sabato 2 agosto 2008

Quando i PM torturano i cittadini

Pubblico oggi, e per intero, il Quarto Capitolo del libro di Giacalone.

Il titolo di questo capitolo è allucinante: "La tortura in Italia".

Ma il contenuto lo è ancora di più .... perchè non parla di pratiche medioevali ma contemporanee, di avvenimenti che accadono tutti i giorni sotto i nostri occhi, ultima e più eclatante volta, pochi giorni fa, quando è stato arrestato il Presidente della Regione Abruzzi.

Immagino (ma so per certo) che tanti miei concittadini hanno esultato.

Io no: io sono inorridito.

Per farlo non ho dovuto aspettare di leggere il libro di Giacalone perchè tutto quello che questa opera meritoria contiene è già saputo e risaputo da chiunque abbia avuto, in questi anni, occhi per vedere e cervello per elaborare quel che aveva visto.

Il merito di Giacalone è quello di aver riassunto in un unico saggio tutte le nefandezze del sistema giudiziario italiano e di averlo supportato con dati statistici e citazioni di altri studiosi della materia.

Altro suo merito è quello di aver riportato alla memoria di chi ha vissuto le vicende italiane o alla conoscenza di chi è troppo giovane per averle vissute, parole ed opere di personaggi pubblici italiani di spicco.

In questo capitolo, per esempio, il personaggio illustre è Oscar Luigi Scalfaro.

Il disgusto umano e politico che nutro per questo signore mi aveva fatto dimenticare che, in un momento di (interessata) lucidità, aveva denunciato pubblicamente e solennemente le pratiche illecite dei PM italiani ...

Lo aveva fatto nella sua veste di Capo dello Stato e Presidente del CSM!!!

Eppure, fatta la denuncia, lasciò cadere la cosa, col solito stile democristiano di stigmatizzare il peccato ma non il peccatore.

I PM fecero spallucce e continuarono imperterriti ad ovviare alla loro incapacità professionale con l' uso della tortura della carcerazione preventiva e delle intercettazioni telefoniche rese pubbliche.

Sì, amici miei, perchè di questo si tratta: di incapacità professionale, prima ancora che di ignoranza dei più elementari diritti umani e giuridici.

Ricordate, tutte le volte che vedete Di Pietro in TV, che si tratta del più famoso degli ex torturatori e del più attivo complice politico dei torturatori ancora in servizio attivo .....




: Fa orrore anche solo pensarci, figuriamoci scriverlo.

Ma le cose vanno dette per come stannol’Italia viola l’articolo 3 della CEDU, quello in cui si proibisce l’uso della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti.

Oltre a fare orrore, ciò può sembrare incredibile, ma, purtroppo, non lo è. E, del resto, l’esistenza della tortura, in Italia, fu denunciata anche dal Presidente della Repubblica, nel messaggio agli italiani letto il 31 dicembre 1998.

Il Presidente fece di più, non solo denunciò l’abuso della custodia cautelare, ed il suo uso come tortura, ma ripeté che quella non era la sua prima volta, che aveva già fatto analoga denuncia in passato.

Vale la pena di rileggerle, quelle parole:

“Ho ripensato che almeno quattro anni fa, parlando all’Auletta della Camera, proprio su un’iniziativa presa dall’attuale Presidente della Camera, l’on. Violante, che era allora Presidente della Commissione Antimafia (se non ricordo male c’era uno stuolo di Magistrati autorevolissimi), e il Presidente Violante chiese che io parlassi. Fui il primo a parlare di questo. Lo dico solo perché era mio dovere di parlare. E parlai, denunziando l’eccesso di carcerazione preventiva.

Questa c’è stata. Credo che tutti sappiano qual è la mia devozione alla Magistratura. È stata la mia vocazione primaria. E lo è ancora.

Ho detto qualche volta: ‘La toga è attaccata all’anima’. Io la vivo così. Il mio rispetto è sempre totale.

E la gratitudine per ciò che la Magistratura ha fatto per togliere tante cose storte dal mondo politico deve rimanere.

Però bisogna avere il coraggio di dire che la carcerazione preventiva, specie, quando a volte, non so se il Magistrato o qualche collaboratore, consentitemi, un po’ rozzo, ha detto: ‘O parli o rimani dentro’, no, questo non ha spazio nella civiltà giuridica di nessun paese.


