mattina è stato il servizio fotografico dedicato (sempre da Repubblica) a Berlusconi che, in quel di Pescara, è stato colto mentre, per sfuggire all' assalto dei fotografi, ha improvvisato una bella corsa per le vie cittadine.

Vedere un ultrasettantenne così in forma deve essere, per i suoi odiatori, un bel trauma .... Stai a vedere che il nostro eroe ha ragione a dirsi più giovane dei suoi giovani ministri ..... Quando mai si è visto, almeno in Italia, un premier correre allegramente per la città insieme alla sua aitante scorta?

Per non parlare delle foto che lo ritraggono, nella stessa occasione, mentre si inerpica su una scala di alluminio a libretto per salutare la folla dei suoi fans ...

I miei lettori sanno che, ultimamente sono un po' "in fredda" col Cavaliere .... ma sanno anche che io credo, comunque, che lui rimanga il "migliore" e l' unico che, FORSE, può fare qualcosa di buono per questo paese. Quindi: lunga vita al Berlusca!

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domenica 23 novembre 2008

Il Cavaliere si sta democristianizzando


Invito i quattro frequentatori di questo ormai "mensile" blog, a leggere questo articolo di Giorgio Israel.

Non so chi sia, questo signore, e non ho neanche voglia di informarmi: so soltanto che descrive alla perfezione le cause dei malanni del nostro sistema scolastico e universitario e che accusa il centro destra di affrontare il problema con la stessa pavidità dimostrata dalla Moratti, la volta scorsa.

Tanto mi basta per segnalarvelo.

Come non mi stancherò mai di ripetere, i componenti della "nostra maggioranza" continuano, malgrado la schiacciante vittoria elettorale di Aprile, a sognare il consociativismo, a temere le piazze vocianti organizzate dagli zombi della CGIL e del PD e a rifiutarsi di capire la differenza fra Democrazia e Anarchia.

In democrazia chi vince è e deve comportarsi come un re!

Deve attuare il suo programma (quello in base al quale ha chiesto e ottenuto la maggioranza dei voti) senza guardare in faccia a nessuno, tantomeno ad una opposizione tanto imbelle quanto geneticamente antidemocratica.

La differenza fra un governo democratico ed uno dittatoriale è una sola: che il primo è a termine. Dopo 5 anni deve riottenere la maggioranza dei voti, altrimenti se ne torna a casa. Punto!

Nel frattempo, però, deve governare con determinazione e pugno di ferro, senza inciuci con la minoranza.

Sarà la minoranza a dimostrare, nel corso della legislatura, che sarebbe degna di sostituire, a scadenza, la attuale maggioranza.

Ora io chiedo a chiunque abbia un minimo di lucidità mentale, cioè a chi sia in grado di tenere a freno le sue passioni ideologiche, se l' attuale minoranza si stia dimostrando degna di governare, fra 5 anni.

Ma chiedo anche se sarà degna di continuare a governare, fra 5 anni, l' attuale maggioranza se continuerà - come sta già facendo - a cercare l' inciucio e ad annacquare il proprio programma per tema delle piazze.

L' affare Villari sta a dimostrare, a mio avviso, che questa maggioranza continua a confondere il dialogo con il consociativismo, cioè con la pratica meno democratica di questo mondo.

Non basta Napolitano a tenere alta la bandiera del consociativismo? Che bisogno hanno di seguirlo, su quella strada, Schifani e Fini?

I Presidenti delle Camere non stanno sui loro scranni per favorire gli inciuci, ma per garantire il corretto funzionamento delle rispettive assemblee, cioè a misurare il minutaggio degli interventi in aula e a garantire il diritto di parola di ogni parlamentare. Punto!

Dunque, che senso ha che abbiano invitato alle dimissioni un Presidente di Commissione REGOLARMENTE eletto?

Cosa può averli spinti ad una tale insensatezza istituzionale e politica, se non la loro ansia di consociativismo, cioè di quel virus che ha fatto della nostra democrazia una farsa che dura da ben 60 anni, con gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti noi italiani e, peggio, di tutti i nostri parteners occidentali che ci guardano con lo stesso divertito sbigottimento con cui io guardo gli abitanti delle foreste amazzoniche su National Geographic Channel?

Quel loro invito, oltretutto, ha sortito l' effetto tragicomico di permettere a Veltroni di affermare, con una faccia tosta che - da sola - giustifica la sua leadership in un partito da operetta come il PD, che l' affare Villari è stato innescato dalla maggioranza e quindi è questa a doverlo risolvere!!!!

Fornire ossigeno ad un moribondo come Veltroni si chiama "accanimento terapeutico" ...... oppure - fuori metafora - si chiama accanimento consociativista, cioè pertinacia nel lasciare incompiuta al nostra democrazia.

Per onestà intellettuale occorre però che io riconosca che la nostra democrazia è nata col difetto genetico di avere, come padri fondatori, i comunisti di Togliatti e i democristiani di De Gasperi, cioè coloro che aspiravano alla dittatura del proletariato, da una parte, e a quella di Santa Madre Chiesa, dall' altra.

Una democrazia nata con tali tare genetiche non poteva che diventare quello che è diventata e che gli eredi di quei padri fondatori (bianco-neri e rosso-bianchi) vogliono che continui a rimanere. Che costoro militino nel PD o nel PDL è del tutto irrilevante ...

Consociativisti e odiatori della democrazia liberale erano i loro padri e consociativisti e odiatori della democrazia liberale sono i loro figli e nipoti.

E Berlusconi, invitando Villari a dimettersi, dimenticandosi della riforma della giustizia e continuando - sempre - a dare ascolto a Gianni Letta e a Fini, si è già adeguato .....

Vi pare possibile che un elettore del Cavaliere, quale io sono da 15 anni, possa continuare ad accontentarsi delle sparate liberali e liberiste che il Berlusca si permette soltanto quando Letta è lontano?

Francamente, mio amato Cavaliere, sto cominciando a pensare che ti stai democristianizzando. Quando ne avrò raggiunto la certezza il mio voto andrà - sconsolatamente - a Bossi: sei avvisato!




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lunedì 17 novembre 2008

Quando "te passa la voja" ...


Barbara Di apre il suo ultimo post (da non perdere, come sempre) con queste parole:

Sarà che non ho avuto un minuto libero negli ultimi tempi, ma confesso che la politica italiana ultimamente fa passare la voglia di scriverne.
Ma di che vogliamo discutere?
Degli studenti che okkupano le scuole?
Dei sindacati che okkupano le piazze?
Dei piloti che okkupano gli aeroporti?
Dei sinistri che okkupano giornali e tv?
Di Uolter che è convinto di aver okkupato la Casa Bianca?

No, cara Barbara, non è stato il tempo a mancarti. Ti è mancata la voglia - come dici tu stessa - perchè 'sta gente te l' ha fatta passare come l' ha fatta passare a me ....

Mi dispiace non leggerti più, ma ti capisco e ti perdono così come i miei quattro lettori affezionati hanno perdonato me, spero!

Questo pomeriggio mi sono guardato, in replica sul satellite, la Lucia Annunziata che intervistava Epifani. La valente giornalista sembrava parlasse da sola. Poneva domande e riceveva, in risposta, frasi senza senso. Ve lo giuro, la mia non è una valutazione politica, non lamento mica che Epifani abbia espresso opinioni diverse dalle mie, come sarebbe stato ovvio e perfettamente legittimo, lamento - invece - che non abbia detto proprio nulla, salvo il fatto che la sua esclusione dalla cena offerta da Belusconi ai leader di confindustria, cisl e uil l' ha considerata "grave", un vulnus alla democrazia, per cui, tiè, il 12 novembre lui scenderà in piazza!

Ah no, dimenticavo! Ha anche smentito Brunetta che sostiene la CGIL rappresenti il 7,5 % dei lavoratori del pubblico impiego e ha dichiarato, orgogliosamente, che la sua organizzazione sindacale ne rappresenta ben il 33%!!!! Per bacco, quanti!!!

Che squallore, ragazzi miei ....



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sabato 8 novembre 2008

Quando la democrazia delude


Per quanto vecchio io sia, (e lo sono, accidenti !!) quando ho cominciato a frequentare la scuola elementare, gli USA avevano già importato la democrazia in Italia a suon di cannonate e di bombe cadute dal cielo.

Dunque, posso dire di non aver conosciuto altro regime, nella mia vita, che quello democratico, il che mi ha portato a non capire come possa un popolo rinunciarci per affidarsi ad un dittatore.

Certo, lo studio della storia mi ha insegnato "come" possa accadere che un essere umano nato libero rinunci alla sua libertà per seguire VOLONTARIAMENTE un dittatore. Con la ragione - dunque - l' ho capito, ma con il cuore no, tanto è vero che ho sempre provato una avversione profonda, viscerale, per i nostalgici, neri o rossi che fossero, dei regimi totalitari.

Vivere a lungo è il sogno di tutti ma, in realtà, è una vera disgrazia: più a lungo si vive più tempo si ha per vedere la propria decadenza fisica e mentale e, peggio ancora, per vedere morire - una alla volta - tutte le proprie illusioni.

Bene, a me è capitata, in questi giorni, la disgrazia, di arrivare a capire - per la prima volta anche col cuore - come ci si possa disamorare della democrazia e arrivare - orrore - a desiderare l' avvento di un dittatore!

Credo che il fattore scatenante sia stata la strepitosa vittoria elettorale di Obama, per la quale ho esultato, come chiunque ami davvero e profondamente gli USA.

Quando si ama qualcuno, se ne apprezzano i pregi ma se ne vedono anche i difetti e se ne soffre.

Il razzismo e la discriminazione razziale erano una macchia per i miei amati States. Credo che l' elezione di Obama segnerà l' inizio della fine del razzismo in America. Certo, avrei preferito che Obama fosse repubblicano, come altri neri di prestigio, ma non si può avere tutto dalla vita, tanto più che la differenza fra democratici e repubblicani, negli USA è la stessa che c'è, nel PDL, fra la corrente di Tremonti e quella di Martino: stesso partito, stessi ideali ma metodi differenti per concretizzarli. Tutto qui ....

Come mi è capitato di dire già mesi fa, su questo blog, che vincesse Obama o vincesse McCain, per l' Europa e il resto del mondo non sarebbe cambiato assolutamente nulla.

