In questo nono capitolo del suo libro, Giacalone ci fa sapere come la malagiustizia civile sia causa dell' impoverimento sistematico del nostro paese, in una proporzione tale da risultare quasi incredibile (circa lo 0,70% del PIL)!!
Non credo di dover aggiungere altro.
Leggete e inorridite.
Non credo di dover aggiungere altro.
Leggete e inorridite.
Un mercato dove la giustizia non funziona è un mercato corrotto.
Non si tratta solo dell’incapacità ad individuare e perseguire i reati di corruzione, ma, più generalmente, dell’incapacità a far rispettare le regole.
Un mercato dove il rispetto delle regole non sia garantito, e dove l’infrangerle non avvenga sotto la realistica e tempestiva minaccia di una punizione, è un mercato che si corrompe. Nel suo insieme.
Questa, purtroppo, è la nostra condizione.
Al fiorire smodato di regole ed adempimenti non fa seguito un accurato ed efficace controllo, cosicché la superfetazione legislativa e regolamentare finisce con l’essere una tortura per chi si picca di volere essere nel giusto e nel rispetto, mentre diventa uno spauracchio poco temibile per chi del rispetto delle regole si fa un baffo.
Nel Paese in cui tutto è proibito, in cui per tutto è necessaria l’autorizzazione, la vidimazione, l’autentica, il permesso, chi cerca di procurarseli perde un sacco di tempo, chi se ne frega può ragionevolmente sperare di farla franca.
Siccome appartengo io stesso alla categoria dei timorosi e timorati e non mi faccio mancare neanche un timbro so, per esperienza, che la precedente affermazione può lasciar perplessi i miei simili, ma, vedete, sono proprio quelli come me che temono la sanzione per quello che neanche pensavano di avere il dovere di possedere o custodire a vita, finché morte non li colga, mentre c’è una vasta categoria di concittadini che se la ride e sa bene che la pubblica amministrazione fa la faccia feroce solo all’inizio, mentre poi non è in grado di far rispettare se stessa e si smarrisce nei corridoi dei tribunali.
Io m’incupisco anche quando l’agenzia dei tributi mi fa sapere che è tutto in regola, perché sotto aggiunge che questa sua affermazione non fa testo, ma altri se la ridono anche quando vengono scoperti in plateale evasione, giacché sanno, come le statistiche dimostrano, che sarà difficile costringerli a scucire un tallero.
Gli scandali finanziari sono parte stessa del mercato, ed in nessuna parte del mondo si è in grado di prevenirli tutti.
La cronaca statunitense, del resto, ci ha restituito storie di grandi crack nati da truffe vere e proprie, nelle quali hanno rimesso soldi i risparmiatori ed i lavoratori, bruciando ricchezza del mercato a vantaggio di qualche maneggione.
Ma quelle stesse cronache raccontano poi di procedimenti giudiziari avviati alla svelta e condotti con gran severità. Il che ha portato certuni a scendere dall’aereo privato per entrare in galera e starci lunghi anni.
Da noi gli scandali finanziari sono oggetto di chiacchiera sociale.
Li si sviscera sui giornali, ci si scrivono libri, ma delle sentenze, e delle relative pene, neanche l’ombra.
I presunti responsabili (presunti, accidenti, perché così c’impone la civiltà, anche quando sono dichiaratamente colpevoli) finiscono in carcere nel corso delle indagini, non scontano alcuna pena ma ci passano qualche settimana, talora mesi, poi escono e si fanno fotografare con la famiglia, intenti a riscoprire i valori di una volta e la fede trascurata.
I processi durano anni, tanto che si fa in tempo anche a dimenticarsene.
I risarcimenti sono una chimera e, con il passare del tempo ed il divenire la materia buona solo per ricostruzioni dietrologiche, si diffondono leggende di coinvolgimenti innominabili, di ambienti intoccabili, di livelli inavvicinabili.
Mentre l’unica cosa cui non ci si avviciana, appunto, è una giustizia decente.
È dei nostri giorni un’inchiesta che dura anni, dove si scopre che una banda di spioni, pagata diecine di milioni da due aziende quotate in Borsa, commetteva reati a gogò violando la riservatezza di intere comitive.
Ma ogni volta che i capi di quell’azienda, quindi quelli che avevano assunto, istruito e pagato i presunti (sempre accidenti) responsabili di quei reati ne parlano dicono: noi siamo parte lesa.
È una barzelletta, che non fa neanche ridere.
Poi prendono un noto avvocato, lo mettono a presiedere l’azienda e quando litigano quello se ne va dicendo di aver visto una realtà che gli ricorda la Chicago dei mafiosi che sparano per strada.
Ma quelli continuano ad andare in giro e dire: siamo la parte lesa.
La cosa non sarebbe grottesca se si pensasse d’arrivare in tempi ragionevoli ad un processo, per cui le cose vengono a galla e se quei signori sono veramente parte lesa si rivarranno sui rei, oppure parteciperanno della loro sorte.
Ma questo non avviene, e ci teniamo il grottesco.
Tutto ciò, sia chiaro, non lo sappiamo solo noi che la mattina facciamo colazione mangiando il cornetto e leggendo le intercettazioni di turno, lo sa tutto il mondo che, difatti, diventa sospettoso e riottoso quando si tratta d’investire soldi in Italia.
E se poi il partner mi truffa, a chi mi rivolgo? Al giudice che sentenzia dieci anni dopo, sempre che lo faccia, no, grazie.
Ed è anche questo il motivo per cui preferiscono evitare d’avere società di diritto italiano, e se le occasioni sono ghiotte investono utilizzando veicoli esteri e scrivendo esplicitamente che, in caso di problemi, il foro competente sarà una sede internazionale.