Ha spazio, purtroppo, sotto la voce tortura. Questo no!

Il tintinnare le manette in faccia a uno che viene interrogato da qualche collaboratore, questo è un sistema abietto, perché è di offesa.

Anche l’imputato di imputazioni peggiori ha diritto al rispetto. Ma vi è stata altra cosa, che io ho denunziato, non a questo Consiglio Superiore, ancora al Consiglio Superiore precedente - qui, bisogna andare indietro di tre-quattro anni e sono gli avvisi di garanzia giunti alla stampa prima che all’interessato.

No, no.

C’è un articolo del codice penale che parla, si interessa proprio della violazione del segreto istruttorio. No, non è possibile”.

Sono parole che non lasciano spazio ad equivoci o ad interpretazioni riduttive.

Siamo di fronte ad un messaggio ufficiale del Capo dello Stato, letto, dalla sede del Quirinale, a tutti gli italiani, nel quale ricorda che non è la primavolta che si sente in dovere di dire certe cose.

Se anche si riferisse ad un solo caso in cui si è praticata questa forma di tortura sarebbe già gravissimo.

Ma il Capo dello Stato non parla di un caso, parla di un costume, parla di un uso diffuso. Parla di cose di incredibile gravità.

Ed è appena il casodi sottolineare che quel Presidente, Oscar Luigi Scalfaro, del cui settennato penso malissimo, non era certo un avversario del giustizialismo, non fu certo un freno per le procure, e se una volta alzò la voce lo fece per difendere se stesso e, con il celebre “non ci sto”, escludere, per allora e per l’ avvenire, di rispondere di comportamenti precedenti alla carica quirinalizia.

Eppure quel Presidente, passata gran parte della tempesta ed esaurita la mattanza giustizialista, non poté fare a meno di osservare quanto in basso fosse caduta la civiltà del diritto.

E parlò di tortura. Tortura.

Il lettore che approdi oggi in Italia, e legga solo adesso queste parole, sarebbe autorizzato a credere che esse abbiano scatenato il pandemonio, che si siano fatte delle inchieste, che siano stati individuati dei colpevoli e che questi abbiano pagato per i loro pesantissimi errori.

Il lettore venuto dalla Luna si sbaglierebbe, perché non è successo un bel niente.

Qualche giorno di polemica, qualche intervista a pubblici ministeri che dicevano: “non si riferiva a me”, qualche altro che intimava: “dica a chi si riferisce”.

Così, come se non fosse più che sovrabbondante la sola idea che cittadini italiani vengano sottoposti a tortura.

Poi è arrivata l’Epifania,che tutto il trambusto si è portata via.

Qualche altro lettore, forse, spiegherà il veloce placarsi dei clamori con il fatto che, in fine dei conti, parlare di tortura, anche se lo fa il Presidente della Repubblica, è certamente esagerato.

Suvvia, qui non si infilano stiletti roventi nelle carni degli indagati, non li si appende per i piedi, non si slogano le articolazioni mediante tiraggio e non si fanno le altre fantasiose cose che appartengo ad un passato che ci piace pensare lontano ed irripetibile.

A questo lettore sarà bene ricordare cosa s’intende per tortura.

La Corte Europea considera che la “proibizione assoluta” della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti “consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche”.

La tortura è definita da un’apposita Convenzione sulla tortura adottata dall’Assemblea generale delle NazioniUnite il 3 dicembre 1984, ed entrata in vigore il 26 giugno1987, ed è un atto con il quale delle sofferenze fisiche o mentali sono intenzionalmente inflitte ad una persona da un pubblico funzionario, o su sua istigazione, per ottenere uno scopo determinato, anche con punizioni od intimidazioni.

Cosa si intende per trattamenti disumani e degradanti?

Sentenza nel caso Soering, del 7 luglio 1989.

Secondo questa definizione, quindi, la tortura si configuraquando esistono tre elementi caratterizzanti:

a) l’intensità della sofferenza;
b) l’intenzione deliberata;
c) uno scopo determinato.

La Corte Europea ha ulteriormente precisato che deve essere definito trattamento disumano quello che provoca volontariamente delle sofferenze mentali o fisiche di particolare intensità, ed il trattamento degradante come quello che

“umilia l’individuo davanti agli altri o lo spinge adagire contro la sua volontà o la sua coscienza”.

