sabato 9 agosto 2008

Magistratura e Governi catto-marxisti: un' Apocalisse!

I capitoli 6 e 7 del libro di Giacalone riguardano la Storia della Corte Europea e le istruzioni per farvi ricorso. Se interessati, potete leggerli direttamente alla fonte.

Io li salto e pubblico, oggi, l' intero capitolo 8, intitolato "La legge Pinto".

Vi troverete la storia di una legge che è il simbolo della assoluta incapacità di governo di una compagine politica, quella cattolica e marxista, comunemente intesa - nei decenni - come "centro-sinistra", che ha martoriato questo paese per 40 anni.

In particolare scoprirete, attraverso questa storia, in che conto questa gente abbia sempre tenuto i cittadini: carne da macello da sacrificare alle proprie esigenze propagandistiche e di conservazione del potere, senza alcun interesse al cosiddetto "bene comune".

Scoprirete, inoltre, quanto "europeista" sia la gente di centro-sinistra e capirete perchè il resto d' Europa ci disprezzi profondamente.

Basterebbe, a giustificare tanto disprezzo, solamente l' ideazione ed il varo di "questa" legge" .....


L’ incapacità dei tribunali italiani di rendere giustizia in tempi ragionevoli ha di molto superato i limiti patologici, ma ha anche preso una lunga rincorsa. Da quando esiste la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pertanto, l’Italia si è subito segnalata fra i Paesi più condannati, per poi prendere saldamente il primo posto.

Nonostante la procedura di ricorso a Strasburgo non fosse poi così diffusa, e solo una piccola, direi minima, parte degli aventi diritto andava a reclamare giustizia, i ricorsi dall’Italia crescevano in modo talmente impetuoso da mettere in crisi anche quella Corte, che aveva il dovere di sentenziare contro la lentezza, ma a sua volta era stata colta dal tormento del lavoro arretrato.

Per questa ragione il consiglio dei ministri del Consiglio d’Europa, dopo numerosi e ripetuti richiami, s’apprestava a prendere dolorosi provvedimenti contro l’Italia.

Quei provvedimenti sarebbero stati salutati come un successo da noi europeisti ed amanti del diritto, avremmo visto con piacere le punizioni inflitteci, perché la relativa umiliazione (l’Italia è uno dei Paesi fondatori!) avrebbe finalmente reso necessarie ed urgenti quelle riforme strutturali che la politica, da sé sola, non aveva la forza, e neanche la voglia d’intraprendere.

Fino a quando non si giunse vicini al punto di rottura, del resto, l’Italia aveva assunto un atteggiamento neghittoso nei confronti delle condanne.

Le davano fastidio, ma non al punto di indurre una reazione.

Leggeva gli ammonimenti con il falso animo contrito del somaro rimproverato e colto a copiare, ma senza alcuna intenzione di rimediare con una disciplina meno deprecabile.

Ma oramai, al debutto del nuovo millennio, si era giunti al punto di rottura: per evitare d’essere sopraffatta dai ricorsi contro l’Italia la Corte avrebbe chiesto una più dura, risolutiva e generale condanna contro il nostro Paese, questa volta politica e non giudiziaria, talché non saremmo stati considerati degni d’appartenere al novero dei Paesi civili, saremmo stati fra i violatori cronici della Convenzione e, pertanto, i nostri cittadini avrebbero perso il diritto di ricorrere ad una Corte che non considerava più affidabile l’Italia.

Ipotesi, questa, di immensa gravità. Che non è affatto esclusa per il futuro.

Certo, la cosa più seria da farsi sarebbe stata mettere la giustizia nelle condizioni di funzionare, ma da noi esistono fantasie prodighe ed inesauribili, che s’industriano ad evitare di risolvere i problemi, cercando però di non pagarne lo scotto.

Questa volta è toccato all’avvocato Michele Pinto, senatore è già ministro dell’agricoltura (esatto, il ministero che doveva abolirsi) nel governo Prodi del 1996 – 1998, il quale ideò un machiavello straordinario:

il Paese che non riusciva a far funzionare la propria giustizia avrebbe demandato ai propri giudici il compito di punirlo.

