martedì 5 agosto 2008

"L’onda alta e melmosa dell’inciviltà giuridica"

Ho tratto il titolo di questo post dall' ultima frase di questa seconda (ed ultima) parte del quinto capitolo del libro di Giacalone.

Credo superfluo ogni ulteriore commento da parte mia.

Leggete ed inorridite.

(Questo capitolo, come i precedenti, è denso di note che supportano le informazioni fornite dall' autore. Per brevità - e problemi di editing - le ho omesse ma potrete trovarle nel testo originale di cui ho fornito, qui sopra, il link).


La durata ragionevole di un procedimento giudiziario influisce direttamente sulla credibilità e efficacia della giustizia.

Se la durata non è ragionevole la giustizia viene di fatto negata.

Il primo problema che si pone è quello di misurare questa durata: da dove si inizia e dove si finisce?

In campo civile il tempo decorre dal momento in cui il caso viene portato all’attenzione dell’autorità giudiziaria, nel caso vi sia un problema di attribuzione della competenza la Corte fa iniziare la procedura dal momento in cui una qualche autorità giudiziaria è stata posta a conoscenza del caso, non importa se poi si è dimostrata incompetente.

In campo penale, invece, il tempo non decorre da quando il Tribunale è stato investito del caso, ma dal momento in cui il cittadino ha saputo di essere indagato e posto sotto accusa;

nel caso italiano, se non vi sono ragioni per considerare l’indagine antecedente, il tempo decorre dal momento in cui si riceve l’avviso di garanzia.

Il termine finale, invece, è individuato nel momento in cui la causa si conclude, quindi, se vi è stato ricorso, con la sentenza della Corte di Cassazione.

Il che vale anche nel caso in cui la Cassazione rigetti il ricorso. La giurisprudenza della Corte non ha fissato in maniera perentoria, quindi con l’indicazione di un periodo temporale, la ragionevole durata di un procedimento, preferendo regolarsi caso per caso.

Tre sono i parametri che vengono presi in considerazione:

la complessità del caso;
il comportamento del ricorrente;
il comportamento delle autorità nazionali, con particolare riferimento, naturalmente, a quelle giudiziarie.

È nel caso di negligenza di queste ultime che la Corte non esita a emettere delle condanne.

Procedere caso per caso consente alla Corte di fissare “tempi ragionevoli” anche assai brevi.

Ciò accade quando si tratta di procedimento in cui

l’accusato è detenuto (in Italia molti casi, anche noti, di processi con detenuti si prolungano irragionevolmente per anni);
quando sono coinvolti cittadini portatori di handicap;
e specialmente quando si tratta di procedimenti che vedono coinvolti gli interessi di cittadini malati di aids.

Sono casi in cui, intuitivamente, non agire con immediatezza significa elargire ingiustizia.

Innanzi a queste denunce l’Italia si difende con una specie di ritornello: i procedimenti sono lunghi perché la nostra giustizia è intasata da troppe cause arretrate.

Chissà quando gli avvocati dello Stato capiranno che questa non è una tesi difensiva, bensì un elemento di accusa.

Difatti, spetta allo Stato organizzare la giustizia in modo tale che non vi siano ingorghi, arretrati e ritardi, è compito dello Stato assicurare tempi rapidi e, quindi, ragionevoli.

Se lo Stato non riesce a fare questo allora merita di essere condannato, cosa che puntualmente avviene.

Nella valutazione del tempo ragionevole, da parte della Corte, entra anche il dettato legislativo che regola la giustizia in ciascuno Stato.

Da noi, ad esempio, vi sono una serie infinita di termini che la legge prevede e che nessuno rispetta (la fantasia azzeccagarbugliesca ha inventato i termini “ordinatori” e quelli “perentori”: i secondi sono quelli che devono essere rispettati, i primi sono lì solo per bellezza).

Un Tribunale ha dei tempi fissati per depositare le motivazioni di una sentenza di primo grado, ed a partire da quel deposito decorrono i tempi che le parti hanno a disposizione per presentare appello; se, però, un Tribunale ci mette un paio d’anni per depositare le motivazioni di una sentenza di due anni prima ecco che l’intero procedimento si allunga di due anni, in maniera irragionevole ed ingiustificata.

Dalla fine delle indagini preliminari il pm ha tempi fissati per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati, ma se ci mette anni per farlo .... eccetera, eccetera.

In tutti questi casi, che in Italia sono milioni, e che nel campo della giustizia civile sono un numero semplicemente impressionante, se solo i cittadini fossero coscienti del loro diritto ad una sentenza (non importa se a loro favorevole o sfavorevole, non importa avere ragione, perché in ogni caso si ha quel diritto), l’Italia sarebbe mille volte di più seduta, a Strasburgo, sul banco degli accusati.

E quei cittadini potrebbero contare su un risarcimento di almeno parte del danno che subiscono per denegata giustizia.

Se solo ne fossero consapevoli.

Si è detto prima che la Corte non ha ritenuto di indicare un termine fisso del “tempo ragionevole”, ed abbiamo visto il perché. Detto questo, però, la giurisprudenza ci autorizza a sbilanciarci ed a dire che, solitamente, è giudicato comunque irragionevole un tempo processuale che supera i quattro anni.