L’umiliazione ha la medesima intensità negativa quando avviene agli occhi della persona stessa che viene sottoposta a tale detestabile trattamento.

Gli stessi concetti sono resi da uno studioso italiano:

“un trattamento è ‘degradante’ quando è di natura tale da creare nelle sue vittime sentimenti di paura, d’angoscia e di inferiorità atti ad umiliarle, avvilirle ed eventualmente a spezzare la loro resistenza fisica o morale”.

I cardini attorno ai quali ruota la civiltà del diritto, la Convenzione sulla tortura e le affermazioni della Corte Europea erano, evidentemente, ben presenti al Presidente della Repubblica che, quindi, non sentiva il bisogno di vedere i boia all’opera per avvertire l’insopportabile presenza di pratiche incivili.

Ma per comprendere fino in fondo quanto questo aberrante meccanismo sia stato, in Italia, al tempo stesso efficace, utilizzato e pubblico si deve tornare a quanto abbiamo detto parlando dell’interazione fra giustizia e pubblicità giornalistica.

Lo stesso Capo dello Stato ce ne offre lo spunto condannando la condannabilissima pratica della violazione del segreto istruttorio.

Il cittadino ha un primo contatto con l’autorità giudiziaria quando il suo nome e la sua (presunta) vicenda sono già stati dati in pasto ai giornalisti: su di lui, quindi, è già in atto una pressione notevole, non prevista e non autorizzata da nessuna legge.

Si presenta al pubblico ministero con l’intenzione di difendersi, ma comprende subito, anche perché, se fosse debole di comprendonio, glielo spiegano per benino, che se insiste a professarsi innocente (come sarebbe suo inviolabile diritto) non solo gli si prepara il carcere, ma per giungervi dovrà prima, possibilmente in manette, attraversare la mandria di giornalisti e telecamere che, guarda un po’ il caso, si trovano fuori dalla porta del pubblico ministero (e si era toccato un tale livello di barbarie che il Parlamento ha sentito il bisogno di varare una legge che proibisce di pubblicare e trasmettere immagini di cittadini in manette;

risultato:

le immagini vengono ugualmente pubblicate e trasmesse, ma con l’oscuramento dei polsi ammanettati, oppure le manette non vengono messe, si fa prendere l’arrestato sottobraccio da due rappresentanti della polizia giudiziaria in divisa, così le immagini vengono belle,chiare e movimentate.

Il programma, quindi, prevede l’immediata umiliazione agli occhi degli altri ed agli occhi di se medesimi.

Il carcere, in questo quadro, non ha nessuna delle funzioni istruttorie previste dal codice di procedura penale, secondo il quale deve servire solo ed esclusivamente nei casi in cui vi sia pericolo grave di:

1. inquinamento delle prove;
2. reiterazionedel reato;
3. fuga.

Grave non è un aggettivo buttato lì a caso, significa che il pm non deve dire:

il Tale potrebbe fuggire, ma deve dimostrare che si accingeva a fuggire;
non deve dire: potrebbe inquinare le prove, bensì dimostrare che le stava inquinando;
non deve dire che potrebbe reiterare il reato, ma deve dimostrare che vi è il ragionevole pericolo che lo faccia (e si deve trattare, comunque, di reati che presuppongono violenza e pericolosità sociale).

Questo è quello che c’è scritto nelle leggi, ma di cui non si è ritenuto di dovere tenere troppo conto.

Il carcere preventivo, la custodia cautelare, dunque, sfugge alle finalità che le leggi le attribuiscono e diventa perfettamente funzionale al desiderio di esercitare sull’individuo una pressione destinata a fargli fare quel che non vorrebbe.

Il “tintinnar di manette”, pertanto, diventa tortura in senso proprio.

Ed essendo vile, come tutte le torture, utilizza le armi proprie del ricatto: signor mio, ma perché non ci dice quel che vogliamo sentire? perché vuole esporre se stesso e la sua famiglia a questa deprecabile esperienza? non ci pensa ai pargoli che la vedranno in televisione, ridotto in ceppi?

Di recente un cittadino italiano, costituzionalmente innocente ed appena liberato dalla custodia cautelare, ha detto si essersi sentito “ostaggio” dello Stato.