Gli USA sono stati e restano un baluardo di democrazia reale e un faro di civiltà per tutto il resto del mondo, chiunque la governi e malgrado i difetti di cui parlavo prima. Punto!

Allora, perchè attribuisco alla vittoria di Obama la valenza di fattore scatenante per il mio disamore per la democrazia?

Ecco perchè: lo splendore della democrazia americana, specie ora che si sta depurando dal razzismo, ha reso ancora più opaca (e insopportabile) la democrazia italiana!

Obama trionfa e quel fesso di Gasparri se ne esce con quella stronzata dell' esultanza dei terroristi seguito, poche ore dopo, dalla battuta di Berlusconi sull' abbronzatura del nuovo Presidente!

Voi direte: vabbè, fesserie!

Certo che sono fesserie ed infatti non sarei andato oltre ad uno sconsolato scuotimento del capo se quelle due fesserie non fossero diventate oggetto di dibattito politico, cioè se non avessi dovuto vedere la maestrina Finocchiaro e il maestrino Franceschino alzare il ditino ed indignarsi e gridare allo scandalo e al pericolo che questo governo costituisce per le relazioni internazionali e per la tenuta democratica dell' Italia.

E' stato a questo punto che ho sentito crescere, in me, un furore antidemocratico ed il desiderio di armarmi della 44 magnum dell' ispettore Callaghan e correre a Roma a sparare in testa, in sequenza, a Gasparri, Berlusconi, Finocchiaro e Franceschini!

Perchè anche i primi due? Perchè mi hanno obbligato ad assistere alla reazione dei secondi due!

Ma si può sopportare tanta idiozia?!!!! Si può vedere giornali e televisioni non parlare d' altro per giorni?!!!

Ma è democrazia questa o è solo il trionfo tronfio dell' imbecillità umana elevata a sistema di vita?

Potreste obiettare che una classe dirigente dittatoriale non sarebbe certo migliore di questa e avreste ragione ma ......

...... ma ad un dittatore puoi LEGITTIMAMENTE sparare in testa e liberartene, prima o poi, mentre ad un dirigente democratico no perchè, se anche tu lo facessi, il suo posto sarebbe preso da uno uguale o peggiore di lui (vedi caso Moro)!

Insomma, ragazzi miei, tutto mi sarei aspettato, da me stesso, meno di arrivare a coltivare sogni omicidi e liberticidi e mi chiedo che cazzo di democrazia sia un regime che porta a questi nefandi pensieri un vecchio liberale di lungo corso come me.

E già che ci siamo, mi piacerebbe sapere, caro Berlusconi, che fine abbia fatto la riforma della giustizia di cui avevi affermato che si sarebbe parlato in Settembre. Siamo a Novembre e tutto tace ....

Era davvero più urgente la riforma del grembiulino?

Eppure è di questi giorni l' assoluzione di Mannino, dopo venti anni di tortura giudiziaria. Non avrebbe dovuto costituire, questa assoluzione, un promemoria?

Ed il ragazzo accusato, senza uno straccio di prova, di aver massacrato la fidanzatina e che sta per essere processato?

Se pure fosse stato lui, io lo voglio libero se la prova della sua colpevolezza non si trova! E me ne frego che abbia foto porno-pedofile nel computer e che lo si consideri un assassino spietato solo su questa base!

Perchè lo voglio libero? Perchè una democrazia con un sistema giudiziario che considera la prova un semplice optional non è una democrazia, ecco perchè!

Perchè una democrazia vera deve preferire 10 assassini liberi che un solo innocente in prigione, ma soprattutto perchè una magistratura inquirente incapace di trovare le prove di un assassinio deve andare a zappare la terra e non star lì ad impedire alla polizia di fare bene il suo mestiere.

Qualcuno sa dirmi come possa diventare efficiente un investigatore il cui capo, il magistrato, si accontenta degli indizi per incarcerare e portare in giudizio un cittadino?

E se un assassino è così diabolicamente intelligente da non aver lasciato prove? Ebbene, se è così intelligente, si merita l' impunità, se non altro perchè una persona intelligente che uccide, lo fa per una ragione precisa e circoscritta, cioè non ucciderà una seconda volta, come farebbe uno stupido privo di autocontrollo e discernimento .......

L' ho sparata grossa? Se ci riflettete un po', il mio ragionamento è meno paradossale di quanto appaia, anche perchè si rifà ad una vecchia massima di Cicerone che sostiene: tutti possono sbagliare, ma solo gli sciocchi perseverano (nello stesso errore).

Comunque, tornando al tema iniziale, questa nostra democrazia è drammaticamente patetica, una farsa resa ancora più drammatica dalla complicità di un giornalismo da accatto, perchè è vero che i nostri politici dicono sciocchezze a raffica, ma è anche vero che diventano cose serie soltanto perchè riportate da giornalisti altrettanto sprovveduti e lette con ingordigia da lettori ancora peggiori.

Nel mio furore antidemocratico, quest' oggi voglio abolire anche la libertà di stampa! Pensate un po' come è ridotto il povero paraffo!





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martedì 14 ottobre 2008

Un po' di storia patria e un allarme ...



Con la speranza di aiutare a diffondere un po' di verità storiche, mi riaccosto al mio negletto blog solo per pubblicare l' ultimo post della mai abbastanza lodata Barbara Di. Leggetelo e rileggetelo, senza perderne una sillaba e, se ne avete la possibilità, diffondetelo ...


Non ho prove. Lo dico subito. Tutto ciò che segue nasce solo da sensazioni, chiamatele intuito femminile, avversione a pelle o più semplicemente istinto di sopravvivenza che mi fa diffidare da anni di un personaggio alquanto ambiguo.
Uno che secondo me la storia l’ha scritta e vuole continuare a scriverla a proprio uso e consumo.

Mi piacerebbe davvero, invece, che un giorno degli storici veri, quanto più possibile imparziali, ci raccontassero quello che davvero è accaduto dietro le quinte dell’Italia in questi ultimi 30 anni.
Io non ho certo questa pretesa, ma oggi mi va di condividere la mia personale visione, frammentata, di parte, priva di riscontri e del tutto umorale.
È solo l’abbozzo di un puzzle in cui inserisco alcuni fatti noti, ma mi mancano tanti pezzettini per avere un quadro completo e non posso far altro che riempire gli spazi vuoti con sensazioni e ipotesi prive di riscontro, con la speranza che un giorno gli storici ci restituiscano i pezzi mancanti.

Lui c’era, c’è sempre stato. Sempre in seconda linea, mai in prima fila, ma non mancava mai.
Luciano Violante mi ricorda un po’ il Numero Uno del gruppo TNT, con il suo immancabile libretto nero, zeppo di nomi dalla notte dei tempi e, soprattutto, di scheletri nell’armadio da tirare fuori alla bisogna per ottenere favori, silenzi, coperture.

Mi inquieta. Mi dà i brividi.
Le biografie narrano che la sua sfolgorante carriera di magistrato comunista prenda l’avvio nel ’76 con l’arresto di Edgardo Sogno, un partigiano liberale e profondamente anticomunista, che aveva capito prima degli altri e osato opporsi alla presa di potere occulto messa in atto dal PCI durante gli anni del terrorismo.
Pazienza se poi fu assolto da ogni accusa. Intanto si inaugurava il brutto vizio di far fuori un pericoloso avversario politico, giusto poco prima delle elezioni.

Quelli erano anni tremendi. Gli anni, cominciati nel disgraziato ’68, che, in un sol colpo, hanno distrutto il boom economico del dopoguerra e ci hanno fatto inesorabilmente affogare nella palude in cui ancora ci troviamo.
Gli anni in cui, mentre i comunisti armati facevano strage di innocenti, cominciavano a farsi strada nelle procure e nei tribunali i famigerati magistrati rossi.
Quei giudici che, si dice da tempo, erano stati indirizzati e sostenuti negli studi direttamente da Botteghe Oscure, se non anche coi rubli provenienti da oltre cortina.

Sarà una diceria, ma fatto sta che fino ad allora la magistratura era assolutamente borghese, poi come funghi sono spuntati i pretori del lavoro d’assalto che, proni ai voleri dei sempre più potenti sindacati, hanno avuto un gran peso nella crisi delle aziende e dell’economia italiane, grazie anche all’avvento nel ’70 dello Statuto dei Lavoratori, scritto sotto il ricatto degli scioperi continui che avevano messo in ginocchio l’Italia.
La situazione economica diventa tragica sotto il giogo dei sindacati, sempre più braccio armato del PCI, che anziché preoccuparsi del benessere dei lavoratori, necessariamente legato alla floridezza delle imprese, non si fa scrupoli a metterle in ginocchio, e con esse l’intera economia nazionale.
Comincia forse proprio in quel periodo la innaturale vicinanza del mondo imprenditoriale ad una sinistra sempre più capitalista, che fa dire a un Gianni Agnelli la bestemmia che l’Italia aveva bisogno di un governo di sinistra per attuare politiche di destra.

Contemporaneamente sul fronte penale, emergono magistrati che, guarda caso, non muovono un dito per fermare la deriva terrorista fino a che il PCI, bontà sua, non decide di intervenire in difesa della democrazia, che proprio i suoi rampolli avevano messo in pericolo.
Non prima, però, di aver ottenuto un posto d’onore, occulto ma potentissimo, nel governo dell’Italia.
La morte di Moro nel maggio ‘78 è lo spartiacque. Scalfari, grazie a un’intervista postuma che ovviamente il diretto interessato non poteva smentire, e la solita intellighentia sinistra hanno voluto farci credere che fosse proprio lui l’inventore del compromesso storico.
Negli anni ho cominciato a dubitarne seriamente e mi chiedo se piuttosto Moro non sia stato ucciso proprio perché contrario a quel patto scellerato tra il diavolo e l’acqua santa da cui è nata la nostra vera rovina: il consociativismo.

