venerdì 1 agosto 2008

L' aberrazione del nostro sistema giudiziario-giornalistico

Con questa puntata si chiude il Terzo Capitolo del libro di Giacalone.

Contrariamente al solito, mi mancano le parole per abbozzare un sia pur minimo commento:

quello che scrive Giacalone è sufficiente a provocare i brividi ed il muto avvilimento di qualsiasi lettore dotato di un minimo di sensibilità umana, ancora prima che democratica ...


I pm sono magistrati, ben pagati dallo Stato, per svolgere la funzione di accertamento sulla possibile esistenza di reati, e, quindi, su chi se ne è eventualmente reso colpevole.

Tanto è vero che essi non sono (non dovrebbero essere) i paladini dell’accusa e che il codice di procedura penale li obbliga a svolgere indagini anche a favore dell’indagato.

Quindi, si badi bene, il buon pubblico ministero non è lo spietato accusatore ad ogni costo, ma colui il quale, senza guardare in faccia nessuno e senza avere pregiudizi di nessun tipo, mira diritto all’accertamento della verità, quale che essa sia.

Se un pm, però, si mette a passare notizie d’accusa ai giornalisti, così come è stato ripetutamente e pubblicamente fatto, egli non commette solo uno specifico reato (la violazione del segreto istruttorio), ma getta nel fango tutta intera la propria funzione.

Viola alla radice le norme che regolano le indagini preliminari, fa venire meno ogni forma di tutela dell’onorabilità di cittadini che devono essere da lui considerati non colpevoli fino a prova (a prova) del contrario, e, quindi, distrugge ogni possibilità di affiancare la propria azione ad una qualche idea di giustizia.

Ad un pm non può essere fatto carico di nessuna responsabilità se, nel corso di un’inchiesta che attira l’attenzione dei giornalisti e dell’opinione pubblica, capita che il suo nome diventi famoso.

La fama, di per sé, non è indizio né di grande capacità, né di violazione di alcuna regola.

Ma se, come capita spesso, il pm fa di tutto, ma proprio di tutto, per potere incontrare un giornalista, per farsi riprendere dalle telecamere, per potere sostare qualche minuto davanti ai microfoni, con l’aria di chi non sta più nella pelle dalla contentezza per essere riuscito ad affacciarsi sul piccolo schermo, beh, in questi casi, al pm in questione possono essere fatte molte colpe.

E sarà bene che chi di dovere, come il Consiglio Superiore della Magistratura, non si limiti a dire che i pm non devono rilasciare interviste, facendo finta di non accorgersi che ne rilasciano un paio al giorno.

Anche la credibilità di questi organi, con il tempo, si logora.

Vi è poi un modo di passare le notizie ai giornalisti che, però, non è un reato, e lo si realizza mediante la pubblicizzazione dei processi, anche questa è una pratica su cui occorre riflettere.

Il processo è pubblico, su questo non si discute, e faccio osservare che è pubblico proprio perché, in anni lontani, si è voluto evitare che, nel segreto, si consumassero violazioni del diritto.

I processi dell’inquisizione, tanto per dire, non erano pubblici, mentre pubblica era l’esecuzione della condanna.

I processi sono stati resi pubblici, dunque, a tutela degli imputati. Sarà bene non dimenticarlo.

Ma la differenza fra “pubblico” e “spettacolare” esiste, ed è forte.

Faccio un esempio. Negli Stati Uniti, dove ancora persiste questo barbaro costume, l’esecuzione capitale è pubblica, è obbligatorio che ci sia un pubblico, nel senso che dei testimoni devono assistere alla regolarità con cui si commette l’omicidio legale.

Per quanto la cosa sia ripugnante, tale pubblicità è comunque assai diversa dalla spettacolarità, mentre spettacolare è un’impiccagione, o un ghigliottinamento sulla piazza della città.

Nel secondo caso, infatti, non solo si esercita il legale diritto di punire, ma si intende anche ammonire ed educare, così come esaltare e divertire, la massa che assiste.