I palati schifiltosi avranno difficoltà ad apprezzare le parole di uno che fa il paparazzo, e forse le sue magliette attillate sul torace muscoloso suggeriscono scarsa frequentazione dei polverosi tomi, o, anche, le belle avventure inducono a non considerarlo degno di troppa riflessione.

E, naturalmente, il tutto s’accompagna all’ incivile, ma diffusa, presunzione di colpevolezza.

Più che palati fini sono anoressici del diritto, perché in quelle parole ci sono verità pesanti, che suggerisco agli studiosi, o presunti tali, di approfondire.

È coprendosi gli occhi, è occultando i pericoli connessi all’uso deviato della custodia cautelare, è ignorando quanto questa finisca proprio con l’inquinare le prove, che collezioniamo casi da manuale.

Così, abbiamo potuto apprendere che un signore aveva accusato due persone di omicidio sol perché lo avevano arrestato e gli avevano detto che in carcere correva il rischio di essere violentato.

Lo stesso, immediatamente dopo la scarcerazione, aveva ritrattato tutto, così come, coerentemente, è andato a dire al processo.

Questo episodio (a proposito del quale, naturalmente, non si è in grado, qui, di stabilire se le cose dette siano vere o false) serve a comprendere un altro elemento.

Il “tintinnar di manette” non fa nessun effetto al delinquente abituale, a colui il quale sa cosa lo aspetta in carcere, a chi, commettendo reati, ha già messo in conto la possibilità di finirvi.

Funziona, invece, egregiamente sui cittadini incensurati, su quelli che hanno (più che legittimamente) terrore di un universo sconosciuto.

Nel loro animo il coltello della tortura affonda come nel burro.

Già, perché, oggi come sempre, chi sa di non essere forte tale si sente solo con i deboli.

Detto quanto sopra, si deve pur considerare che la legge, e giustamente (se rispettata) prevede dei casi in cui è necessario ricorrere alla custodia cautelare.

Ed a parte i detenuti per ragioni d’indagine vi è tutto il resto della popolazione carceraria che si trova reclusa a scontare una pena.

Il carcere, dunque, non è un’invenzione del demonio (anche se è più che ragionevole dubitare della sua utilità rieducativa o finalizzata al reinserimento) a patto, però, che non sia un inferno.

Le persone detenute non smettono, a causa della loro condizione, né di essere degli esseri umani, né di essere dei cittadini.

Hanno diritto a che i precetti della CEDU valgano anche nei loro confronti.

Il Consiglio d’Europa si è dotato di un corpo d’ispettori internazionali incaricato di accertare le condizioni di vita in cui sono costretti i detenuti e di individuare eventuali violazioni dei loro diritti umani.

Fra questi ha lavorato, per quattro anni, Antonio Cassese, professore di diritto, che ne ha lasciato una utile testimonianza.

Per descrivere cosa debba intendersi per trattamento disumano o degradante dipinge questo quadro:

“talvolta entrate in un carcere e, dopo una prima visita generale, ecco in cosa vi imbattete: in ogni cella convivono, uno accanto all’altro, due o tre detenuti, in uno spazio assai ristretto; non v’è traccia di servizi igienici (...); manca qualunque attività sociale (lavoro,insegnamento, sport, ecc.); i detenuti passano in cella ventidue ore su ventiquattro.

Ebbene, chi può contestare che la combinazione di sovraffollamento, mancanza di servizi igienici individuali e assenza di attività sociali e ricreative, costituisca un trattamento disumano e degradante?”

Il luogo descritto non si trova in un qualche paese sottosviluppato, ma nella “civile” Europa, e per quel che riguarda l’Italia abbiamo contato anche quindici detenuti per cella (sempre piccola, naturalmente) e ben ventitré ore e mezza colà rinchiusi.

Abbiamo constatata un’assistenza sanitaria raccapricciante, anche laddove fra i quindici detenuti si trovavano malati gravi affetti da malattie infettive e sieropositivi.

Abbiamo registrato casi di tortura con denudamento dei detenuti ed esposizione al pubblico ludibrio, e ne abbiamo sentite di ben altri e tristi colori.

Abbiamo scritto tutto questo ed invitato i responsabili a denunciarci, ma delle due l’una: o non avevano di che lamentarsi, essendo fedele il nostro racconto; o nella legge non ripongono grande fiducia.