È in quegli anni e in quei tribunali penali che prende forma il trio Lescano, composto dai giudici Violante e Caselli e dal fido poliziotto De Gennaro, inseparabili, immarcescibili e tristemente sempre presenti dietro tutte le storie italiane che più puzzano di marcio.
Mi fa pensare che non abbiano mai fatto mistero delle loro simpatie per il PCI, che non si facessero scrupoli a fare avanti e indietro dal Tribunale di Torino a Botteghe Oscure, tanto che proprio grazie a questo la loro carriera è stata inarrestabile.
E così mi stupisce che proprio Caselli sia stato incaricato di indagare sui compagni delle Brigate Rosse, quelli che non sbagliavano affatto, ma eseguivano alla lettera gli ordini di Mosca, da cui erano, a quanto pare, finanziati.
Contemporaneamente l’amico Violante era all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia a scrivere le norme sul terrorismo, per poi passare la barricata e diventare deputato PCI, e mi chiedo quanta parte abbia avuto nell’ideazione della legge sui pentiti.
Quella grazie a cui, come ci hanno fatto credere, il terrorismo sarebbe stato sconfitto, ma che, a mio parere, ha solo contribuito a salvare tanti delinquenti, soprattutto di sinistra.
Ho come la sensazione che ormai il terrorismo sarebbe finito comunque perché non serviva più. L’obiettivo era stato raggiunto.

Stanno arrivando gli anni ’80, quelli in cui sembriamo usciti dai bui e sanguinosi anni ’70 e ci illudiamo di essere tornati nel benessere. Si spende e si spande che è un piacere e non ci accorgiamo che ci stiamo solo scavando la fossa di un debito pubblico che schizza alle stelle, con la connivenza del pentapartito e della finta opposizione del PCI che, pur formalmente fuori dal governo, mette il becco in ogni uscita di spesa.
È nell’agosto ’78, pochi mesi dopo la morte di Moro, che nasce, infatti, la disgraziata e incostituzionale legge finanziaria e l’assurda disciplina di approvazione, nata appositamente per impedire al governo di governare e di decidere la spesa pubblica e le tasse senza avere l’appoggio esterno del PCI e del suo fido braccio armato, il sindacato con gli immancabili scioperi che hanno accompagnato ogni stesura.
Le conseguenze non si fanno attendere e nel giro di una decina d’anni e di finanziarie il nostro debito pubblico arriva a picchi mai visti, che ancora ci portiamo dietro.

La pace sembra tornata, apparentemente viviamo bene, ma è puro make-up. Il consociativismo sta dilapidando tutti i nostri averi e quelli delle generazioni future.
Sono gli anni delle spese folli, del fiume di denaro che dallo Stato arriva alle imprese e da queste torna ai partiti, ormai idrovore.
È il classico segreto di Pulcinella. Lo sanno tutti che i soldi se li spartiscono il pentapartito al governo e il PCI che si finge all’opposizione, ma in realtà, soprattutto grazie al tramite delle famigerate cooperative rosse, viene foraggiato per il suo appoggio esterno al governo nazionale, in particolare quando si tratta di varare le finanziarie e di tener buoni i sindacati, mentre fa il bello e il cattivo tempo nelle regioni dove governa indisturbato e dove si crea il più pauroso conflitto di interessi tra affari delle coop e politica.
È un sistema collaudato e incontenibile, grazie al quale ogni opera o servizio pubblico viene pagato molto più del dovuto, ovviamente a spese del deficit che nel giro di meno di un decennio passa dal 60% al 130% del PIL.
Questo surplus di capitale, come lo chiamerebbe il buon Marx, ritorna poi in buona parte nelle casse dei partiti, grazie ai quali gli appalti sono stati distribuiti nel più bieco clientelismo, nessuno escluso.
Il PCI in particolare, non si accontenta delle briciole lasciategli dai partiti di governo, e si fa pagare la sua finta opposizione con un quota di appalti assegnata alle coop, che poi girano parte dei proventi al partito.
Grazie alle rivelazioni del caro Mitrokhin, ovviamente messe sotto silenzio in Italia, sappiamo anche che le coop andavano oltre e fungevano da ambasciatrici a Mosca del simpatico PCI, che, per fantasmagorici appalti in terra russa, chissà poi se effettivamente eseguiti, ricevevano fior di rubli, sempre con destinazione finale Botteghe Oscure.

Apparentemente tutto fila liscio, i magistrati non indagano sul segreto di Pulcinella e l’idillio sembra destinato a durare.
Se non fosse che la Storia con la S maiuscola irrompe come un uragano e butta giù il muro di Berlino.
La botta per il PCI è impressionante, non solo si ritrova senza punti di riferimento politici, ma ha perso anche la fonte primaria di sostentamento della sua elefantiaca struttura, che certo non si reggeva con il ricavato delle salamelle alla Festa dell’Unità.
Bettino Craxi crede sia arrivato il momento buono per dare il colpo di grazia al PCI e conquistare la leadership della sinistra ormai spaesata. Crea, così, proprio nell’89, il CAF con Andreotti e Forlani, con il chiaro intento di mettere la parola fine al consociativismo degli anni ’80 ed eliminare la partecipazione occulta dei comunisti al governo.

Fa un grosso errore, però. La bestia è ferita, ma non morta.
Craxi non ha fatto i conti con il buon Violante, a capo del reparto giustizia del partito, e con le toghe rosse, cellule dormienti per un decennio, ma pronte ad attaccare con effetti devastanti.
Al PCI, nel frattempo camuffatosi in democratico di sinistra, bastano 3 anni per tornare più combattivo di prima.

Il ’92 è l’anno della rivoluzione. Devastante, incredibile.
Io non credo nelle coincidenze e non riesco a togliermi dalla testa che non possa essere un caso che accada tutto quell’anno. Ovviamente non ho prove, ma solo la netta sensazione che facesse tutto parte di un disegno diabolico per conquistare il potere, studiato a tavolino da una mente sopraffina. Di menti così nel PCI, all’epoca guidato da Ochetto, non è che ce ne fossero a bizzeffe. Aggiungeteci che era indispensabile un collegamento diretto con la magistratura e capite perché quell’uomo mi inquieta.

Il 6 aprile 1992, esattamente il giorno dopo le elezioni, che vedono il PDS prendere una batosta storica di 10 punti e scendere al 16%, parte in pompa magna l’inchiesta Mani Pulite.
Emerge all’improvviso il magistrato più rozzo e ignorante che si sia mai visto in un’aula di giustizia, tanto che ancora mi chiedo come abbia fatto non solo a passare il difficilissimo esame, ma addirittura a laurearsi, visto che sono indubbie le sue gravi lacune in italiano.
Per carità, sarà un genio del diritto e si sarà fatto capire comunque, ma mi risulta che al concorso di magistratura ti boccino per molto meno di un errore di ortografia. Buon per lui.
Fatto sta che, spintarella o meno all’esame, poco conta, ho sempre diffidato di quell’uomo.

All’epoca frequentavo giurisprudenza, proprio a Milano, e mentre tutti lo consideravano un idolo, io ho sempre sentito, di nuovo è solo questione di pelle, che c’era qualcosa o qualcuno dietro di lui che non mi sconfinferava.
Mi dava l’impressione che lui fosse solo una pedina, una testa d’ariete utilizzata da sfondamento, mentre i veri generali stavano nelle retrovie a controllare la battaglia.
Mi stupiva soprattutto il clamore che suscitava un’inchiesta che non faceva altro che portare sui giornali e nei tribunali il famoso segreto di Pulcinella.
Perché solo ora? Perché nessuno aveva mai indagato prima? Dov’erano stati tutti i magistrati del Pool fino ad allora? Davvero era stato uno come Di Pietro a scoprire l’acqua calda? Se era così facile scoperchiare il sistema, perché non lo avevano fatto prima?
Troppo domande senza risposta, o meglio che ce l’avrebbero, ma guai a darla.

E poi quel metodo barbaro e incivile di condurre le indagini, tutti sbattuti in galera per estorcere delle confessioni.
Quei terribili suicidi, quegli strani e sospetti suicidi, in primis quello di Gardini che dopo essersi sparato in testa da dietro, posa la pistola sul comò decisamente lontano dal letto, ma lo ritrovano sdraiato lì e senza segni di polvere da sparo vicino. Guarda caso proprio il giorno prima di presentarsi in procura dove avrebbe potuto raccontare anche troppo sulla famigerata maxi tangente Enimont, spartita tra tutti i partiti, PCI certo non escluso, anche se i giudici non si sono attardati troppo ad indagare in quella direzione.

Il problema di Mani Pulite, infatti, è stato proprio quello: nessuno discute che sia stata lodevole nel perseguire un sistema di corruzione che stava distruggendo l’Italia, ma lo scopo evidentemente politico con cui è passata come una schiacciasassi sui partiti della Prima Repubblica, lasciando fuori colpevolmente, anzi dolosamente, il PCI la macchia di una incancellabile infamia.
Gli italiani erano tornati in quegli anni a fidarsi dei giudici, credevano davvero che fossero mossi solo da sete di giustizia, erano tutti con loro, li osannavano come eroi, per primo la superstar Di Pietro, pensavano veramente che fosse arrivata l’ora del cambiamento e che tutti, ma proprio tutti, i politici colpevoli delle peggiori malefatte avrebbero pagato.
Peccato che la giustizia o è imparziale o non è.
Questo i giudici e i burattinai che avevano predisposto tutto a tavolino per l’ascesa al potere del PCI-PDS proprio non lo avevano voluto capire, o forse pensavano che fossimo più ingenui di quanto ci siamo poi dimostrati.

Ma torniamo ancora al ’92, l’anno dei magistrati per antonomasia, nel bene e nel male.
Dopo le dimissioni di Cossiga, toccato dal caso Gladio, la solita insulsa inchiesta che poi si rivela un buco nell’acqua, i parlamentari, completamente rintronati dalla devastazione di Tangentopoli, fanno l’errore clamoroso di eleggere il peggiore presidente che la Repubblica italiana abbia mai avuto, l’ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro (anche se ex non lo si diventa davvero mai).
Un’elezione per certi versi inaspettata, che arrivò proprio a pochi giorni dal tragico attentato che costò la vita ad uno dei più grandi magistrati che l’Italia abbia mai avuto, Giovanni Falcone.

Un magistrato vero, però, purtroppo per lui, non rosso e soprattutto contrario all’uso politico della giustizia, e che per questo, malgrado sia stato il primo ed il principale nemico della mafia, è stato prima linciato dal PCI e dai professionisti dell’antimafia e poi abbandonato al suo tragico destino.
La sua colpa? Non aver permesso al nostro Numero Uno di attaccare giudizialmente Andreotti tramite Salvo Lima, accusando di calunnia il solito pentito imbeccato alla bisogna.

Sarà un caso, sarà una combinazione, ma nello stesso periodo in cui il Pool di Milano distruggeva il pentapartito per le tangenti, Violante si inventava il famoso “terzo livello” e premeva sui magistrati siciliani affinché mettessero sotto inchiesta i politici DC per connivenza con la mafia.
Falcone si oppose a questo meschino massacro basato sulla cultura del sospetto, perché, come egli stesso ammise, “Questo è cinismo politico. Mi fa paura...”.
Per lui è l’inizio della fine, la Rete di Leoluca Orlando, affiancata dal PCI, o più porobabilmente spronata come testa d’ariete (guarda la combinazione: un’altro ariete oggi finito nell’Italia dei Valori) lo attacca in maniera pesante, viene isolato, accusato di nascondere le prove a carico dei politici.
Ed ecco che spunta anche il fido Caselli, tra i primi firmatari di un appello contro la Procura generale Antimafia, inventata proprio da Falcone e a cui gli sarà negata, per motivi tutti politici, l’elezione.

Ma non solo, a completamento del trio lescano, c’è il fido De Gennaro che, come ricorda magistralmente Jannuzzi in un articolo da brividi, tramite il suo pentito Buscetta, opportunamente imbeccato, comincia l’eliminazione di Bruno Contrada, uno dei migliori poliziotti d’Italia, che ha avuto il grosso torto di trovarsi sulla strada della carriera del superpoliziotto.
Dell’articolo, che vi invito a leggere qui, vi cito solo alcune frasi che fanno accapponare la pelle:
«Gianni De Gennaro ha fatto fuori Contrada quando questi era già passato al Sisde e aveva preparato per incarico del governo il progetto di trasformare il servizio segreto civile in una direzione antimafia. De Gennaro, allora dirigente della squadra mobile, aveva un altro progetto, caro a Luciano Violante e ai giustizialisti del Pci e ai magistrati professionisti dell’ antimafia, quello di organizzare la Dia, una direzione antimafia svincolata dai servizi e dalla stessa direzione generale della polizia e dal governo: quella che presto il presidente Cossiga avrebbe definito, chiedendone la soppressione, “la nostra ‘polizia politica’, la nostra Ovra, la nostra Gestapo, il nostro Kgb”, lo strumento più efficace per liquidare gli avversari con l’uso e l’abuso dei “pentiti” e dei processi politici. Liquidato Contrada e il suo progetto, De Gennaro creò la Dia e ne assunse il controllo, e inventò la “fabbrica dei pentiti”, divenne il “Signore dei “pentiti”...
Giovanni Brusca, il braccio destro di Totò Riina, catturato e “pentito”, racconta che ha viaggiato in aereo da Palermo a Roma con Luciano Violante e hanno concordato insieme la trappola per Andreotti (la prima cosa è provata, la seconda no).»

C’è in corso una guerra tra poteri senza esclusione di colpi e la posta in palio è il controllo della lotta alla mafia, o meglio dovrei dire il controllo delle indagini sulla mafia, che, purtroppo, è cosa ben diversa.
Da una parte ci sono magistrati come Falcone e Borsellino che vogliono organizzare per lo Stato e nello Stato, ma non con lo Stato, delle procure apposite che possano coordinare la lotta alla mafia, godendo della massima autonomia sia da parte della politica, sia soprattutto dallo strapotere della magistratura e dalle sue beghe e correnti interne.
Dall’altra parte ci sono magistrati come Caselli ed ex magistrati come Violante, che vogliono mantenere il controllo politico e del CSM sull’opera di questi giudici troppo indipendenti.
Allo stesso tempo, nella polizia è in atto una lotta intestina tra chi, come Contrada, vuole far convergere le indagini sotto il controllo dei servizi segreti interni, e chi, come De Gennaro, vuole il monopolio delle indagini di mafia sotto la neonata DIA, dove lui fa il bello e il cattivo tempo.

Purtroppo la guerra la vince Caino, ma procediamo con ordine nel ’92, perché è davvero un anno unico per la distruzione sistematica di tutti coloro che si sarebbero potuti opporre a quello che sembra proprio un disegno diabolico.
Se ne parla poco, ma a quanto pare Falcone, quando viene ucciso, stava indagando su uno degli scandali meglio nascosti dai nostri parzialissimi media: la connivenza pericolosa tra mafia nostrana, mafia russa, Cremlino e le cooperative rosse, che sguazzavano negli appalti siciliani quasi quanto in quelli emiliani.
Sarebbe dovuto partire a breve per Mosca per confrontarsi con un collega russo che stava seguendo lo stesso filone di indagini. Il tritolo di Capaci glielo ha impedito.
Il collega Borsellino che aveva ereditato le carte farà, purtroppo, la stessa tragica fine di lì a qualche mese e di quell’indagine non si saprà più nulla.
Pomicino narra che la notte di Capaci i servizi segreti italiani avrebbero filmato dei camion carichi di armi e di carte partire in tutta fretta da Botteghe Oscure, ma i riscontri nessuno li ha mai cercati.
Tutti casi, coincidenze? Solo i protagonisti possono saperlo.

Io vedo solo che, subito dopo la morte di Borsellino, Caselli viene messo a capo della procura di Palermo e possono finalmente partire i processi, non solo a mio parere tutti politici, contro Contrada, arrestato a dicembre, e contro Andreotti ed altri esponenti DC, grazie a quella fabbrica di pentiti che è ormai diventata la DIA sotto il controllo di De Gennaro, che sforna, gestisce e paga i pentiti ad uso e consumo della procura di Palermo, guidata da Caselli e, soprattutto, della Commissione Parlamentare Antimafia, di cui nel settembre ’92, ma tu guarda di nuovo la combinazione, è diventato presidente il caro Violante.
Pentiti che, come Buscetta, negli interrogatori fatti davanti a Violante e Caselli cambiano amabilmente versione come se nulla fosse e, con dichiarazioni contraddittorie del tutto prive di riscontro, inguaiano a dovere buona parte della DC locale e nazionale.

E così, ricapitolando questo strano gioco di casi fortuiti e combinazioni, assistiamo nel ’92 alla distruzione sistematica di tutti i partiti della Prima Repubblica, tranne uno a caso chiamato PCI, in una guerra portata avanti da nord dal Tribunale di Milano e da sud dal Tribunale di Palermo, dove i due più validi magistrati sono passati direttamente dall’ostracismo e dall’isolamento all’Olimpo dei martiri.

Ma, forse pochi ricordano che sempre nel ’92, nel pieno del caos, prendono il via le disgraziate privatizzazioni che, grazie all’opera del fino ad allora semisconosciuto our man Romano Prodi, portano alla svendita da parte dell’IRI delle più grosse aziende italiane.
D’altronde, quale momento migliore per trasferire per un piatto di ceci ad amici stranieri e italiani, che perennemente ringraziano, una serie di monopoli che da pubblici diventano privati, senza passare per le necessarie liberalizzazioni?
I politici hanno certo altro a cui pensare in quel momento e non hanno la forza di opporsi, l’opinione pubblica non capisce e saluta con giubilo tutto ciò che sottrae l’economia al controllo corrotto della politica.
Peccato che la nostra economia paghi ancora oggi le conseguenze di quel fallimento annunciato.

E non solo, la ciliegina sulla torta arriva a dicembre del ’92, quando in un parlamento devastato prende il via la riforma della legge elettorale che porterà ad un sistema maggioritario e segnerà la vera fine della Prima Repubblica.
Ormai la strada sembra spianata, il pentapartito non esiste più, con la nuova legge elettorale è sufficiente una maggioranza minima per fare cappotto, di partito ne è rimasto solo uno che, autodefinendosi “gioiosa macchina da guerra”, è pronto a e prendere il governo del Paese.
E così, malgrado il comunismo sia stato distrutto in tutto il resto del mondo, a soli 5 anni dal crollo del muro, il PCI, camuffatosi da PDS, è pronto a coronare un sogno durato 50 anni.

Peccato che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi e così, spuntato dal nulla e del tutto inaspettato, come il Mulo di Asimov, irrompe in campo Berlusconi e manda all’aria tutti i calcoli psicostorici dei comunisti nostrani (se non avete letto il ciclo della Fondazione, questa ve la spiego un’altra volta).
Apriti cielo!
Questa è una botta da cui non si sono ancora ripresi e che non gli perdoneranno mai.
Facile comprendere l’odio viscerale che contraddistingue tutt’oggi la sinistra italiana.

Il resto è storia recente che conoscete benissimo: gli avvisi di garanzia a mezzo Corriere, il ribaltone di Scalfaro, i processi infiniti portati avanti dai soliti giudici che non riescono ad accettare di aver perso la fiducia dei cittadini e continuano imperterriti a voler imporre i loro politici di riferimento distruggendo il nemico pubblico n. 1, i soliti metodi giustizialisti, gli stessi pentiti mafiosi privi di riscontri, la denigrazione continua dei media, le accuse di fascismo, populismo, razzismo, nepotismo e benaltrismo.
In altre parole il berlusconismo e l’antiberlusconismo come unico filo conduttore della politica degli ultimi 15 anni.

E oggi? Gli italiani sono andati avanti, hanno aperto gli occhi, si sono stufati di questi attacchi continui, hanno perso completamente la fiducia nei giudici e vogliono cambiare pagina.
Ma i giapponesi non mollano e insistono, insistono, insistono.
E chi poteva essere il faro dei giustizialisti, se non l’idolo di allora, il pm d’assalto Di Pietro, che sembra ogni giorno di più la caricatura di se stesso.
No, lui non mi preoccupa, è una macchietta che non si rende conto di essere il principale fautore delle vittorie di Berlusconi.
Di Uolter che cerca di imitarlo non vale neppure la pena di parlare.