Nel primo caso i testimoni usciranno silenziosi e colpiti dall’orrore cui hanno assistito.

Nel secondo la massa sarà eccitata ed esaltata dallo spettacolo cui ha assistito.

Il principio per cui la pubblicità del processo è stata invocata per giustificare l’ingresso delle telecamere nell’aula è il medesimo che legittima le esecuzioni capitali in piazza.

Al fondo c’è la barbarie. Ed anche sul ruolo del pubblico, quello normale, fisicamente presente, occorre riflettere.


Dalle lezioni di F. Carnelutti, Salvatore Satta trae una riflessione pertinente:

Carnelutti (...) ha una illuminante intuizione quando dice che il principio della pubblicità del dibattimento si spiega soltanto in quanto si riconosca al pubblico che ha diritto di assistere al processo la qualità di parte, e appunto in quanto parte gli è vietato di manifestare opinioni e sentimenti, di tenere contegno tale da intimidire o provocare: se egli fosse terzo, cioè estraneo al conflitto di interessi esploso nel reato, tutto ciò evidentemente sarebbe superfluo. E come parte preme contro la sottile barriera di legno che lo divide dal giudice: se riesce a superarla materialmente, sarà il linciaggio; se riesce a superarla spiritualmente, sarà la parte che giudicherà e non il giudice, cioè non vi sarà giudizio”.È difficile negare che quella sottile barriera non ha, spiritualmente, retto alla pressione delle masse televisive. Già questa considerazione basta a spazzare via la pretesa che la presenza delle telecamere non abbia cambiato, e profondamente, la natura del processo. Come si fa a sostenerlo, infatti, quando un grande avvocato, Pietro Calamandrei già avvertiva, in ben altri tempi, che “è risaputo che la presenza del pubblico che ascolta (...) è per certi oratori una specie di droga stupefacente, che causa un immediato sdoppiamento di personalità”.

Ad essersi sdoppiato, oggi, non è solo l’oratore, ma il processo tutto.

Non è senza significato che in nessun paese civile al mondo è consentito, come in Italia, alla televisione di sfruttare i processi per alimentare lo spettacolo. In tutti i paesi civili, queste poche ovvietà che ho scritto sono giudicate preziose ed irrinunciabili.

Fuori da questa amplissima costumanza si collocano, oltre alla barbara Italia di oggi, gli Stati Uniti.

Ma lì il pubblico accusatore è elettivo, non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, le parti sono realmente pari, ed un pm che dovesse continuare a perseguitare persone innocenti verrebbe cacciato via.

Negli USA i processi si fanno in fretta, e la custodia cautelare è giudicata un’infamia.

Inoltre, il criterio di ammissione delle telecamere è esattamente opposto a quello italiano: se i processi sono di pubblico interesse, allora non è consentito, perché l’opinione pubblica potrebbe influenzare il giudizio (anche se credo che il caso di O.J. Simson li abbia convinti che il rapporto di causa effetto si sia capovolto: l’ingresso delle telecamere rende comunque il processo di interesse pubblico, ed il pubblico influenza certamente il verdetto).

Comunque l’imputato ha sempre il diritto di ottenere un giudizio, ma serio e vero, sulla nocività, per lui, di quella presenza.

Se si potesse scegliere, in blocco, fra i due sistemi, allora preferirei si adotti quello statunitense. Tutto questo vuol forse significare che i Raccontare non giornalisti dovrebbero astenersi dalla cronaca giudiziaria?

Evidentemente no. È troppo facile, e troppo sciocco sostenere che l’alternativa alla situazione attuale sia il silenzio stampa.

Esiste una terza via, ed è quella di far bene il proprio mestiere.

Prima di tutto le cronache giudiziarie sono piene di madornali errori, dovuti ad una profonda ignoranza dei meccanismi giudiziari.

Si dirà: ma non tutti sono tenuti a conoscere questi tecnicismi, ed ai lettori non si può comunicare con un linguaggio tecnico.

Già, ma chi una cosa non la sa non si vede perché debba credere di essere in diritto di scriverne.

In quanto ai lettori, essi comperano il giornale e non i bollettini giudiziari proprio perché sperano che qualcuno racconti e chiarisca loro le cose, se chi scrive, invece, con la pretesa di non essere tecnico finisce con l’essere ignorante, allora è evidente che serve male i propri clienti.

Il più ricorrente, e superficiale, degli errori è quello di continuare a chiamare “giudici” i pubblici ministeri.

È un piccolo errore? In fondo appartengono tutti all’ordine giudiziario?

Neanche per idea, è un errore grosso, che induce in grandi errori di valutazione, e non è assolutamente vero, come qualcuno ripete pappagallescamente, che la nostra Costituzione disegni un ordine giudiziario in cui i ruoli sono indistinti, perché nella carta Costituzionale, al contrario, si trova una netta distinzione fra magistratura giudicante, i giudici, ed i pm.

In questo caso, come si vede, non si tratta di riempire gli articoli con lunghe disquisizioni tecniche, ma, semplicemente, di chiamare le cose con il loro nome.

E questa è solo la cosa più evidente.

La montagna degli errori commessi è assai più alta, e si compone di una assoluta confusione sulla differenza fra indagine ed incriminazione, sul ruolo del giudice delle indagini preliminari, del tribunale della libertà, della cassazione, sulla differenza fra sequestro e pignoramento.

Roba importante, non robetta secondaria.

Oltre ad una minima informazione specifica occorre anche assumere una adeguata mentalità professionale.

Le questioni giudiziarie, di solito, hanno caratteristiche vitali per i coinvolti, sono cose pesanti, che lasciano segni profondi.

In materie come queste ciascuno dovrebbe proibire a se stesso di scrivere se prima non ha tentato di acquisire anche il punto di vista di chi viene accusato.

Naturalmente l’accusato ha tutto il diritto di stare zitto, ed in questo caso il giornalista ha tutto il diritto di scrivere quello di cui è venuto a conoscenza.

Ma il giornalista non ha il diritto, morale, professionale, di scrivere senza neanche essersi preoccupato di sentire le persone di cui si parla, della cui vita si discute come fosse cosa di tutti, tranne che loro.

Il Presidente della Repubblica si è sentito in dovere di intervenire sul modo in cui si fa informazione, e di indicare la necessità che sia tutelata quella che lui ha chiamato “par condicio” (ed è appena il caso di sottolineare che i giornalisti, nel riportare tale notizia, e nel ribadirla più e più volte, hanno omesso di considerare e comunicare che la sola esistenza di un tale problema non getta una luce di encomio sul loro modo di lavorare).

Trovo disdicevole che il Presidente abbia sentito il bisogno di ciò nella vita politica, dove a ciascuno, bene o male, è sempre offerta la possibilità di replica, ed invece non sia intervenuto dove i cittadini possono essere sbranati e linciati senza che a loro si offra mai la possibilità di proferire verbo.

Certo, il Presidente è talora intervenuto a ricordare che i cittadini oggetto di indagini rimangono pur sempre degli esseri umani, ma non si dimentichi che la par condicio politica è divenuta oggetto di un programma di governo, e di un governo voluto e sostenuto da quel Presidente; la par condicio umana e giudiziaria, invece, è rimasta una pia affermazione di principio, cui nessuno ha ritenuto, o e stato indotto a dare ascolto, neanche il Consiglio Superiore della Magistratura, di cui il Presidente è Presidente.

Si badi bene che tutto questo ragionamento vale non solo quando un cittadino viene aggredito a mezzo stampa, ma vale anche quando viene osannato a mezzo stampa.

Vale quando si sente la procura e si mette la mordacchia all’indagato, ma vale anche quando si offre all’indagato di colpire a piacimento una procura che si riduce al silenzio.

Insomma, l’Italia degli accusatori ci spinge ad occuparci di un lato della medaglia, ma guai a dimenticare l’altra.

Se il giornalismo non recupera l’amore per se stesso, il rispetto per la professione ed il gusto di non stare pecoroni ai piedi dei potenti di turno, allora capiterà che chi è oggi al servizio dell’accusa sarà domani al servizio della difesa, chi oggi partecipa al crucifige, canterà domani gli osanna.