Quel che non abbiamo trovato, nelle carceri italiane, è il bugliolo, cioè il secchio nel quale lasciare gli escrementi. Magari non c’è modo di lavarsi, magari dagli scarichi escono i topi ed altri animali, ma la tazza o la turca ci sono.

Ciò, però, non toglie quanto Cassese aggiunge subito dopo:

“nella nostra società, in cui sin dall’infanzia siamo abituati a compiere in totale solitudine il rito quotidiano delle nostre funzioni corporali, il fatto di doverle invece assolvere in presenza di altri diviene profondamente umiliante, per noi e per gli altri”.

E ribadisce:

“tutto ciò diviene molto più insopportabile quando più persone sono costrette a stare insieme, in uno spazio chiuso e ristretto, per quasi tutto il giorno e la notte.

Se potessero passare la maggior partedella giornata fuori dalla cella, lavorando, facendo sport, seguendo corsi di formazione professionale, anche il fatto di dividere uno spazio angusto con altri due o tre detenuti sarebbe meno intollerabile, così come sarebbe meno degradante non disporre di servizi igienici individuali annessi alla cella.

Noi (gli ispettori n.d.r. ) abbiamo perciò concluso che è la ‘combinazione perniciosa’ dei tre fattori appena ricordati a costituire senza ombra di dubbio un trattamento disumano e degradante.

Non posso togliermi dalla mente i volti di tanti giovani che ho visto in quelle carceri. Anche se avevano trascorso solo pochi giorni in quelle condizioni di abbrutimento, avevano lo sguardo opaco di chi non ha futuro”.

È impossibile ogni ulteriore commento.

Come si vede, dunque, la realtà della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti non è da noi lontana, non abbiamo il diritto, e non abbiamo ragione, di considerarci estranei a comportamenti e costumi che, a parole, ci dilettiamo a condannare.

Il corpo degli ispettori del Consiglio d’Europa ha anche individuato delle realtà meno gravi, che ha definito situazioni “inaccettabili o inammissibili”.

Dovendo fare unesempio, ci presentano la situazione in cui: “i detenuti in attesa di giudizio (per i quali vale dunque la presunzione di innocenza) sono reclusi insieme con i condannati”.

Questa, in Italia, è la regola.

Una regola certamente inaccettabile ed inammissibile.

Ma questa regola, come il resto della realtà descritta, non deve essere accettata fatalisticamente, anzi, al contrario, contro di essa devono mobilitarsi le intelligenze e le coscienze.

Ricordando quel che la Corte ha detto, e che ripetiamo ancora una volta, la “proibizione assoluta”, della tortura e dei trattamenti disumani o degradanti, “consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche”.

Non può dirsi democratica quella società in cui tale consacrazione non sia avvenuta, e non si sia inverata nella pratica.

Ancora una volta si deve tenere presente che contro queste inciviltà il cittadino che ne è vittima può trovare ascolto presso la Corte Europea.

Molto spesso capita che chi ha vissuto queste esperienze tenti di chiuderle in un contenitore ermetico, rifiutando loro anche solo il ricordo.

Si trovano, insomma, nella condizione in cui vivono molte donne che hanno subito violenza carnale: un misto di dolore, rabbia e vergogna che spinge al silenzio e fa rifuggire dalla denuncia.

È un errore, così come è un’ illusione sperare di dimenticare.

Al contrario, la rabbia ed il dolore devono dare la forza di combattere; mentre la vergogna deve diventare vergogna di vivere in una società in cui queste cose sono ancora possibili.

È vergognoso, sol perché se ne è usciti, tacere.

Inaccettabile ed inammissibile.

Certo, vivere in un Paese in cui il Presidente della Repubblica denuncia l’esistenza della tortura, lo fa ripetutamente, e tutti gli altri fanno finta di nulla, fanno finta di non avere sentito; vivere in un Paese in cui lo spettacolo della tortura va in scena su televisioni e giornali, senza che questo crei una vasta reazione morale, fa un po’ venire i brividi.

Ma i brividi sarebbero mortali se si fosse indotti a ritenere tutto questo “normale”, se si ritenesse che nulla si può fare.

Tutto, invece, resta ancora da fare.



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1 commenti:

Andrea ha detto...

Purtroppo Paraffo, Di Pietro è sostenuto da chi condannò a morte il "torturatore" Calabresi;)

Rimane indelebile l'imprinting del ministro della giustizia Togliatti in questo sempre più misero paese.