C’è qualcun altro di cui avere davvero paura, qualcuno molto più intelligente e astuto degli altri, uno che non si mette mai in mostra, che resta nell’ombra ed ha ancora una cartuccia mortale da sparare.
Uno che ormai da tempo ha capito che l’attacco frontale non paga, che si finge riformista, conciliante, che non perde occasione per lanciare dichiarazioni di disgelo alla destra e sembra essersi dissociato dal giustizialismo che lui stesso ha inventato, che sembra accogliere con favore le proposte di riforma della giustizia, che non esita a rinnegare i suoi (apparentemente) ex amici di procura, che cerca in tutti i modi di mostrarsi saggio, imparziale, istituzionale, uomo di Stato al di sopra di ogni sospetto.
Ecco, lo dicevo all’inizio, saranno sensazioni, sarà una questione di pelle, sarà il puzzle che ho cercato di ricostruirvi, ma mi si rizza il cuoio capelluto a pensare che a breve Luciano Violante potrebbe diventare giudice della Corte Costituzionale.
Al solo pensiero dei danni che potrebbe fare alla Consulta, distruggendo sistematicamente, senza alcun mandato elettorale, tutte le leggi approvate dal Parlamento votato dal Popolo sovrano, mi vien male.

Non posso credere che, oggi come oggi, la maggioranza sia così ingenua da cascare nella trappola ed eleggere lui quale membro di nomina parlamentare. Davvero sarebbe un suicidio.
Il problema, però, sarebbe solo rinviato perché fra pochi mesi sarà Napolitano a dover nominare un altro giudice della Corte Costituzionale e con il Colle rosso c’è poco da star tranquilli.

Che fare? Mobilitazione di massa, petizioni on-line, raccolta di firme, una valanga di e-mail al Quirinale? Si accettano suggerimenti e adesioni.
Lo so che col disastro mondiale dell’economia, sembra l’ultimo dei nostri problemi, ma è proprio nei periodi di caos che passano sotto silenzio le peggiori nefandezze.
Che sia il caso di far partire fin da subito la campagna “Non mi fido di Violante”?
Chi ci sta?




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mercoledì 27 agosto 2008

Le colpe del centrodestra nella Malagiustizia

In questa seconda parte del decimo capitolo del libro di Giacalone, troverete indicati gli errori compiuti dal precedente Governo Berlusconi in materia di riforma della giustizia.

Il fatto che questi errori vennero favoriti dalla fronda messa in atto dal Presidente NON-emerito della Repubblica, Azeglio Ciampi, non assolve, a mio parere, la pusillanimità della maggioranza che, dal 2001 al 2006, ha sostenuto (si fa per dire) il secondo Governo Berlusconi.

E' anche per questo motivo che chi scrive queste note si è incazzato come un puma quando ha avuto sentore, qualche settimana fa, che la nuova maggioranza voleva praticare la stessa NON-politica nei confronti della Magistratura: stavolta non ha neppure l' alibi di Ciampi e dell' UDC.

Stavolta, o si fa 'sta benedetta Riforma, e la si fa seriamente, o si Muore, della serie: "ora o mai più".

Il testo che leggerete oggi si inserisce perfettamente nelle polemiche di questi giorni innestate da quei dementi (si fa per dire) che dirigono l' Associazione Nazionale Magistrati ....



Fra il 2001 ed il 2006 in Parlamento c’era una solida maggioranza di centro destra. Nel corso di quei cinque anni il conflitto politico con la magistratura associata e politicizzata non ha praticamente mai avuto sosta.

Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente.

Il centro destra mostra di non avere la capacità d’impostare una complessiva politica per la giustizia e si lancia all’inseguimento di emergenze legate a questo o quel procedimento.

Verrà accusato di fare leggi ad personam, ovvero ritagliate sulle esigenze di questo o di quello, ma, in realtà, dalle rogatorie alla prescrizione accorciata per gli incensurati, sono tutte norme di banale civiltà, direi di ovvia bontà, destinate a portare nuove garanzie per tutti, ma agguantate sempre all’ultimo minuto e sempre senza la capacità di parlare apertamente dei diritti di tutti.

Per giunta, una volta fatti i conti, s’è semmai verificato il contrario: alcune garanzie vengono appositamente limitate affinché non siano applicabili a questo o quel caso concreto, tanto da poter effettivamente dire che alcune leggi sembrano aver dei buchi proprio per non giovare a delle persone specifiche.

Si oscilla per cinque anni fra la battaglia campale e l’accordo corporativo, da una parte si blandisce, dall’altra si gratta la magistratura associata.

Si rinuncia alla separazione delle carriere e si ripiega sulla distinzione delle funzioni, quindi si cerca in tutti i modi il dialogo, peraltro sollecitato da un Quirinale spesso fuori dai binari costituzionali.

Ma non ci si accorge che quel dialogo non è affatto testimonianza di moderazione e civiltà, bensì di cedimento agli interessi di pochi sacrificando quelli collettivi. Uno spettacolo inverecondo alla fine del quale rimane nell’opinione pubblica la sensazione che si sia agito solo per convenienze contingenti, particolari e personali, nel mentre i propri uomini, che si erano pubblicamente difesi, finiscono condannati.

Così gli uni potranno pensare che si era violentato il diritto nel tentativo di salvarli, senza riuscirci, e gli altri pensano di essere stati condannati proprio perché vittime di uno scontro in cui la maggioranza politica soccombeva.

Quei cinque anni dovrebbero essere ripassati al rallentatore e studiati, se non altro per capire che la politica per la giustizia non la devono fare i magistrati, ma non la si può affidare neanche agli avvocati. Gli uni e gli altri in quanto tali.

Dovrebbero essere rivisti per comprendere quali guai crei il non disporre di professionalità politica, il non sapere esattamente dove è bene mettere le mani. Il conflitto è talmente forte che ne fa le spese la migliore legge che il centro destra vara, ovvero la numero 46, meglio nota come legge Pecorella, approvata il 20 febbraio 2006 dopo che già aveva subito il rinvio alle Camere deciso dal Presidente della Repubblica.

Nella legge, operativa dal successivo 9 marzo, si stabilisce che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle “ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva”.

E ciò significa che, se un imputato viene assolto in primo grado, a meno di casi eccezionali e di nuove decisive prove, non può più essere processato per il medesimo reato.

È previsto inoltre l’obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta d’archiviazione quando la Corte di cassazione si sia pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che giustificano l’applicazione di una misura di custodia cautelare e, successivamente, non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.

Si tratta di due principi giustissimi.

Il primo, perché la presunzione d’innocenza, rafforzata da una sentenza d’assoluzione, non può piegarsi ad una decennale persecuzione giudiziaria, ed è evidente che siccome la condanna deve essere al di là di ogni ragionevole dubbio quel dubbio sarà più che ragionevole se la prima sentenza è di assoluzione.

Il secondo, perché se degli elementi d’accusa non sono sufficienti ad arrestare una persona è escluso che possano esserlo per condannarla in via definitiva.

Trovo imbarazzante che due solari evidenze debbano anche solo essere argomentate. Eppure successe il finimondo.

La legge aveva effettivamente un difetto relativo al ruolo della Cassazione, e su quel punto poteva sia essere scritta meglio che subire un severo giudizio istituzionale, ma il presidente Ciampi rifiutò di firmarla e la rimandò alle Camere, fra gli applausi del Consiglio Superiore della Magistratura e delle toghe associate, anche con un altro, del tutto errato, motivo: il fatto che non si potesse ricorrere contro un’assoluzione, laddove si continuava a poter ricorrere contro una condanna, sarebbe stata una violazione della parità fra le parti.

Il che è un’assoluta mostruosità culturale, purtroppo poi avallata dalla Corte Costituzionale, la cui rotta non è riuscita a restare estranea alle innumerevoli pressioni ed alle tante grida scomposte.

Perché è una mostruosità? La parità fra le parti si riferisce, in tutti i sistemi accusatori del mondo, nessuno escluso, al momento dibattimentale, vale a dire al processo in aula.

In quella sede il giudice deve essere del tutto terzo (e da noi non lo è, a vantaggio dell’accusa, che del giudice è collega) e le due parti, accusa e difesa, devono avere eguali diritti ed eguali doveri.

E questo nessuna persona civile può metterlo in discussione.

Ma se si allarga lo sguardo a quel che viene prima della fase dibattimentale, quindi al lunghissimo periodo che va dall’emergere della notizia di reato alle indagini, per poi giungere all’udienza preliminare, non solo le parti non sono affatto pari, ma la forza della procura è incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi cittadino.

La procura lavora con i soldi dello Stato, il cittadino si difende con i propri.

La procura ha consulenti presi da tutte le forze dell’ordine, il cittadino se li deve pagare.

La procura ha poteri intrusivi nel corso delle indagini, il cittadino non ne ha nessuno.

La procura può arrestare, il cittadino può essere arrestato.

La procura può lavorare in pool, ovvero dedicare molti magistrati a quell’inchiesta, il cittadino deve vendere tutto, ammesso che abbia qualche cosa, per creare un pool di avvocati.

La procura non soffre per il tempo che passa, il cittadino nel frattempo subisce il peso dell’inchiesta.

Potrei continuare per pagine, e non farei che scrivere cose del tutto ovvie.

Quindi non è affatto vero che ci sia parità fra le parti, o, meglio, quella parità arriva molto tempo dopo.

A fronte di questo, dopo avere subito l’inchiesta, le eventuali misure cautelari, spesso il pubblico screditamento, dopo avere pagato la difesa, il cittadino è infine assolto al processo, e se, a questo punto, gli si riconosce il diritto di non essere disturbato oltre ciò viola la parità fra accusa e difesa?

Ma si deve essere del tutto matti per sostenere una simile corbelleria, o, più probabilmente, non si deve sapere quel che si dice e ci si limita ad ascoltare la voce corporativa di toghe cui andare avanti per anni non costa nulla e non sposta nulla.

E, lo ripeto sapendo di ripetermi, come si fa a condannare un cittadino, a riconoscerne la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, se per lo stesso fatto un tribunale lo ha già assolto?

Tenuto anche conto che il giudice dell’appello non ascolta i testimoni, non assiste al formarsi della prova, ma lavora sulla carta, su quel che si è scritto nel primo grado.

