lunedì 21 luglio 2008

Quando giovani magistrati andavano a Pechino ad imparare il mestiere

Eccovi la seconda puntata del libro di Giacalone, in cui si fa un po' di storia patria, tanto per capire da dove e perchè è nato lo sfascio (definitivo) della magistratura italiana.

Vi ricordo che potete scaricare il libro intero da qui

Buona lettura!

Fin dall’inizio il lettore troverà molte volte dei riferimenti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che opera tutelando la relativa Convenzione. Non si tratta di un modo per scrivere in giuridichese, ma di uno strumento che, come vedremo, deve essere utilizzato dai cittadini, anche a dispetto dei legislatori, per mettere l’Italia sul banco degli imputati.

È un nostro dovere, e vedremo il perché.

Già questo è un rimedio, cui, infine, accompagneremo delle proposte specifiche. Il guaio del tema giudiziario è che tutti quelli che hanno una lontana infarinatura da facoltà di giurisprudenza, per non parlare delle moltitudini di magistrati ed avvocati, ritengono di potere pontificare.

Invece no, questo non è un tema per addetti ai lavori e ciascuno deve essere messo nella condizione di avere un’opinione.


Le proposte che qui si trovano possono anche non essere condivise, e certamente devono essere discusse, ma a partire da un assunto ineludibile: così com’è la giustizia non funziona e non può funzionare.

Possiamo buttarci una valanga di quattrini, ma non otterremo il trionfo del diritto, bensì l’arricchimento di una burocrazia che ne usurpa il nome.


Infine, ultima avvertenza, queste pagine non sono state scritte “contro” la magistratura, perché, come è stato già detto fin dalla prima riga, non esiste alternativa civile ad avere fiducia nella giustizia, ma non se ne può più di una classe autotutelata ed impunita in cui i molti che lavorano sono sotto schiaffo di una ragnatela correntizia dalla quale dipendono assai più che dalle leggi.

Si deve fare gran pulizia, si deve intraprendere un’autentica rivoluzione per il diritto e per i diritti. Delle eterne scaramucce non sappiamo cosa farcene.

Nel nostro sistema i giudici sono chiamati ad applicare la legge, chi non la condivide se ne può andare, chi non sa farlo deve essere buttato fuori.
La giustizia italiana rende un così cattivo servizio al cittadino che non dovrebbe esserci alcun dubbio sulla necessità di riformarla profondamente.

Diciamo che, in condizioni normali, si dovrebbe mettere nel conto l’esistenza di ricette diverse sul come riformarla. Sarebbe ragionevole, ad esempio, che taluni mettano l’accento sulle garanzie al cittadino ed altri sulla necessità di fronteggiare la delinquenza, che si privilegi un processo accurato o uno più snello e veloce, che si tenda a credere in un ruolo più importante per il procuratore della Repubblica, incaricato della difesa delle leggi dello Stato, oppure sulla più completa parità delle parti, in coerenza con il modello accusatorio (tipo film americani, per intenderci).

Sarebbe ragionevole il conflitto fra idee diverse, ma non è ragionevole affatto, invece, la rincorsa a baciar la toga, lo sperticarsi ad assicurare ai magistrati, riuniti in convegni, correnti, conventicole ed assembramenti nei corridoi che mai e poi mai si vuol fare loro del male, mai e poi mai se
ne vuole colpire l’indipendenza autoreferenziale.

Ed è talmente radicata e forte questa viltà della politica, così capace di figliare una letteratura da incultura del diritto, che già sento alzarsi l’accusa di lesa toga: ah, tu vuoi mettere in gioco l’autonomia dei magistrati. La risposta è: Sì.

E lo si deve fare proprio perché non c’è seria alternativa al credere nella giustizia.

Deve essere indipendente e non condizionabile il giudizio, il verdetto, la sentenza.

Ma questo non può e non deve significare che ogni magistrato possa sentirsi fonte del diritto e della verità, sciolto da vincoli di legge e da controlli disciplinari.


Questa è la ricetta dello sfascio, questo è quel che già ci ha condotti a storcere il diritto.

La politica, davanti alle toghe, se la fa sotto ed arretra per diversi motivi. Intanto perché nel Paese dell’ipocrisia,dove il rispetto della norma scritta è un’opzione e da questa si discostano i costumi, nessuno può essere sicuro di non aver qualcosa da tener celato.

All’ipocrisia s’aggiunge
l’ignoranza e la scarsa concezione di sé.

Chi mai crede di dover riformare la giustizia per parlare al futuro e rimette-
re in cammino l’Italia?

Qui è un miracolo se si sopravvive senza passare alla cronaca nera, figuriamoci se c’è testa per pensare alla storia!

Più in profondità, però, ci sono cause che hanno radici antiche, la cui responsabilità va ricondotta ai politici di un tempo, che pagarono assai caro il loro errore.

Il potere dei magistrati è uscito dai suoi binari naturali per colpa della cattiva politica.


Per capire come si sia potuti giungere a questo punto si deve fare un passo indietro, andare agli anni settanta. Gli anni in cui la corrente di sinistra, Magistratura Democratica, discuteva nei convegni su come si potesse prendere il potere mediante i tribunali, gli anni in cui qualche cretino integrale, qualche rifiuto d’università che nessuna parentela avrebbe mai dovuto avere con la legge, da magistrato andava ad assistere ai processi cinesi, condotti negli stadi e conclusi con le pene di morte, e se ne tornava a casa straparlando di meravigliosa giustizia popolare.

E si deve tornare a quegli anni non per sostenere che le toghe erano e sono rosse, nel senso di politicizzate e comuniste, perché la questione è più complessa, e se chiedo al lettore di seguirmi non è per far perdere tempo, ma perché capire è essenziale, conoscere è la premessa per potere rimediare.