Faccio fatica a ricordare procedimenti italiani che durano di meno e, comunque, il ministro Mastella ha indicato al Parlamento come obiettivo da raggiungere quello di processi penali che durino in media cinque anni.

Quindi, se Mastella avrà pieno successo resteremo un Paese incivile.

Ma Mastella se ne andrà assai prima, ed il successore ricomincerà da capo, così come anche il successore del successore.

Un ultimo, importantissimo particolare. Come vedremo quando ci occuperemo della procedura per ricorre alla Corte Europea, i ricorsi possono essere presentati una volta che il procedimento si sia concluso secondo le procedure previste dalle leggi nazionali: quando il processo è finito, insomma, in tutti i suoi gradi di giudizio.

Questo principio ha un’eccezione: quello dei ricorsi per irragionevolezza dei tempi processuali.

In questo caso il ricorso può essere presentato anche quando la causa è ancora pendente.

Prima non era così, ma la Corte è giunta a questa determinazione per una ragione elementare: negando la giustizia, negando l’accesso al Tribunale, prolungando in eterno i tempi processuali uno Stato si tutela, in eterno, dai ricorsi dei cittadini che si ritengono danneggiati.

A ingiustizia, insomma, si sommerebbe ingiustizia.

Il diritto ad un processo equo e ragionevole, secondo la Corte, ha valore non dal momento in cui inizia il processo, ma da quello in cui iniziano le indagini, ciò perché “l’inosservanza iniziale rischia di compromettere il carattere equo del processo”.

Anche questo è un principio importantissimo, che assume una valenza dirompente in Italia, se solo si pone mente a quello cui si accennava a proposito del ruolo e dei comportamenti dei giudici per le indagini preliminari.

Non ci si dimentichi, inoltre, che secondo la legge italiana (articolo 358 del codice di procedura penale) “il pubblico ministero compie ogni attività necessaria (...) e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”.

Questa legge dello Stato non solo rimane costantemente come mai scritta, ma è stata anche pubblicamente svillaneggiata da un pubblico ministero (Antonio Di Pietro, poi parlamentare eletto dalla sinistra e ministro in due governi con quella maggioranza).

La totale assenza di parità fra le parti nel corso delle indagini preliminari fa sì che molti elementi a favore dell’indagato vengano costantemente occultati, quando non distrutti (secondo un modo di procedere che porterebbe l’indagato in carcere con l’accusa di inquinamento delle prove).

Se ne è avuta pubblica e clamorosa dimostrazione nell’Italia del 1998, quando, dopo due anni di indagini, si è giunti solo casualmente, nel corso del processo, a conoscenza dell’esistenza di una videocassetta che mostrava l’assoluta contraddittorietà di un teste che l’accusa aveva presentato come decisivo e che mostrava anche le pressioni fortissime che il pm esercitava su quel teste, incredibilmente minacciandolo di incriminazione per omicidio (ci si riferisce al processo per l’uccisione di Marta Russo, all’Università di Roma, ed il video mostrava la pietosa condizione della signora Gabriella Alletto, teste decisivo dell’accusa).

In quel caso è apparso evidentissimo quanto giusta sia l’affermazione della Corte Europea: se non è equa la gestione delle indagini non sarà equo il processo.

Non risulta, però, che siano stati presi provvedimenti nei confronti di chi operò in quel modo.

Affinché sia garantita l’equità fin dalle indagini preliminari devono essere affermati due diritti:

quello alla presunzione d’innocenza e
quello a non rispondere alle domande del pubblico ministero.

Diritti di cui ci siamo già occupati, purtroppo per verificarne il non rispetto sul nostro territorio nazionale.

La violazione di quei diritti, la tortura del tintinnar di manette, oltre tutto, non ha neanche la (peraltro insufficiente) attenuante di mirare all’ottenimento di una verità: quei sistemi vengono utilizzati al fine di ottenere gli elementi che l’accusa giudica coerenti con le proprie tesi, quindi, in molti casi, finiscono con il propiziare una menzogna, annegano la verità nella bugia, privilegiano la convenienza immediata a danno di un comportamento responsabile.

È bene dirle, queste cose, perché c’è in giro troppa gente che dice di “guardare alla sostanza”.

Ecco: la negazione delle regole, il dileggio del loro rispetto porta, nella sostanza, al trionfo della bugia, dell’ingiustizia.

Tutto il contrario di quel che si vuol far credere.

Ovvio che un imputato ha diritto di difendersi. Ovvio, no? be’, non del tutto, perché, dice la Corte Europea, tale diritto deve essere concreto ed effettivo, e non sempre, nella realtà, le cose stanno così.

Perché ci si possa difendere, in modo concreto ed effettivo, bisogna, prima di tutto, che l’accusa sia chiara e dettagliata.

Non si può essere accusati di avere rubato, se non si viene informati di dove, quando e cosa si sarebbe rubato.

Non si può essere accusati di avere corrotto se non essendo informati di chi, quando, come e perché si sia corrotto.