Tutto questo senza contare che il protrarsi di quel processo, il desiderio della procura di riprovare ad ottenere una condanna già negata, non solo è una tortura per il malcapitato, ma anche un costo sociale, perché si costringerà altri giudici a dedicare tempo e denaro pubblico all’esame di quel che loro colleghi hanno già giudicato insufficiente per una condanna.

L’allungarsi del procedimento si riflette inevitabilmente sull’allungarsi dei tempi della giustizia, tema che, come abbiamo visto, ci procura già molti guai.

Anzi, si allontana la ragionevole durata del processo, cosicché i magistrati possano ancora lamentarsene ad ogni inaugurazione d’anno giudiziario.

Ma non si ragionò di questo, non si ragionò di diritto e di diritti, si impostò il problema di una maggioranza politica che voleva togliere poteri alle procure, chiamando tutti gli avversari di quella maggioranza a dar man forte ad una reazione di cui molti dovrebbero vergognarsi.

E credo anche la Corte Costituzionale.

Così, comunque, cadde la norma migliore di quella stagione politica.

Così si dimostrò che la malattia della malagiustizia non è curabile con provvedimenti parziali e circoscritti.

La politica, del resto, di qualsiasi colore sia, non riuscirà mai a far funzionare le cose, non riuscirà ad invertire la rotta del naufragio se non spezzerà l’autoreferenzialità inefficiente della magistratura.

Da una parte serve, come abbiamo visto, la separazione delle carriere, ma serve anche mettere le mani sul Consiglio Superiore della Magistratura.

Ripeto l’espressione, affinché non sembri mi sia sfuggita una non voluta esagerazione: si devono “mettere le mani” sul Csm.

E si deve farlo per non tradire la Costituzione.

Le toghe correntizzate ci tengono a gridare che chi tocca il Csm aggredisce e distrugge la Costituzione,

Invece è vero il contrario: a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la Costituzione è stata ridotta in coriandoli.

L’articolo 104 della Costituzione esprime concetti chiari, e molti di quelli che lo citano a sproposito contano sul fatto che chi li ascolta non lo abbia letto. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.

Le parole hanno un senso, e qui si esclude che la magistratura sia un “potere”, ma la si vuole “ordine”. Distinzione niente affatto scolastica, perché nasce dal fatto che il “potere” risiede nelle leggi, che sono fatte dal Parlamento, frutto a sua volta dell’unico sovrano legittimo, in democrazia, il Popolo.

Ed il 104 continua: “Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica”.

In questo modo non si volle trovare l’occasione di una comparsata che consentisse una proiezione televisiva (allora c’erano solo i giornali e la radio), non si volle indicare una funzione meramente decorativa per l’inquilino del Quirinale, ma si stabilì che chi governa un ordine autonomo ed indipendente deve farlo sotto la regia di chi rappresenta l’unità della nazione e dei suoi cittadini.

Hanno fatto male, malissimo, i Presidenti della Repubblica succedutisi a prender sottogamba quel ruolo, con l’unica eccezione di Francesco Cossiga, che ad un certo punto si trasferì a Palazzo dei Marescialli per affermare il sacrosanto principio che quell’organo non aveva il diritto di pronunciarsi su provvedimenti politici, di governo e legislativi.

I componenti del Csm “sono eletti –scrisse il costituente- per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”.

Questo è l’unico punto in cui si dette prevalenza ai magistrati, nella composizione.

Quel che allora non si era neanche immaginato è che il meccanismo elettorale scelto avrebbe portato a creare delle correnti politicizzate, a loro volta moltiplicanti i peggiori istinti corporativi ed autoconservativi della categoria.

Questa previsione costituzionale, però, precedeva immediatamente un altro concetto fondamentale: “Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento”.

Quindi la presidenza spetta ad un non magistrato e la vice presidenza, che ha compiti fondamentali, ad uno dei nominati dal Parlamento.

Il costituente, insomma, ce la mise tutta nel cercare di evitare che il Csm divenisse quel che è divenuto.


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lunedì 25 agosto 2008

Il colombo Furio e la coccinella Concita

Come ben sanno i frequentatori di questo blog, paraffo legge raramente il Giornale di Berlusconi (Paolo) e rarissimamente lo cita, ma oggi deve fare una eccezione e invitarvi alla lettura di ben due articoli a loro modo straordinari e, anche, divertenti.

Il primo è di Giancarlo Perna ed è dedicato a Furio Colombo, il grande odiatore di Berlusconi.

Il tratto interessante di questo pezzo non è politico, in senso stretto, ma sociologico perchè l' autore, descrivendo la carriera di Colombo, ci regala il ritratto di un tipico intellettuale italiano della prima repubblica.

Colombo è - a mio parere - il simbolo di quell' Italia finto-cattolica, finto-atea, finto-marxista, finto- fascista, finto-liberale, finto-capitalista, insomma, finto-tutto che io disprezzo totalmente e che mi auguro (forse ingenuamente) stia per tirare le cuoia, sempre che il centro-destra, stavolta, abbia le palle di seguire Berlusconi, l' unico che, volendolo, abbia la capacità di liberarci da questo incubo che dura da 80 anni (e oltre).

Il secondo articolo è di Polo Guzzanti ed è dedicato al nuovo direttore de l' Unità, Concita De Gregorio.

Questo pezzo è interessante politicamente, invece, in quanto - attraverso le vicende direttoriali di quel giornale - descrive lo stato di sfascio in cui versa il PD veltroniano, stato di cui noi di destra dobbiamo gioire sì, ma fino ad un certo punto, cioè ben poco.

Come dice lo stesso Guzzanti, una democrazia deve viaggiare su due gambe. Oggi viaggia su una sola, quella del centrodestra. Dunque, non viaggia, ma zompetta come sempre.

I teatrinanti della politica continuano a trastullarsi - persino quando stanno in vacanza - enumerando le Repubbliche, chiedendosi se siamo nella seconda o già nella terza.

A me pare che siamo ancora alla prima: è dal 1948 che esiste una maggioranza ma NON non esiste una opposizione. Così era e così è tutt' ora.

Dunque, a mio avviso, potremo parlare di SECONDA Repubblica solo quando esiterà anche una opposizione capace di andare al governo a sua volta e governare davvero.

Insomma, è mia opinione che, senza una opposizione VERA, anche una maggioranza non può governare DAVVERO.

L' articolo di Guzzanti ha il merito di farci sapere che, a tutt' oggi, di una vera opposizione non si vede neppure l' ombra e di farcene - giustamente - preoccupare.

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mercoledì 20 agosto 2008

Malapolitica e Malagiustizia: binomio indissolubile

La cosa "avvilente" di questo libro di Giacalone è che ogni capitolo contiene denunce peggiori del precedente ...

In questo decimo capitolo, che pubblicherò a puntate per permettervi di assaporarlo meglio, si parla della malapolitica che è la causa prima della malagiustizia.

Sì, amici miei, perchè deve essere chiaro a tutti che è stata l' ignavia dei politici a rendere possibile quella dei magistrati, così come è l' ignavia di noi cittadini a rendere possibile quella dei nostri rappresentanti in Parlamento.

Un popolo di adoratori del Papa, del gioco del calcio e delle canzonette di Vasco Rossi, un popolo di bacchettoni cattolici marxisti o fascisti che pensano che lo Stato sia altro da sè, un popolo così profondamente illiberale da fare spallucce di fronte ad una amministrazione della giustizia che definire vergognosa in tutti i suoi aspetti è un eufemismo, un popolo siffatto si merita i politici che ha e - di conseguenza -  i magistrati che ha.

La lettura di questo capitolo ha rafforzato la convinzione che ho espresso in queste ultime settimane, secondo la quale non ha senso continuare a "tifare" - attraverso questo blog - per il Governo Berlusconi se questo non si farà carico di varare la "regina" di tutte le riforme, quella della giustizia.



Fra poche pagine descriverò un programma immediato per la giustizia, e lì si troverà ancora l’urgenza e la necessità di separare la carriera dei giudici da quella dei procuratori.

Chi è giunto fin qui ha già letto diverse considerazioni su questo tema, che però riprendo, perché decisivo. Questa volta ripartiamo da una presa di posizione autorevole e di segno completamente opposto, quella del procuratore generale della Repubblica, presso la corte di cassazione, e dalle sue parole del 26 gennaio 2007:

“(...) si è disposta la separazione delle funzioni di giudice e di pubblico ministero, rendendo estremamente difficile, e necessariamente limitato a pochi casi, il passaggio dall’una all’altra funzione; passaggio che invece dovrebbe essere incoraggiato e facilitato. A mio giudizio, infatti, è proprio nell’interesse dell’imputato che il magistrato che svolge le funzioni di pubblico ministero abbia l’habitus mentale del giudice e cioè tenda alla sola ricerca della verità, senza acquisire una mentalità agonistica e persecutoria. Peggio ancora sarebbe la completa separazione delle carriere, oltre tutto prodromica all’assoggettamento del pubblico ministero al potere politico”.

Mario Delli Priscoli continua:

“La separazione delle carriere instaurerebbe un modello di pubblico ministero basato sulla ricerca esasperata dei risultati, senza la media zione dei valori e della cultura delle garanzie. Un modello che potrebbe essere fortemente esposto alle pressioni dell’opinione pubblica, che spingono in molti casi alla ricerca di un colpevole ad ogni costo, senza andare tanto per il sottile sulle prove e sulla ricerca delle vere responsabilità. (...) Il decreto legislativo n. 106 del 2006, relativo alla riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, è stato accolto dalla magistratura con non poche riserve, anche per il pericolo di eccessiva gerarchizzazione e burocratizzazione”.

Non solo credo che Delli Priscoli si sbagli, ma trovo gravissimo che egli abbia potuto pronunciare queste parole alla presenza delle più alte cariche dello Stato, e trovo scandaloso che nessuno glielo abbia fatto notare.

Lo scandalo sta nel fatto che la magistratura è chiamata ad applicare le leggi, e se invece di farlo le “accoglie con non poche riserve” vuol dire che l’intero sistema è già saltato.

Lo dicevamo all’inizio, quella cerimonia inutile e soporifera (l’inaugurazione dell’anno giudiziario) consente anche che tali veleni s’insinuino nel già malato corpo della giustizia, senza che nessuno abbia più neanche la sensibilità e la lucidità per reagire. Ma veniamo all’errore del procuratore generale, e dei tanti suoi colleghi che la pensano come lui.