Il ricorso alla Corte di Strasburgo, difatti, è possibile (salvo eccezioni) quando si sono esaurite tutte le vie per ottenere giustizia nel proprio Paese, ed allora il buon Pinto propose di inventare un nuovo livello di giudizio, che avrebbe allungato la broda dell’ingiustizia e, almeno in quel momento avrebbe evitato all’Italia l’umiliazione dell’espulsione, dato che tutti i procedimenti pendenti tornavano a casa, come il cane Lassie, per essere esaminati da giudici nostrani.

Contenta la Corte, che si tolse i fastidi, contento il governo di centro sinistra, che poteva sottrarsi all’incubo della condanna, ma scontenti i cittadini.

E scontente anche le Corti d’Appello che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, annettono alla legge Pinto la responsabilità di averne rallentanto il già lento lavoro.

La legge n. 89 del 2001, detta Pinto, approvata in fine di legislatura, inventò uno strumento che consente un’equa riparazione a “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione”.

In pratica, chiunque sia stato parte in un procedimento che ha avuto una durata non ragionevole può rivolgersi alla Corte d’Appello della circoscrizione vicina alla propria (per evitare che i giudici giudichino se stessi) per chiedere un’equa riparazione.

Secondo il Pinto e la Pinto, però, la Corte d’Appello avrebbe avuto l’obbligo di emettere una sentenza entro quattro mesi dall’introduzione dei ricorsi, e questo serviva, al momento dell’approvazione e della propaganda, a far credere che si fosse trovato il rimedio per far correre il bradipo come fosse una lepre.

Ma di rimedi non ce n’era neanche uno, e l’effetto di questa tragicomica previsione è stato che i cittadini che lamentano la lentezza eccessiva dei processi si devono sobbarcare un altro procedimento lento, con l’aggiunta del disturbo di doversi recare in una città diversa dalla propria.

Vero sadomasochismo giudiziario.

Inoltre, una volta concluso in un anno, un anno e mezzo quel che si sarebbe dovuto fare in quattro mesi, ed aggiungendo quel tempo alla decade inizialmente lamentata, il medesimo cittadino può andare ancora a Strasburgo a dire:

non solo hanno violato i miei diritti, ma mi hanno preso in giro facendomi perdere ulteriore tempo.

E, difatti, i ricorsi alla Corte sono ripresi a fioccare, così come le condanne che presto ci riporteranno al punto di rottura che Pinto riuscì a rimandare, senza nulla risolvere.

Eppure, e non mi stancherò mai di ripeterlo, nonostante i numeri rivelino un crescendo rossiniano, ancora una minoranza degli aventi diritto si decidono a chiedere dei risarcimenti. La tabella che segue1 serve a farsi un’idea sull’andamento di questi ricorsi:



Tutto questo ho voluto raccontarlo perché è pur vero che si tratta di un particolare, di un dettaglio che nel nostro ragionamento generale poteva anche omettersi, ma non è affatto irrilevante da un altro punto di vista:

lo scarso rispetto che il legislatore porta al cittadino.

E qui c’è poco da fare gli spiritosi. Ci sono persone e famiglie che si rovinano per far fronte a processi incivilmente lunghi, a conclusione dei quali l’assoluzione sembra una beffa, ed a queste vittime di uno Stato inefficiente e deficiente il legislatore ebbe l’ardire di proporre un nuovo ingresso negli stessi tribunali, un nuovo presentarsi davanti alla medesima casta togata, fidando che molti non avrebbero avuto il fegato, la voglia, di ricominciare.

Sperando che il cittadino non creda ai propri diritti, come spesso il legislatore non crede al diritto.

Parlo per esperienza personale: dopo tredici anni di procedimento ci vuole la rabbia dell’ingiustizia subita per trovare il coraggio di dovere rifotocopiare le carte, ricercare un avvocato, ripagarlo, per poi mettersi in fila in un tribunale dove nessuno ti rispetta, dove se dici che devono decidere in quattro mesi, come la legge stabilisce, ti ridono in faccia, dove nessuno sarà mai punito per avere violato anche questa legge.

Io ho ottenuto il risarcimento, benché non abbia nulla di equo, ma ho anche moltiplicato il disagio di vivere in un Paese che con quel meccanismo esclude dal diritto i più deboli economicamente, culturalmente e caratterialmente.

Quella di cui qui si parla, dunque, non è una battaglia utile ad uno schieramento anziché ad un altro, è una guerra per la civiltà, contro l’arroganza dell’ignoranza legislativa.


Add to Technorati Favorites
HOME

0 commenti: