mercoledì 20 agosto 2008

Malapolitica e Malagiustizia: binomio indissolubile

La cosa "avvilente" di questo libro di Giacalone è che ogni capitolo contiene denunce peggiori del precedente ...

In questo decimo capitolo, che pubblicherò a puntate per permettervi di assaporarlo meglio, si parla della malapolitica che è la causa prima della malagiustizia.

Sì, amici miei, perchè deve essere chiaro a tutti che è stata l' ignavia dei politici a rendere possibile quella dei magistrati, così come è l' ignavia di noi cittadini a rendere possibile quella dei nostri rappresentanti in Parlamento.

Un popolo di adoratori del Papa, del gioco del calcio e delle canzonette di Vasco Rossi, un popolo di bacchettoni cattolici marxisti o fascisti che pensano che lo Stato sia altro da sè, un popolo così profondamente illiberale da fare spallucce di fronte ad una amministrazione della giustizia che definire vergognosa in tutti i suoi aspetti è un eufemismo, un popolo siffatto si merita i politici che ha e - di conseguenza -  i magistrati che ha.

La lettura di questo capitolo ha rafforzato la convinzione che ho espresso in queste ultime settimane, secondo la quale non ha senso continuare a "tifare" - attraverso questo blog - per il Governo Berlusconi se questo non si farà carico di varare la "regina" di tutte le riforme, quella della giustizia.



Fra poche pagine descriverò un programma immediato per la giustizia, e lì si troverà ancora l’urgenza e la necessità di separare la carriera dei giudici da quella dei procuratori.

Chi è giunto fin qui ha già letto diverse considerazioni su questo tema, che però riprendo, perché decisivo. Questa volta ripartiamo da una presa di posizione autorevole e di segno completamente opposto, quella del procuratore generale della Repubblica, presso la corte di cassazione, e dalle sue parole del 26 gennaio 2007:

“(...) si è disposta la separazione delle funzioni di giudice e di pubblico ministero, rendendo estremamente difficile, e necessariamente limitato a pochi casi, il passaggio dall’una all’altra funzione; passaggio che invece dovrebbe essere incoraggiato e facilitato. A mio giudizio, infatti, è proprio nell’interesse dell’imputato che il magistrato che svolge le funzioni di pubblico ministero abbia l’habitus mentale del giudice e cioè tenda alla sola ricerca della verità, senza acquisire una mentalità agonistica e persecutoria. Peggio ancora sarebbe la completa separazione delle carriere, oltre tutto prodromica all’assoggettamento del pubblico ministero al potere politico”.

Mario Delli Priscoli continua:

“La separazione delle carriere instaurerebbe un modello di pubblico ministero basato sulla ricerca esasperata dei risultati, senza la media zione dei valori e della cultura delle garanzie. Un modello che potrebbe essere fortemente esposto alle pressioni dell’opinione pubblica, che spingono in molti casi alla ricerca di un colpevole ad ogni costo, senza andare tanto per il sottile sulle prove e sulla ricerca delle vere responsabilità. (...) Il decreto legislativo n. 106 del 2006, relativo alla riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, è stato accolto dalla magistratura con non poche riserve, anche per il pericolo di eccessiva gerarchizzazione e burocratizzazione”.

Non solo credo che Delli Priscoli si sbagli, ma trovo gravissimo che egli abbia potuto pronunciare queste parole alla presenza delle più alte cariche dello Stato, e trovo scandaloso che nessuno glielo abbia fatto notare.

Lo scandalo sta nel fatto che la magistratura è chiamata ad applicare le leggi, e se invece di farlo le “accoglie con non poche riserve” vuol dire che l’intero sistema è già saltato.

Lo dicevamo all’inizio, quella cerimonia inutile e soporifera (l’inaugurazione dell’anno giudiziario) consente anche che tali veleni s’insinuino nel già malato corpo della giustizia, senza che nessuno abbia più neanche la sensibilità e la lucidità per reagire. Ma veniamo all’errore del procuratore generale, e dei tanti suoi colleghi che la pensano come lui.

Ma in che mondo vive, il dottor Delli Priscoli?

Dove li ha visti i pubblici ministeri che non s’industriano a trovar le prove contro gli indagati ma s’adoperano per far trionfare la loro innocenza?

A me non è mai capitato di vederne anche uno solo. Uno. E non direi neanche che si tratta di un istinto persecutorio, ma semplicemente del fatto che, nella pratica, ciascuno di loro si sente rappresentante dell’accusa, si vive come parte fin da prima che si avvii un processo, e, in un certo senso, le cose sono già andate dove la forza di gravità le spinge, opponendosi a questa evidenza la forza d’attrito corporativa, quella di chi, come Delli Priscoli, difende il proprio diritto di poter scegliere di volta in volta, sulla base della sede e della carriera, cosa fare.

È inutile girarci attorno e costruire false teorizzazioni, la separazione delle carriere è un’indispensabile necessità del processo accusatorio, non c’è alcun posto al mondo dove lo sconcio italiano della colleganza trova riscontro, ma vi si oppongono solo e soltanto interessi di casta, miserabili egoismi carrieristici di una minoranza che si fa potente del potere che solo la legge dovrebbe avere.

Tanto potente da divenire sfrontanta, tanto sfrontata dal sostenere che si possa guardare con sospetto a quelle leggi di cui le toghe dovrebbero essere la voce.

La “cultura della giurisdizione” è una fanfaluca, una roba che non si trova nella testa, prima ancora che nella condotta, di chi interpreta un ruolo legato al sistema accusatorio pensando di poterlo far convivere con i privilegi castali del vecchio sistema inquisitorio.