Ma in che mondo vive, il dottor Delli Priscoli?

Dove li ha visti i pubblici ministeri che non s’industriano a trovar le prove contro gli indagati ma s’adoperano per far trionfare la loro innocenza?

A me non è mai capitato di vederne anche uno solo. Uno. E non direi neanche che si tratta di un istinto persecutorio, ma semplicemente del fatto che, nella pratica, ciascuno di loro si sente rappresentante dell’accusa, si vive come parte fin da prima che si avvii un processo, e, in un certo senso, le cose sono già andate dove la forza di gravità le spinge, opponendosi a questa evidenza la forza d’attrito corporativa, quella di chi, come Delli Priscoli, difende il proprio diritto di poter scegliere di volta in volta, sulla base della sede e della carriera, cosa fare.

È inutile girarci attorno e costruire false teorizzazioni, la separazione delle carriere è un’indispensabile necessità del processo accusatorio, non c’è alcun posto al mondo dove lo sconcio italiano della colleganza trova riscontro, ma vi si oppongono solo e soltanto interessi di casta, miserabili egoismi carrieristici di una minoranza che si fa potente del potere che solo la legge dovrebbe avere.

Tanto potente da divenire sfrontanta, tanto sfrontata dal sostenere che si possa guardare con sospetto a quelle leggi di cui le toghe dovrebbero essere la voce.

La “cultura della giurisdizione” è una fanfaluca, una roba che non si trova nella testa, prima ancora che nella condotta, di chi interpreta un ruolo legato al sistema accusatorio pensando di poterlo far convivere con i privilegi castali del vecchio sistema inquisitorio.

E qui veniamo ad un punto sul quale è bene essere chiari: è vero, per separare le carriere vi è un ostacolo costituzionale. La nostra Costituzione è stata scritta da chi viveva, aveva conosciuto e manteneva la cultura del sistema inquisitorio.

In quel sistema le prove si raccoglievano e formavano prima del processo ed il pm lavorava sotto la supervisione del giudice istruttore. Tutto un altro mondo, che ben poteva tollerare la comunanza delle carriere e ben poteva giovarsi della “cultura della giurisdizione”, ovvero del portare lo stesso abito mentale, le stesse attenzioni e gli stessi scrupoli nelle diverse funzioni.

In quel sistema il cittadino era l’oggetto ed il suo avvocato prendeva solo alla fine atto di quel che si sarebbe portato al processo.

Tutto questo si ribalta con l’accusatorio, dove le parti devono essere sullo stesso piano e non esistono prove raccolte, ma solo informazioni e documentazioni che diventano prove davanti ad un giudice terzo, del tutto estraneo alle parti e che la legge vuole anche del tutto all’oscuro dei fatti sui quali è chiamato a giudicare.

Pur mantenendo immutato il dettato costituzionale è possibile approdare ad una tappa intermedia, consistente nella separazione delle funzioni: i magistrati sono tutti colleghi, ma chi sceglie di rappresentare l’accusa non può diventare giudice, e viceversa, se non a determinate condizioni, con tempi stabiliti e, ovviamente, non nella stessa sede.

Abbiamo visto che la magistratura associata si ribella anche a questa ipotesi minimale. Che, però, è e resta minimale.

L’approdo civile è la separazione delle carriere, con la necessaria modifica costituzionale, che riguarda più la forma che la sostanza, ma, appunto, nel diritto la forma è sostanza.

Un serio programma riformatore, una seria determinazione a rendere migliore la giustizia italiana, non s’accomoda a dare qualche botta al sistema esistente, manco fosse una carrozzeria bitorzolata, per non prendersi l’incomodo di dover sostenere la necessità di forme nuove.

Ragionassimo così, le macchine sarebbero ancora delle carrozze a trazione motorizzata.

La separazione delle funzioni è un accomodamento intermedio, reso del tutto inutile, del resto, dall’opposizione corporativa. Mentre la separazione delle carriere è il minimo indispensabile perché il processo assuma una forma di serietà.

Lo ripeto: non c’è Paese civile di questo mondo dove si trovi nulla di simile all’orgia corporativa della magistratura italiana.

Forse Delli Priscoli non se ne rese conto, ma proprio la sua alta collocazione nella carriera, proprio l’autorevolezza che ne deriva e la singolarità della sede dove ha pronunciato quelle parole, segnano l’evidenza di un drammatico stato di decadimento del diritto. Della cultura del diritto.

Una politica che voglia rendere migliore l’Italia non può accontentarsi di nulla di meno di un serio rimedio. Non sta scritto da nessuna parte che una seria riforma della giustizia debba farla una parte politica anziché un’altra. Possono, anzi devono, avere idee diverse, ma tutti quelli dotati di senso di responsabilità dovrebbero avere in mente un modello diverso da quello attuale.

Ma capita che, per le ragioni descritte all’inizio di questo libro, la sinistra sia passata da una buona cultura garantista ad una totale acquiescenza alla propria ala giudiziaria, e giustizialista.

Quando il tempo sarà passato e queste cose potranno essere lette con maggiore freddezza, s’individuerà in quella deviazione una delle cause dell’impoverirsi del pensiero riformatore nel mondo della sinistra.

La destra italiana prese forma, nel biennio 1992-1994 stando abbondantemente dalla parte dell’inciviltà, coltivando quella devozione per l’inquisizione e quel disprezzo per le garanzie costituzionali che poi la sinistra volle rubarle, come fosse un oggetto prezioso e non una degenerazione ripugnante.

Ma subito dopo aver preso forma, quella stessa destra si trovò a subire l’attacco delle toghe ed ebbe modo di provare, sulla propria pelle, la forza devastante del giustizialismo, la sua capacità di torcere i binari della democrazia.

È per questa ragione che si poteva supporre sarebbero state quelle le forze in grado, per convenienza anche propria, di porre un freno alla caduta. Si poteva supporre, ma le cose sono andate diversamente.

Fra il 2001 ed il 2006 in Parlamento c’era una solida maggioranza di centro destra. Nel corso di quei cinque anni il conflitto politico con la magistratura associata e politicizzata non ha praticamente mai avuto sosta.

Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente. (Segue ....)


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lunedì 18 agosto 2008

Video: Incontro a Cortina 2008 sulla Malagiustizia

Grazie all' amico Andrea, eccovi i link a You Tube relativi ad uno degli aspetti più aberranti della malagiustizia italiana: l' uso dei pentiti.

Gli interventi sono di Davide Giacalone, Vittorio Pezzuto e Lino Jannuzzi










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domenica 10 agosto 2008

La Malagiustizia impedisce la crescita economica.

In questo nono capitolo del suo libro, Giacalone ci fa sapere come la malagiustizia civile sia causa dell' impoverimento sistematico del nostro paese, in una proporzione tale da risultare quasi incredibile (circa lo 0,70% del PIL)!!

Non credo di dover aggiungere altro.

Leggete e inorridite.


Un mercato dove la giustizia non funziona è un mercato corrotto.

Non si tratta solo dell’incapacità ad individuare e perseguire i reati di corruzione, ma, più generalmente, dell’incapacità a far rispettare le regole.

Un mercato dove il rispetto delle regole non sia garantito, e dove l’infrangerle non avvenga sotto la realistica e tempestiva minaccia di una punizione, è un mercato che si corrompe. Nel suo insieme.

Questa, purtroppo, è la nostra condizione.

Al fiorire smodato di regole ed adempimenti non fa seguito un accurato ed efficace controllo, cosicché la superfetazione legislativa e regolamentare finisce con l’essere una tortura per chi si picca di volere essere nel giusto e nel rispetto, mentre diventa uno spauracchio poco temibile per chi del rispetto delle regole si fa un baffo.

Nel Paese in cui tutto è proibito, in cui per tutto è necessaria l’autorizzazione, la vidimazione, l’autentica, il permesso, chi cerca di procurarseli perde un sacco di tempo, chi se ne frega può ragionevolmente sperare di farla franca.

Siccome appartengo io stesso alla categoria dei timorosi e timorati e non mi faccio mancare neanche un timbro so, per esperienza, che la precedente affermazione può lasciar perplessi i miei simili, ma, vedete, sono proprio quelli come me che temono la sanzione per quello che neanche pensavano di avere il dovere di possedere o custodire a vita, finché morte non li colga, mentre c’è una vasta categoria di concittadini che se la ride e sa bene che la pubblica amministrazione fa la faccia feroce solo all’inizio, mentre poi non è in grado di far rispettare se stessa e si smarrisce nei corridoi dei tribunali.

Io m’incupisco anche quando l’agenzia dei tributi mi fa sapere che è tutto in regola, perché sotto aggiunge che questa sua affermazione non fa testo, ma altri se la ridono anche quando vengono scoperti in plateale evasione, giacché sanno, come le statistiche dimostrano, che sarà difficile costringerli a scucire un tallero.

Gli scandali finanziari sono parte stessa del mercato, ed in nessuna parte del mondo si è in grado di prevenirli tutti.

La cronaca statunitense, del resto, ci ha restituito storie di grandi crack nati da truffe vere e proprie, nelle quali hanno rimesso soldi i risparmiatori ed i lavoratori, bruciando ricchezza del mercato a vantaggio di qualche maneggione.

Ma quelle stesse cronache raccontano poi di procedimenti giudiziari avviati alla svelta e condotti con gran severità. Il che ha portato certuni a scendere dall’aereo privato per entrare in galera e starci lunghi anni.

Da noi gli scandali finanziari sono oggetto di chiacchiera sociale.

Li si sviscera sui giornali, ci si scrivono libri, ma delle sentenze, e delle relative pene, neanche l’ombra.

I presunti responsabili (presunti, accidenti, perché così c’impone la civiltà, anche quando sono dichiaratamente colpevoli) finiscono in carcere nel corso delle indagini, non scontano alcuna pena ma ci passano qualche settimana, talora mesi, poi escono e si fanno fotografare con la famiglia, intenti a riscoprire i valori di una volta e la fede trascurata.

I processi durano anni, tanto che si fa in tempo anche a dimenticarsene.

I risarcimenti sono una chimera e, con il passare del tempo ed il divenire la materia buona solo per ricostruzioni dietrologiche, si diffondono leggende di coinvolgimenti innominabili, di ambienti intoccabili, di livelli inavvicinabili.