In quegli anni, appunto, le correnti di sinistra credevano effettivamente alla necessità e possibilità di far uscire l’Italia dall’alveo delle democrazie occidentali e farla entrare nell’inferno di quelle popolari (che erano comuniste e per niente democratiche).

In quegli stessi anni, però, prendeva piede il terrorismo politico, l’estremismo armato che irrigò di sangue le strade italiane. Fu fascista, sia nella versione stragista e bombarola che in quella, sempre fascista, a mano armata, nata per reazione all’idea che i neri fossero sempre servi dello Stato deviato (tema che, da solo, meriterebbe un libro, ma che qui solo accenno).

E fu comunista, sia nella versione post partigiana, quella che mitizzava il mitra quale strumento per vendicare la rivoluzione resistenziale tradita (quella che avrebbe voluto sostituire una dittatura con un’altra), sia nella versione legata ai servizi dei Paesi comunisti, che puntavano a destabilizzare l’Italia, al tempo stesso frontiera della Nato e sede del “più grande partito comunista d’occidente”, come, con orgoglio, gridavano quelli stessi che oggi fanno spallucce a sentir ricordare l’esistenza dei comunisti.

Ma che, beota, ci caschi ancora? Solo Berlusconi è così baluba da credere ai comunisti!

Già, peccato che loro son sempre gli stessi, e noi li conosciamo bene.

Questo secondo, più forte e devastante, tipo di terrorismo creò problemi enormi, allo Stato ed al partito comunista. Proprio perché strumento nelle mani di potenze nemiche, capace di utilizzare manovalanza italiana allevata nella cecità ideologica e solo raramente consapevole di quale gioco stesse giocando (lo sapevano bene alcuni capi, che oggi sono fuori dalla galera senza mai avere raccontato come stavano le cose), non era debellabile con normali politiche di ordine pubblico e, in fondo, si preferiva lasciare nell’ombra il pericolo connesso al gestire in casa nostra uno scontro internazionale.

Quella roba, però, era pericolosa anche per il Pci, che vedeva sovrapporsi contatti e canali di finanziamento propri con quelli dei terroristi.

Vedeva messa a rischio la propria sicurezza perché quei soldi e quelle azioni minacciavano gli spazi d’autonomia che si era creato. In fondo tutti i capi comunisti, da Togliatti a Berlinguer, detestavano i sovietici, ma tutti loro erano dai sovietici finanziati e certo non hanno mai pensato (fino al 1991, quindi fino al crollo dell’Unione Sovietica) di rinunciare a quegli appoggi, quel sostegno, quei canali d’informazione ed addestramento ed a quei quattrini. Mai.

Preferivano restare dentro la grande famiglia dell’internazionale comunista, sebbene ritagliando spazi di marginale dissenso, utili anche ad espandere la propria influenza in un Paese appartenente alla Nato.

Ma, dall’altra parte, c’era chi non vedeva la cosa di buon occhio e, quindi, non soffriva nel finanziare un partito armato alla sinistra del Pci.

La minaccia era duplice, quindi, per lo Stato e per il Pci.

Non per questo gli interessi dell’uno s’identificavano con que l’ombrello lli dell’altro, ma era chiaro che il dilagare terroristico metteva a rischio entrambe.

Sono gli anni in cui, non a caso, Berlinguer va dicendo di sentirsi più sicuro sotto della Nato, quelli in cui, visto quel che era successo in Cile, ripeteva che non si governa con solo il cinquanta per cento più uno dei voti.

Poteva, in quelle condizioni, risolversi lo scontro con i terroristi con un serio colpo di maglio repressivo?

No, perché non se ne era capaci. Perché questo avrebbe richiesto un governo forte, serio, consapevole, autonomo. L’opposto, insomma, di quel che si vide nei cinquantacinque terribili giorni del rapimento Moro.

E qui entra in ballo la giustizia.

Il duplice attacco aveva fatto avvicinare la democrazia cristiana ed il partito comunista, la necessità di difendere lo Stato aveva spinto personalità importanti e democratiche a guardare positivamente questo processo.

L’idea fu questa: utilizziamo la corrente comunista della magistratura per combattere i terroristi.

Ma come? Dotandola di poteri speciali.

Nacque, così, la legislazione emergenziale, che, in realtà è una vera e propria delega, un abdicare del potere politico in favore del lavoro repressivo da far fare alla magistratura.

Le carcerazioni preventive si allungarono ed il reato di “banda armata” consentiva di mettere le mani dentro il brodo di coltura del terrorismo e tirare su, più o meno a casaccio, gente da consegnare alle patrie galere.

Non era più necessario dimostrare che il Tizio od il Caio avessero commesso specifici reati di sangue, era sufficiente dimostrarne l’appartenenza ad un’organizzazione politica gerarchizzata, a sua volta responsabile di reati gravi, per tenerli al fresco praticamente senza limiti di tempo.

Poteva, questo lavoro, farlo la magistratura “normale”?

No, perché i magistrati che ci provarono finirono morti stecchiti a pistolettate, così come morirono o furono gambizzate le voci libere del giornalismo, quelle che raccontavano quel che vedevano senza preventivi ossequi alla chiesa comunista.

Era necessario “creare consenso” attorno a quelle azioni, a quelle retate, e questo poteva farsi solo utilizzando quelle stesse persone che erano appena uscite da un convegno su come smontare lo Stato di diritto e far trionfare il comunismo.

Chi non riflette su quanto debole fosse lo Stato che affrontò il terrorismo non riuscirà mai a capire quel che successe dopo.

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