martedì 22 luglio 2008

Magistrati che isolano e lasciano assassinare Falcone

Grazie a Radio Radicale, ho appena potuto visionare la registrazione video di 40 minuti di teatrino della politica andati in scena, ieri pomeriggio, in Parlamento.

Titolo della pièce: "Il dito medio di Bossi".

Bossi, ministro della Repubblica, ha osato dileggiare l' inno nazionale, quello - per capirci - che i giocatori di calcio si rifiutavano di imparare e di cantare in occasione delle partite internazionali, quello che ha riportato in auge il Presidente Emerito Ciampi per salvarsi l' anima dal fatto di aver malgovernato l' Italia da Governatore di Bankitalia,
da Ministro e da Presidente del Consiglio del centrosinistra.

40 minuti di teatrino che ha visto il solito trionfo della retorica italiota che privilegia la forma alla sostanza. Tutti rispettosi della Bandiera, dell' Inno nazionale, della Costituzione, salvo calpestarli ogni giorno, da 60 anni, nei fatti, sgovernando in modo ignobile questo paese.

Dunque, parlando di ignominie italiane, eccovi la terza e ultima parte del primo capitolo del libro di Giacalone dedicato alla prima delle patrie ignominie, la Malagiustizia.

In questa terza parte sono ricostruite le vicende di tre eroi nazionali, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino e dei loro nemici mortali, tutt' ora vivi, vegeti e operanti: Violante, Caselli, Leoluca Orlando.

Ecco, lasciate perdere la retorica della bandiera e documentatevi sui fatti reali leggendo quanto segue, che non è opera di fantasia, ma tragica realtà.

Il Parlamento, insomma, il potere legislativo approntò gli strumenti giuridici per rinunciare al proprio ruolo, per mettere il potere esecutivo, il governo, al riparo da una battaglia durissima che lo avrebbe esposto sul fronte delle relazioni internazionali (allora i democristiani erano filo
palestinesi ed anche in Vaticano soffiava dall’est un vento assai diverso da quello poi portato da Karol Vojtyla, allora governava Agostino Casaroli, e molte cose si capiranno quando un giorno si potrà conoscere la verità del rapimento Orlandi), per consegnare ai magistrati le armi del combattimento.

Alla lunga si vinse, ma tenete bene a mente un nome, quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Già, perché credo che nella vittoria dello Stato non abbia contato tanto l’imbarbarimento del diritto, ovvero quei provvedimenti legislativi che già allora destavano il sospetto di giovanissimi garantisti, certamente anticomunisti (quali eravamo e siamo), ma anche sensibili al rispetto del diritto.

Allora, dato che il terrorismo era comunista, il garantismo era di sinistra. Ah, che beffa, con il senno di poi!

Ma non furono quelle norme da sole a segnare la svolta, contò molto la decisione del generale di entrare in un bar genovese ed ammazzare i terroristi che vi si trovavano.

Era il segnale della guerra, che ogni equilibrio era rotto, che chi si armava contro lo Stato sarebbe morto sotto al fuoco delle armi dello Stato.

Fu il generale Dalla Chiesa a segnare la svolta, non le retate del 7 aprile 1977 ed il processo ad Antonio Negri ed Autonomia Operaia. Tenetelo a mente, perché fra poco ci torniamo.

Potevano, le cose, andare diversamente? Sì. L’esempio più pertinente ci viene dall’allora Repubblica Federale Tedesca. Anche quello era un Paese di frontiera, lo era anche più dell’Italia, visto che era diviso in due, anche lì la democrazia aderente alla Nato dovette subire l’attacco terrorista finanziato dall’est.

Ma lì la risposta politica fu statuale e durissima, lì lo Stato era più forte e la sinistra di governo era socialdemocratica. Lì dei comunisti non si
aveva gran rispetto, era proibito esserlo e se lo eri non potevi neanche accedere ai pubblici uffici.

Altro che Magistratura Democratica.

Lì presero i capi della Raf (le locali Brigate Rosse) e li ammazzarono. Fecero prima e fecero in fretta quel che a Dalla Chiesa era costato tempo e fatica. Un’altra storia, appunto.

Per le sue caratteristiche e per i suoi legami internazionali il terrorismo comunista non poteva certo definirsi un’“emergenza”. Non era una catastrofe naturale, ma un derivato della guerra fredda e della nostra debolezza politica ed istituzionale.

Era parte della nostra storia, al punto che, ancora oggi, si fa fatica a chiamare le cose con il loro nome, si fa fatica a definire Gian Giacomo Feltrinelli un criminale, si fa fatica a scandagliare il mondo che alle spalle ed attorno a quel terrorismo si mosse perché si rischia d’incontrare gente che ci ostiniamo a considerare per bene.

Restiamo il Paese dei misteri perché restiamo il Paese dei bugiardi, degli ipocriti tremuli che non sanno guardare in faccia la propria storia.

Per questo preferimmo far finta che si trattatasse di un’“emergenza”, l’ennesima parentesi destinata a durare quasi venti anni e che si pretende d’isolare dal resto della nostra identità collettiva.

Se non era un’“emergenza” il terrorismo, figuriamoci la mafia.

Ma, anche in questo caso, si preferì imboccare tale strada, isolando e mandando a morte Giovanni Falcone, come Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Ed anche qui c’entra la giustizia, anche qui la si scassò pur di delegare ai magistrati una guerra che la politica non seppe e non volle gestire.

Il generale fu nominato prefetto. Era osteggiato dalla sinistra e certo non trovava solidarietà fra i governanti della città di Palermo. Era troppo facile dire che si comportava come un corpo estraneo, che non conosceva l’ambiente, fino al punto di mettere in mezzo il recente matrimonio con una donna più giovane, come a dire che non ci stava troppo con la testa.

Lui chiedeva più poteri per riuscire a portare in città un’idea diversa di far la guerra alla mafia.

Quei poteri vennero dati al successore, quando la partita era oramai persa, il corpo estraneo era stato rigettato e lui era morto.

Giovanni Falcone ha avuto più tempo per lavorare ed ha potuto dimostrare che da una parte le indagini patrimoniali e, dall’altra, l’idea di addebitare le responsabilità penali alla “cupola”, vale a dire al ristretto gruppo che comandava la mafia, davano buoni frutti.

Il tutto, sempre, cercando riscontri e non fidandosi della parola dei mafiosi disposti a collaborare. Si deve ricordare che ai tempi della lotta al ter-
rorismo, quando si varò la legislazione premiale per i collaboratori di giustizia (che furono chiamati, spesso del tutto a sproposito, “pentiti”), un eroe della Resistenza e gran democratico, Leo Valiani, ci tenne a sottolineare che quelli erano, prima di tutto, dei traditori e degli spioni, salvo il
fatto che lo Stato faceva bene ad approfittarne.

Figuratevi cosa si doveva pensare dei mafiosi che si decidevano a parlare, a violare l’inviolabile principio dell’omertà. Falcone, che parlava la lingua, ben sapeva quale tipologia umana si trovava fra le mani e certo non si sognava di fidarsi.

Tu mi dici una cosa, io cerco il riscontro, la prova, se non li trovo la tua resta la parola di un disonorato.

Falcone fu isolato e silurato da Magistratura Democratica.

Fu osteggiato e sconfitto da gente come Luciano Violante ed Elena Paciotti. Tutti e due capi bastone della magistratura politicizzata, tutti e due parlamentari eletti nelle liste del fu partito comunista.

Furono loro a far sì che il Consiglio Superiore della Magistratura giudicasse Falcone indegno di combattere la mafia.

E fu Leoluca Orlando ad accusarlo di essere addirittura connivente con i politici in odor di mafia, nascondendo nei cassetti le prove della loro
colpevolezza.

Questa sinistra, politica e giudiziaria, che negli anni appresso, per garantire onnipotenza ed immunità ai propri uomini, avrebbe sostenuto che la mafia ammazza solo quelli che sono prima stati isolati e negletti, riservò esattamente questo trattamento a Giovanni Falcone, che morì ammazzato.

Da quel momento si poté smettere di combatterlo e cominciare a santificarlo. Così gli stessi che lo avevano allontanato da Palermo potevano, ogni anno, sfilare condolenti per ricordare il suo coraggio, la sua tenacia ed il suo sacrificio. Se c’è una pagina orribile, è questa.

Attenzione: Falcone suscitava tanta ostilità perché faceva il magistrato, e lo faceva indagando e cercando di ottenere la condanna degli imputati che portava a processo, senza timore nel prosciogliere gli innocenti.

Si rifiutava di usare le armi della giustizia per fare politica, si rifiutava di muovere accuse non dimostrabili solo per rendere favori
propagandistici. Era un magistrato, come tutti dovrebbero essere.

Tolto di mezzo lui, e, anzi, usando proprio l’emozione popolare legata alla morte sua e del collega Borsellino, si poté realizzare il capolavoro di passare tutti i poteri ai suoi avversari, portando a Palermo quel Giancarlo Caselli, antico collega e sodale di Violante, che avrebbe fatto l’esatto contrario, ovvero avrebbe seguito la via tracciata da una commissione parlamentare, quella antimafia, presieduta da Violante, per tradurne in tribunale le conclusioni.

E avrebbe portato sul banco degli accusati quella politica e quel politico, Andreotti, del cui governo Falcone era stato collaboratore.

Anche dopo morto, dunque, a parte le ipocrisie rituali, continuarono a combatterlo.

Ed ecco, dopo quella terroristica, la seconda delega in bianco data ad alcuni magistrati, quella contro la mafia.

Il Parlamento ed il governo la diedero per ignavia, paura, viltà. Nessuno osava opporsi alla politica di Violante, nel timore di doverne rispondere in altra sede. Nessuno osava sollevare la testa, e così passò il secondo mostro giuridico, il reato di non affiliazione, ma collaborazione esterna con
la mafia.

Una roba che non era la partecipazione diretta e neanche il favoreggiamento (nel qual caso si doveva dimostrare con quali atti, od omissioni si era favorito o coperto un crimine).

Invece, con il “concorso esterno” si poteva mettere le mani su chiunque. E così fu, fra le grida di osanna della cosiddetta libera stampa e l’accusa di mafiosità ai pochi, pochissimi che osavamo dire: questa è barbarie giuridica.

Il mondo politico che così si castrò, e per sicurezza anche evirò, ha colpe enormi e nessuna attenuante.

Non è un caso che quello stesso mondo politico sarebbe stato eliminato dalla mano che aveva contribuito ad armare, quella delle procure.

Badate, quella delle procure, non della giustizia. Perché la giustizia, lentamente, a singhiozzo, troppo tardi, ma delle volte arrivò.

Quando giunse, però, gli accusati erano già civilmente morti, e talora anche fisicamente.

Su questo occorre tornare, e lo faremo parlando dell’interazione fra il giustizialismo di certe procure ed il giornalismo.

Quello che, per ora, mi premeva raccontare e chiarire è che il deragliamento della giustizia è stato lungamente preparato, cospargendo i binari del diritto del bitume portato da leggi descriventi reati niente affatto chiari, dai quali era difficile difendersi, al punto da consegnare nelle mani dell’ accusa un potere smisurato.

Ne è derivato che per una politica giudiziaria di quel tipo era del tutto irrilevante che si giungesse a delle sentenze, e lo stesso processo era visto
non come il momento in cui si potesse accertare la verità, ma, al contrario, come quello in cui la verità iniziale, quella dell’accusa, sarebbe stata inquinata e corrotta, fino all’abominevole punto d’essere negata.

Ma, pur giudizialmente negata, quella era la verità storica, venduta a piene mani nei supermarket dell’informazione asservita. Ed è questo vele-
no ad essere penetrato nel profondo del terreno civile e culturale, rendendone imbevibili le acque e mortali le esalazioni.

Per questo il compito che ci aspetta non è “solo” quello di rimettere il treno della giustizia sui suoi binari, ma anche quello di bonificare tutto l’ambiente intorno rivitalizzando la cultura del diritto e dei diritti.

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6 commenti:

Andrea ha detto...

Caro,
un cambio turno alla radio non mi consente di dedicare molto tempo al nostro riservatissimo club, ma
con questo post non potevo fare a meno di nominarti.
Un abbraccio

Andrea

*paraffo* ha detto...

Grazie, Andrea e a presto.

Ho letto con piacere l' articolo di Calderola, giornalista che ho avuto modo anch' io di citare più di una volta ed apprezzare per la sua onestà intellettuale, così rara nelle file della sinistra italiana.

Andrea ha detto...

Amico mio scusa l'OT ma ho appena assistito al dibattito al Senato sul lodo Alfano. Gasparri strepitoso!
Stimolato dal suo intervento ho trovato questo.
Io non ho granchè tempo, se vuoi sviluppare tu...

Ciao amico!

*paraffo* ha detto...

Anch'io ho seguito le dichiarazioni di voto, ieri sera, al Senato.

Devo dire che la cosa che mi ha divertito di più, di quella spassosa commedia, è stata l' affermazione della Finocchiaro che il PD sarebbe stato disposto a collaborare alla stesura di quella legge perchè il suo partito è composto da gente ragionevole e responsabile!

E' vero, la Finocchiaro si era offerta di collaborare, purchè la legge fosse entrata in vigore a partire dalla prossima legislatura, per non dare l' impressione che era stata elaborata per favorire Berlusconi!!!!

Altro che commedia, qui siamo alla farsa, caro Andrea .....

Comunque, da ieri sera, il voto espresso dagli italiani lo scorso aprile è salvo: Berlusconi potrà governare senza la spada di Damocle della magistratura sulla testa.

Spero sappia approfittarne per riformare, in primis, la malagiustizia che affligge questo paese.

Buona giornata. Ciao!

Bibbi ha detto...

Un salutino per dirti che, sto passando da te ancora con più piacere, perchè lo sto rileggendo volentieri ;))
Buona giornata..

*paraffo* ha detto...

Mi fa piacere, Bibbi.

Alla prossima, ciao!