Mentre l’unica cosa cui non ci si avviciana, appunto, è una giustizia decente.

È dei nostri giorni un’inchiesta che dura anni, dove si scopre che una banda di spioni, pagata diecine di milioni da due aziende quotate in Borsa, commetteva reati a gogò violando la riservatezza di intere comitive.

Ma ogni volta che i capi di quell’azienda, quindi quelli che avevano assunto, istruito e pagato i presunti (sempre accidenti) responsabili di quei reati ne parlano dicono: noi siamo parte lesa.

È una barzelletta, che non fa neanche ridere.

Poi prendono un noto avvocato, lo mettono a presiedere l’azienda e quando litigano quello se ne va dicendo di aver visto una realtà che gli ricorda la Chicago dei mafiosi che sparano per strada.

Ma quelli continuano ad andare in giro e dire: siamo la parte lesa.

La cosa non sarebbe grottesca se si pensasse d’arrivare in tempi ragionevoli ad un processo, per cui le cose vengono a galla e se quei signori sono veramente parte lesa si rivarranno sui rei, oppure parteciperanno della loro sorte.

Ma questo non avviene, e ci teniamo il grottesco.

Tutto ciò, sia chiaro, non lo sappiamo solo noi che la mattina facciamo colazione mangiando il cornetto e leggendo le intercettazioni di turno, lo sa tutto il mondo che, difatti, diventa sospettoso e riottoso quando si tratta d’investire soldi in Italia.

E se poi il partner mi truffa, a chi mi rivolgo? Al giudice che sentenzia dieci anni dopo, sempre che lo faccia, no, grazie.

Ed è anche questo il motivo per cui preferiscono evitare d’avere società di diritto italiano, e se le occasioni sono ghiotte investono utilizzando veicoli esteri e scrivendo esplicitamente che, in caso di problemi, il foro competente sarà una sede internazionale.

Mai Roma, mai Milano.

Così procedendo, però, il nostro mercato s’impoverisce, il nostro stesso fisco incassa meno e, pertanto, tutti paghiamo una tassa per l’inesistenza di una giustizia degna di questo nome.

Dall’inizio alla fine di una procedura di fallimento passano, in media, 3.140 giorni. Quasi nove anni.

Immaginate di avere un’azienda che deve avere dei soldi dal fallito e fate due conti di quanto vi costa l’inesistenza della giustizia.

Confartigianato i conti ha provato a farli (non è facile, ma a spanne sono possibili) e ne ha dedotto che per le sole imprese artigiane quei costi ammontano a 2,3 miliardi l’anno, in media 384mila euro ad azienda.

Dicono che il costo del ritardo per la riscossione dei crediti è di 1.157 milioni di euro, mentre il costo indotto dagli ingenti ritardi delle procedure concorsuali obbliga le imprese a sostenere maggiori oneri finanziari per 1.174 milioni, incrementando in tal modo del 12,2% le perdite dei fallimenti, che sono già enormi ed ammontano a 9.606 milioni.

Nel complesso, al sistema economico, i fallimenti portano una perdita di 10,7 miliardi, ovvero una cifra che fa lo 0,76% del prodotto interno lordo.

Si guardi questa tabella, frutto dell’elaborazione di Confartigianato dei dati Istat e Infocamere relativi al 2005:

Non solo sono dati drammatici, ma riportano a galla una differenza territoriale che segna lo svantaggio di certi imprenditori per il solo fatto di trovarsi in una regione anziché in un’altra.

E si tratta di uno svantaggio dovuto alla giustizia, quindi allo Stato. Senza contare lo svantaggio dell’intera azienda-Italia rispetto ai diretti concorrenti esteri.

Si calcola che “se prendiamo a riferimento il tempo per far rispettare un contratto la performance del nostro sistema giudiziario presenta profonde inefficienze rispetto ai sistemi giudiziari dei principali Paesi industrializzati. La durata media rilevata dalla Banca Mondiale nel 2006 per far rispettare un contratto del valore pari a due volte il reddito pro capite in Italia è pari a 1.210 giorni, superiore ai 515 giorni della Spagna, ai 394 della Germania ed ai 331 della Francia”. Dove, non dimentichiamolo, tutti si lamentano per la lentezza della giustizia. Abbiamo visto (secondo capitolo) che alla giustizia ed al suo naufragio ha dedicato attenzione il governatore della Banca d’Italia, nelle considerazioni finali lette all’assemblea del maggio 2007.

Prima ancora lo stesso istituto aveva pubblicato un lavoro di Amanda Carmignani2, dove si legge che: “in ambienti dove le tutele giuridiche sono più scarse o inefficienti, la disponibilità relativa del credito commerciale può risultare maggiore, soprattutto per le imprese per le quali l’esistenza di asimmetrie informative può determinare forme di razionamento da parte degli intermediari creditizi. Le informazioni utilizzate per l’analisi empirica sono state ottenute incrociando le statistiche giudiziarie civili diffuse dall’Istat con i dati sui bilanci delle imprese presenti nella base dati della Centrale dei bilanci e con quelli sul sistema creditizio tratti dalle segnalazioni di vigilanza e dall’archivio anagrafico delle banche tenuto presso la Banca d’Italia.

I risultati mostrano che laddove l’enforcement giudiziario è più debole, le imprese ricorrono in maniera più intensa alle dilazioni di pagamento presso i fornitori; ne risulta accresciuta l’incidenza del debito commerciale sul totale dei debiti”.

Ed aggiunge che: “La relazione tra funzionamento della giustizia e indebitamento commerciale può essere spiegata in base al grado di tutela dei creditori. Sotto questo profilo, il credito commerciale presenta un vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento a breve termine che lo rende più indipendente dal funzionamento dei meccanismi di tutela giuridica formale: oltre alla limitata entità degli importi e ai brevi tempi di dilazione, la protezione è assicurata dalla natura del finanziamento (input specifici piuttosto che denaro, cfr. Burkart e Ellingsen, 2002) e dalla credibilità della sanzione che l’impresa venditrice è in grado di imporre a quella acquirente in caso di inadempimento (la sospensione della fornitura della merce).

Quando la tutela legale dall’insolvenza o da comportamenti “opportunistici” dei debitori non è elevata, il livello di incertezza nei mercati dei finanziamenti aumenta ed ex ante gli intermediari finanziari sono meno disposti a concedere credito, soprattutto ai soggetti ritenuti più rischiosi (imprese più opache, caratterizzate da livelli bassi di garanzie, ecc.).

In simili circostanze le imprese che hanno difficoltà di accesso al mercato del credito possono utilizzare il credito commerciale come parziale sostituto di finanziamenti a breve termine alternativi”.

Tutto questo, naturalmente, senza considerare che l’inefficienza della giustizia nel recupero dei crediti consegna a talune organizzazioni criminali l’inquietante fascino della tempestività e dell’efficacia.

Per ragioni anche politiche, capita che la discussione sull’agonia della giustizia si concentri su quella penale, ma sarebbe un grave errore ignorare il progressivo venir meno di quella civile.

Basti considerare che il 70% delle cause civili di contenuto economico finiscono con il risolversi in un accordo fra le parti.

Il che non deve far credere al successo della volontà conciliativa, ma al fatto che nella grandissima maggioranza dei casi il debole soccombe prima del giudizio, non riuscendo a sopportarne la lentezza ed i costi.

Così capita che si accetti di avere meno soldi di quelli cui si avrebbe diritto, o che ci si arrenda in giudizio, o che ci si arrenda una volta vinto il giudizio e constatato che sta per aprirsi il calvario non meno lungo e periglioso dell’esecuzione.

Nel processo penale le tattiche dilatorie servono a fare andare in prescrizione i reati, in quello civile servono a prendere per la gola chi non ha le spalle economicamente robuste.

Proprio per queste ragioni, proprio perché la motivazione è prevalentemente economica, basterebbe un adeguato disincentivo economico per riportare molti tempi alla ragionevolezza.

Un esempio: il tasso d’interesse legale e quello di mercato sono solo lontani parenti, così che chi deve dare dei soldi a qualcun altro ha tutto l’interesse, anche economico, a darglieli il più tardi possibile.
Ci guadagna, anche materialmente, nel rimanere in possesso di quei quattrini.

Se quell’incentivo venisse meno, se tenersi soldi di altri fosse un onere e non un modo per guadagnare, molte meno persone avrebbero interesse a perdere tempo.

È noto che gli avvocati hanno accolto con avversità l’idea che il loro onorario dipenda, sebbene solo in parte, dal patto di quota lite, ovvero dal valore reale della causa e dal suo esito.

Ma farebbero bene a riflettere su questa loro posizione, perché in altri Paesi europei il pagamento degli avvocati prevalentemente a success fee è considerato normale: mi fai vincere, ti pago; mi fai perdere, ti rifondo le spese.

In questo modo si ottiene un primo filtro professionale, di grande valore: nessuno vorrà prendersi in carico cause visibilmente suicide, in cui la probabilità di successo è praticamente nulla.

Ed in questo modo anche la giustizia civile (ovvio che il discorso non vale nel penale) respira.

Pensare, invece, che il mestiere dell’avvocato consista nell’assecondare sempre e comunque il cliente, anche quando ha platealmente torto, per poi riscuotere parcelle fissate da un tabellario non è che sia dimostrazione di una concezione particolarmente orgogliosa del proprio lavoro.

Accanto a questo va fatto un ragionamento sulla “lite temeraria”, ovvero sull’impiantare cause civili del tutto pretestuose, sapendo di essere dalla parte del torto.

Le leggi puniscono tale atteggiamento, ma solo dal punto di vista teorico, perché assegna all’altra parte l’onere di dimostrare il danno subito.

Invece questa è una strada da percorrere, per disincentivare l’insana abitudine di portare davanti ad un giudice questioni prive di rilievo e razionalità (anche se temo che, estendendo tale concetto al penale, sarebbero non pochi i pubblici ministeri protagonisti della lite temeraria). Non si deve mai perdere, comunque, la cognizione che lo sfascio della giustizia è causa di un grave ed irreparabile danno economico. Un Paese povero di giustizia è povero anche di capacità produttive.


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