Una cosa non è migliore dell’altra, una cosa non è peggiore dell’altra. Tutte e due gettano nel fango una professione che (sarà romanticismo?) continuiamo ad amare.

Il sistema dell’informazione diventa tale, diventa sistema, in quanto è un meccanismo di produzione: si produce un bene, l’informazione, e poi lo si vende, attraverso i mezzi di diffusione.

Questo sistema, in Italia come in altre parti del mondo libero (giacché dove non vi è libertà i problemi sono altri, e più gravi), ha dato molti frutti avvelenati.

Nel sistema dell’informazione circolano oramai troppe tossine.

Cresce un cinismo che spinge ad ignorare i drammi umani che si nascondono dietro, e talora si creano con le notizie che vengono pubblicate.

È un sistema malato di ignoranza e presunzione.

Arrogante nel modo in cui si pone verso i lettori, spesso violento verso i soggetti di cui si occupa.

Coltiviamo la speranza che le donne e gli uomini che lavorano in questo sistema sappiano trovare, dentro se stessi, la voglia e la forza di essere diversi.

Sappiano capire, prima di tutto, quello che la collettività nel suo insieme, con le sue leggi, dovrebbe meglio mettere a fuoco: il sistema delle informazioni è un mercato, è un business.

Non è sempre stato così, ma lo è diventato.

Una volta la stampa era la semplice incarnazione del diritto alla libera espressione del proprio pensiero, ed era, quindi, giusto non farla sottostare a particolari regole, che pure c’erano.

Ma adesso non è più così, da molto tempo non è più così.

Un giornale che non vende chiude (chiuderebbe, se non sostenuto da finanziamenti pubblici), un telegiornale che non ha gli ascoltatori che dovrebbe avere cambia formula, cambia direttore, magari chiude.

Non c’è libera espressione del pensiero che tenga, perché questi sono business e o rendono o chiudono.

Siamo in una logica commerciale. E non c’è nulla di male, assolutamente nulla.

Ma dato che così stanno le cose allora si deve capire che le notizie non sono altro che i prodotti che questa impresa commerciale vende, ed è da quella vendita che vengono gli introiti destinati a portare profitti, cioè ricchezza.

Si fa informazione per creare ricchezza, non per esprimere la libertà del proprio pensiero.

E, ancora una volta, va bene, va benissimo, purché, però, cambino le regole di tutela di chi viene offeso.

In un sistema di questo tipo il cittadino che viene trascinato in prima pagina subisce questa sorte non perché qualcun altro sta esercitando il proprio diritto ad esprimere il pensiero, ma perché quel qualcun altro sta facendo il suo mestiere, il suo commercio, sta vendendo la storia di quel cittadino, e la sta vendendo a scopo di lucro.

Ebbene, in questa condizione quel cittadino ha diritto, ha assoluto ed incontestabile diritto ad una tutela assai più forte.

Non può accontentarsi di processi decennali in cui si discute di presunte o reali diffamazioni, ha diritto a molto di più.

E, al contempo, chi scrive e chi parla deve sapere cosa sta facendo: sta lavorando per un’impresa commerciale.

Non c’è nulla di male, ma questo impone un assai maggiore rispetto della merce umana che si maneggia, e sulla quale si guadagna.

Tentare di difendere oggi il mercato dell’informazione, le sue dimensioni enormi, e l’enorme ricchezza che vi gira attorno, dagli interessi degli editori al grande mercato della pubblicità, in base a quegli stessi principi e fondamenti con cui si difendeva l’esistenza dei fogli combattenti per la democrazia, semi clandestini, seppure assai gloriosi, è ridicolo.

Anche un po’ vergognoso.

Una chiara riflessione su questo tema, una chiara ridefinizione dei fondamenti e dei limiti della libertà di stampa, inviolabile, certo, com’è inviolabile la libertà d’impresa, ci aiuterà ad evitare che, a forza di eccessi e di cecità, non si metta in discussione la libertà stessa.

Si è prima ricordato che la Francia ha provveduto legislativamente a porre un limite alla divulgazione di notizie riguardanti procedimenti giudiziari, ciò dimostra, se non altro, che certi mali non sono un’esclusiva del nostro Paese.

E, del resto, basta leggere le testimonianze di Alain Minc e di Bernard Tapie per rendersene conto (densa e pesante la pagina in cui Tapie racconta che, consegnandosi spontaneamente all’arresto, deve comunque impegnarsi per sfuggire a giornalisti e fotografi, come se le manette fossero la pena accessoria, e la gogna quella principale).

Tutto questo sta a significare che il problema ha caratteristiche non nazionali e merita di essere portato all’attenzione di Tribunali non nazionali.

In tal senso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già dimostrato di sapere operare.

Le sentenze della Corte Europea che traggono origine dal secondo comma dell’articolo 6 della CEDU sono numerose. Con esse si fissano alcuni principi imprescindibili per uno Stato di diritto.

Intanto il rispetto della presunzione d’innocenza comporta che l’onere della prova sia interamente a carico dell’accusa, cui spetta di trovare prove sufficienti e fondate per potere portare in giudizio un imputato e poterne chiedere la condanna.

Porre un cittadino di fronte ad accuse generiche chiedendogli di discolparsi è considerato un comportamento illegittimo.

Tutto questo può sembrare ovvio, ma la pratica s’incarica di dimostrare che le cose vanno sovente in modo diverso.

Basterà, difatti, andare a verificare quante volte vengono emessi dei mandati di cattura, nel corso delle indagini preliminari, che contengono delle ipotesi di reato che poi non si trovano nelle richieste di rinvio a giudizio;

basterà leggere le molteplici dichiarazioni di pubblici ministeri che affermano di avere “acceso un faro” su un qualche soggetto, con ciò ammettendo di aver cominciato a costruire l’accusa prima di avere un qualche elemento che ne giustifichi l’esistenza o che possa portare ad un’ipotesi di reato;

basterà ricordarsi dei casi in cui l’assenza di movente è presa a fondamento della pericolosità del soggetto, anziché dell’infondatezza dell’accusa.

In tutti questi casi le vittime dell’ingiustizia potranno rivolgersi alla Corte Europea.

Direttamente connesso al principio dell’onere della prova ve ne è un altro, anch’esso fondamentale, secondo il quale l’indagato prima e l’imputato poi hanno il diritto di tacere e di non collaborare alla raccolta delle prove a proprio carico.

Anche questo appare ovvio, ma anche in questo caso basterà ricordarsi di quante volte abbiamo letto dichiarazioni di pubblici ministeri che giustificano una scarcerazione, nel corso delle indagini preliminari, con il fatto che l’indagato ha reso piena (o si suppone tale) confessione, con ciò facendo venire meno, secondo i pm, la propria pericolosità.

Queste dichiarazioni mostrano, in maniera fin troppo candida, il pregiudizio di colpevolezza secondo il quale chi non confessa se ne sta in carcere, anche se nessun Tribunale lo ha mai condannato per alcun reato.

Ecco, questo è un comportamento illegittimo, che la Corte Europea condanna.

Tale comportamento illegittimo è accettato con una certa superficialità da una cultura nazionale che non si mostra molto sensibile verso i diritti della difesa.

Tanto è vero che non capita agli arrestati italiani di sentirsi leggere la formuletta che tante volte abbiamo sentito ripetere nei film americani: la avvertiamo che ha diritto ad un avvocato ed ha diritto di non rispondere, ma se risponderà quel che dirà potrà essere utilizzato contro di lei.

No, da noi, al massimo, domandano: “intende rispondere?” Che, visibilmente, non è la stessa cosa. E la superficialità giunge al punto che gli avvocati stessi, purtroppo di frequente, non informano dettagliatamente il cliente su quali sono i suoi diritti, così che, alla fine, si giunge davanti al pm convinti di essere in dovere di rispondere.

Ed invece, come abbiamo visto, si è in diritto di tacere.