Le accuse apodittiche e non particolareggiate, invece, sono all’ordine del giorno del nostro malcostume giudiziario.

Come faccio a difendermi se non mi dite con dettagliata precisione di cosa mi accusate?

Questo vale ancora prima che l’accusa sia dimostrata, cioè provata.

La prova esiste solo al dibattimento, quando il pubblico ministero documenta il perché mi ritiene colpevole; mentre l’accusa deve essere chiara fin dal primo istante, fin dalle prime indagini preliminari, altrimenti viene messo in discussione il mio diritto a difendermi.

Cosa che avviene più frequentemente di quanto si sia autorizzati a sospettare e temere. La difesa è concreta ed effettiva, inoltre, quando l’accusato ha la possibilità di far ascoltare i testimoni a difesa nelle stesse condizioni in cui vengono ascoltati i testimoni d’accusa, e quando, naturalmente, ha la possibilità di interrogare a sua volta (direttamente o tramite i difensori) chi lo accusa.

Questo principio viene violato un’infinità di volte.

Viene violato in tutte le fasi che precedono l’accesso al Tribunale e durante le indagini preliminari.

Un detenuto in custodia cautelare, ad esempio, ricorre al Tribunale della Libertà perché ritiene del tutto ingiuste le accuse che gli vengono mosse: qui giunge davanti a tre giudici i quali ascoltano le tesi dell’accusa, innanzi ai quali vengono depositati i verbali d’interrogatorio di signori che l’accusato non ha mai avuto modo di controinterrogare e che nessuno si sogna di convocare.

Così il detenuto (che deve ancora essere considerato innocente) lotta contro le carte scritte da chi lui non vede.

Ciò toglie molto alla sostanza del diritto alla difesa.

Di più: il detenuto, in quelle condizioni, chiede al pubblico ministero di essere messo a confronto con chi lo accusa.

Questa richiesta, però, deve trovare accoglimento da parte del pm, il quale può anche infischiarsene e non organizzare il confronto.

Come fa quel cittadino, in quelle condizioni, a difendersi?

Ma in Italia si è scesi ancora più in basso: si è creato un meccanismo per cui i testimoni d’accusa possono anche rifiutarsi di andare in Tribunale a ripetere le loro accuse, in questo caso il pm prende i verbali dell’interrogatorio reso senza la presenza dell’imputato e dei suoi avvocati, senza che questi possano controinterrogare, e li legge in Aula.

Ciò viola tutto intero il diritto alla difesa che la CEDU tutela, e fa del nostro Paese di questi anni un Paese fuori legge.

Nessuno, difatti, potrebbe mai essere condannato se la causa non è stata pubblicamente discussa davanti ad un Tribunale, nel corso di un processo in cui l’esame incrociato dei testimoni possa far emergere le prove.

Ma come si fa a esaminare un testimone che non si presenta? come si fa a dimostrare l’inaffidabilità di una persona che non c’è?

Nei sistemi in cui il processo accusatorio funziona (e fra questi non possiamo certo mettere l’Italia) il solo fatto che un testimone non si presenti al dibattimento, o non risponda, toglie qualsiasi valore alle cose che può avere detto al pm, che non è un giudice, bensì una parte.

Quando il Parlamento italiano ha tentato di porre rimedio a questo abominio, votando la riforma dell’articolo 513 del codice di procedura penale, da molte parti si è gridato allo scandalo: così si affossano i processi, si è sostenuto.

Ma su cosa mai erano fondati quei processi, se bastava chiedere che le accuse fossero ripetute in Tribunale per affossarli?

Anni bui e tristi, in cui anche l’ovvio, anche il banale buon senso, hanno dovuto cedere il passo all’onda alta e melmosa dell’inciviltà giuridica.


Add to Technorati Favorites
HOME

6 commenti:

Bibbi ha detto...

Giornoo, visto che stai pubblicando uno dei suoi capolavori a puntate.. da ammiratrice e lettrice di Giacalone, colgo l'occasione per lasciare il link di tutti i libri scritti da lui e pubblicati da "Rubbettino"
http://www.rubbettino.it/rubbettino/public/elencoLibriPerAutoreTitolo_re.jsp?nome=giacalone&titolo=

*paraffo* ha detto...

Grazie, Bibbi.

Ciao +tulip+

Andrea ha detto...

Non so se conosci questo sito

*paraffo* ha detto...

No, Andrea, non lo conoscevo.

Ti ringrazio. Ciao!

Andrea ha detto...

C'è un bel campionario di esempi di malissimagiustizia ;)

Anonimo ha detto...

Caro paraffo, tu che hai a cuore l'Italia e l'eterno confinamento dei rossi trinariciuti di sinistra fuori dal Parlamento, per evitare che continui questo scempio della malagiustizia

aderisci e rilancia la petizione

Salva l'Italia. Adotta un coglione

per salvare questa specie oramai sempre più a rischio di estinzione.
http://www.cristianesimo.altervista.org/blog/2008/08/06/adotta-un-coglione/
http://www.firmiamo.it/salvalitalia-adottaunorgoglione