E qui veniamo ad un punto sul quale è bene essere chiari: è vero, per separare le carriere vi è un ostacolo costituzionale. La nostra Costituzione è stata scritta da chi viveva, aveva conosciuto e manteneva la cultura del sistema inquisitorio.

In quel sistema le prove si raccoglievano e formavano prima del processo ed il pm lavorava sotto la supervisione del giudice istruttore. Tutto un altro mondo, che ben poteva tollerare la comunanza delle carriere e ben poteva giovarsi della “cultura della giurisdizione”, ovvero del portare lo stesso abito mentale, le stesse attenzioni e gli stessi scrupoli nelle diverse funzioni.

In quel sistema il cittadino era l’oggetto ed il suo avvocato prendeva solo alla fine atto di quel che si sarebbe portato al processo.

Tutto questo si ribalta con l’accusatorio, dove le parti devono essere sullo stesso piano e non esistono prove raccolte, ma solo informazioni e documentazioni che diventano prove davanti ad un giudice terzo, del tutto estraneo alle parti e che la legge vuole anche del tutto all’oscuro dei fatti sui quali è chiamato a giudicare.

Pur mantenendo immutato il dettato costituzionale è possibile approdare ad una tappa intermedia, consistente nella separazione delle funzioni: i magistrati sono tutti colleghi, ma chi sceglie di rappresentare l’accusa non può diventare giudice, e viceversa, se non a determinate condizioni, con tempi stabiliti e, ovviamente, non nella stessa sede.

Abbiamo visto che la magistratura associata si ribella anche a questa ipotesi minimale. Che, però, è e resta minimale.

L’approdo civile è la separazione delle carriere, con la necessaria modifica costituzionale, che riguarda più la forma che la sostanza, ma, appunto, nel diritto la forma è sostanza.

Un serio programma riformatore, una seria determinazione a rendere migliore la giustizia italiana, non s’accomoda a dare qualche botta al sistema esistente, manco fosse una carrozzeria bitorzolata, per non prendersi l’incomodo di dover sostenere la necessità di forme nuove.

Ragionassimo così, le macchine sarebbero ancora delle carrozze a trazione motorizzata.

La separazione delle funzioni è un accomodamento intermedio, reso del tutto inutile, del resto, dall’opposizione corporativa. Mentre la separazione delle carriere è il minimo indispensabile perché il processo assuma una forma di serietà.

Lo ripeto: non c’è Paese civile di questo mondo dove si trovi nulla di simile all’orgia corporativa della magistratura italiana.

Forse Delli Priscoli non se ne rese conto, ma proprio la sua alta collocazione nella carriera, proprio l’autorevolezza che ne deriva e la singolarità della sede dove ha pronunciato quelle parole, segnano l’evidenza di un drammatico stato di decadimento del diritto. Della cultura del diritto.

Una politica che voglia rendere migliore l’Italia non può accontentarsi di nulla di meno di un serio rimedio. Non sta scritto da nessuna parte che una seria riforma della giustizia debba farla una parte politica anziché un’altra. Possono, anzi devono, avere idee diverse, ma tutti quelli dotati di senso di responsabilità dovrebbero avere in mente un modello diverso da quello attuale.

Ma capita che, per le ragioni descritte all’inizio di questo libro, la sinistra sia passata da una buona cultura garantista ad una totale acquiescenza alla propria ala giudiziaria, e giustizialista.

Quando il tempo sarà passato e queste cose potranno essere lette con maggiore freddezza, s’individuerà in quella deviazione una delle cause dell’impoverirsi del pensiero riformatore nel mondo della sinistra.

La destra italiana prese forma, nel biennio 1992-1994 stando abbondantemente dalla parte dell’inciviltà, coltivando quella devozione per l’inquisizione e quel disprezzo per le garanzie costituzionali che poi la sinistra volle rubarle, come fosse un oggetto prezioso e non una degenerazione ripugnante.

Ma subito dopo aver preso forma, quella stessa destra si trovò a subire l’attacco delle toghe ed ebbe modo di provare, sulla propria pelle, la forza devastante del giustizialismo, la sua capacità di torcere i binari della democrazia.

È per questa ragione che si poteva supporre sarebbero state quelle le forze in grado, per convenienza anche propria, di porre un freno alla caduta. Si poteva supporre, ma le cose sono andate diversamente.

Fra il 2001 ed il 2006 in Parlamento c’era una solida maggioranza di centro destra. Nel corso di quei cinque anni il conflitto politico con la magistratura associata e politicizzata non ha praticamente mai avuto sosta.

Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente. (Segue ....)


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2 commenti:

Kukulkan ha detto...

Condivido l'analisi ma non le tue premesse: la prova che gli italiani, o perlomeno la maggiorparte, fossero stanchi di giudici e magistrati che facevano TUTTO tranne che il loro lavoro, è l'elezione di Berlusconi. Egli aveva espresso chiaramente l'intenzione di riformare la giustizia e parallelamente aumentare la sicurezza, e i cittadini si sono fidati: che poi sul punto 1 abbiamo tra le mani un nulla di fatto è sicuramente una cicatrice sul governo, ma buttare tutto il resto alle ortiche è inconcludente.

*paraffo* ha detto...

La mia tesi è che se questo governo non avrà la forza politica di riformare la giustizia, non avrà neppure quella di fare le altre riforme e questo paese, senza riforme, è ingovernabile come - di fatto - ha continuato ad essere ANCHE nel quinquennio 2001-2006.

Tutto qui ....