La Corte ha scritto pagine illuminanti, anche considerata la realtà che è stata descritta in questo capitolo, a proposito del caso Ribemont.

Intanto si ricorda che la tutela del diritto all’innocenza deve sempre essere effettiva e non teorica od illusoria, sottolineando che si tratta di un diritto fondamentale dell’uomo, e non di un pendaglio decorativo.

Ed aggiunge che gli attentati a questo principio possono venire non solo da un giudice o da un Tribunale, ma anche da altre autorità pubbliche.

La libertà di espressione tutelata dall’articolo 10 della CEDU, afferma la Corte, assicura il diritto delle autorità pubbliche di trasmettere all’esterno alcune informazioni, per esempio su indagini o processi in corso, e, naturalmente, ai mezzi d’informazione di pubblicarle.

Ma queste informazioni devono essere fornite sempre in una forma dubitativa, con tutta la discrezione e le riserve che non vanifichino il diritto alla presunzione d’innocenza.

Insomma, quel che dicono pubblicamente i pubblici ministeri, o gli organi di polizia giudiziaria, non può mai suonare come una dichiarazione di colpevolezza per chi ancora ha diritto ad essere presunto innocente.

Pensate all’Italia di questi nostri anni, pensate

alle innumerevoli conferenze stampa dei pubblici ministeri,

pensate alle

conferenze stampa di Carabinieri e Polizia,

pensate all’

enorme quantità di interrogatori ed atti giudiziari che sono stati passati ai giornalisti,

e vi farete un’idea di quanto questi sacri principi del diritto siano stati stracciati ed infangati.

La qual cosa succede facendo delle vittime, ledendo dei diritti.

La realtà che abbiamo prima raccontato è tutta fuori dal rispetto del diritto, è tutta passibile di condanne severe, è tutta dimostrazione di una malattia grave che ha colpito il corpo della giustizia estendendosi ad una malattia morale dei giornalisti.

Guai a far spallucce, guai a dire “è sempre stato così”.

Intanto perché non è vero, e poi perché esistono gli strumenti per reagire e per far valere i diritti calpestati.

La Corte Europea ha dimostrato, in tal senso, di sapere operare.

Sono le vittime, purtroppo, a non trovare sempre la forza e la voglia di reagire.

In definitiva, non sono solo i singoli cittadini che finiscono nel tritacarne del linciaggio mediatico, alimentato dal comportamento illegittimo delle pubbliche autorità, ad essere vittime di questo stato di cose.

Ne è vittima l’intero sistema democratico, ne siamo vittima tutti.

L’assistere a questi spettacoli rende tutti più poveri di diritto e di diritti.

Si tratta di un male talmente diffuso che oggi è invalsa la moda, quasi a redenzione dei linciaggi che si sono operati, di scrivere sui giornali che gli imputati hanno un “legittimo diritto alla difesa”.

Già solo il fatto che lo si scriva dà il segno di quanto profondo sia il baratro in cui siamo caduti.

Quel “legittimo diritto” farebbe da contrappeso al fatto che quella stessa persona si trova, suo malgrado, al centro di una negativa attenzione pubblica: noi parliamo dei tuoi crimini, ma tu hai il legittimo diritto di difenderti.

In realtà le cose stanno diversamente:

tu difenditi pure davanti ad un Tribunale che arriverà con anni di ritardo, quando la cosa non interesserà più nessuno, noi, intanto, ti massacriamo liberamente.

C’è chi sostiene che a battersi contro i linciaggi si rischia di essere linciati.

E sia, meglio correre il rischio che avere la certezza di convivere con la barbarie.



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2 commenti:

Andrea ha detto...

A tale proposito (cacchio Paraffo non hai idea di quanto mi stia bollendo il sangue), qualcuno ha più sentito parlare di Del Turco?

*paraffo* ha detto...

Del Turco è stato un socialista, quindi il PD se ne strafotte di lui, come avevo ipotizzato che sarebbe successo, il giorno stesso del suo arresto.

Ormai conosco i miei polli, caro Andrea ...