Mai Roma, mai Milano.
Così procedendo, però, il nostro mercato s’impoverisce, il nostro stesso fisco incassa meno e, pertanto, tutti paghiamo una tassa per l’inesistenza di una giustizia degna di questo nome.
Dall’inizio alla fine di una procedura di fallimento passano, in media, 3.140 giorni. Quasi nove anni.
Immaginate di avere un’azienda che deve avere dei soldi dal fallito e fate due conti di quanto vi costa l’inesistenza della giustizia.
Confartigianato i conti ha provato a farli (non è facile, ma a spanne sono possibili) e ne ha dedotto che per le sole imprese artigiane quei costi ammontano a 2,3 miliardi l’anno, in media 384mila euro ad azienda.
Dicono che il costo del ritardo per la riscossione dei crediti è di 1.157 milioni di euro, mentre il costo indotto dagli ingenti ritardi delle procedure concorsuali obbliga le imprese a sostenere maggiori oneri finanziari per 1.174 milioni, incrementando in tal modo del 12,2% le perdite dei fallimenti, che sono già enormi ed ammontano a 9.606 milioni.
Nel complesso, al sistema economico, i fallimenti portano una perdita di 10,7 miliardi, ovvero una cifra che fa lo 0,76% del prodotto interno lordo.
Si guardi questa tabella, frutto dell’elaborazione di Confartigianato dei dati Istat e Infocamere relativi al 2005:
Non solo sono dati drammatici, ma riportano a galla una differenza territoriale che segna lo svantaggio di certi imprenditori per il solo fatto di trovarsi in una regione anziché in un’altra.
E si tratta di uno svantaggio dovuto alla giustizia, quindi allo Stato. Senza contare lo svantaggio dell’intera azienda-Italia rispetto ai diretti concorrenti esteri.
Si calcola che “se prendiamo a riferimento il tempo per far rispettare un contratto la performance del nostro sistema giudiziario presenta profonde inefficienze rispetto ai sistemi giudiziari dei principali Paesi industrializzati. La durata media rilevata dalla Banca Mondiale nel 2006 per far rispettare un contratto del valore pari a due volte il reddito pro capite in Italia è pari a 1.210 giorni, superiore ai 515 giorni della Spagna, ai 394 della Germania ed ai 331 della Francia”. Dove, non dimentichiamolo, tutti si lamentano per la lentezza della giustizia. Abbiamo visto (secondo capitolo) che alla giustizia ed al suo naufragio ha dedicato attenzione il governatore della Banca d’Italia, nelle considerazioni finali lette all’assemblea del maggio 2007.
Prima ancora lo stesso istituto aveva pubblicato un lavoro di Amanda Carmignani2, dove si legge che: “in ambienti dove le tutele giuridiche sono più scarse o inefficienti, la disponibilità relativa del credito commerciale può risultare maggiore, soprattutto per le imprese per le quali l’esistenza di asimmetrie informative può determinare forme di razionamento da parte degli intermediari creditizi. Le informazioni utilizzate per l’analisi empirica sono state ottenute incrociando le statistiche giudiziarie civili diffuse dall’Istat con i dati sui bilanci delle imprese presenti nella base dati della Centrale dei bilanci e con quelli sul sistema creditizio tratti dalle segnalazioni di vigilanza e dall’archivio anagrafico delle banche tenuto presso la Banca d’Italia.
I risultati mostrano che laddove l’enforcement giudiziario è più debole, le imprese ricorrono in maniera più intensa alle dilazioni di pagamento presso i fornitori; ne risulta accresciuta l’incidenza del debito commerciale sul totale dei debiti”.
Ed aggiunge che: “La relazione tra funzionamento della giustizia e indebitamento commerciale può essere spiegata in base al grado di tutela dei creditori. Sotto questo profilo, il credito commerciale presenta un vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento a breve termine che lo rende più indipendente dal funzionamento dei meccanismi di tutela giuridica formale: oltre alla limitata entità degli importi e ai brevi tempi di dilazione, la protezione è assicurata dalla natura del finanziamento (input specifici piuttosto che denaro, cfr. Burkart e Ellingsen, 2002) e dalla credibilità della sanzione che l’impresa venditrice è in grado di imporre a quella acquirente in caso di inadempimento (la sospensione della fornitura della merce).
Quando la tutela legale dall’insolvenza o da comportamenti “opportunistici” dei debitori non è elevata, il livello di incertezza nei mercati dei finanziamenti aumenta ed ex ante gli intermediari finanziari sono meno disposti a concedere credito, soprattutto ai soggetti ritenuti più rischiosi (imprese più opache, caratterizzate da livelli bassi di garanzie, ecc.).
In simili circostanze le imprese che hanno difficoltà di accesso al mercato del credito possono utilizzare il credito commerciale come parziale sostituto di finanziamenti a breve termine alternativi”.
Tutto questo, naturalmente, senza considerare che l’inefficienza della giustizia nel recupero dei crediti consegna a talune organizzazioni criminali l’inquietante fascino della tempestività e dell’efficacia.
Per ragioni anche politiche, capita che la discussione sull’agonia della giustizia si concentri su quella penale, ma sarebbe un grave errore ignorare il progressivo venir meno di quella civile.
Basti considerare che il 70% delle cause civili di contenuto economico finiscono con il risolversi in un accordo fra le parti.
Il che non deve far credere al successo della volontà conciliativa, ma al fatto che nella grandissima maggioranza dei casi il debole soccombe prima del giudizio, non riuscendo a sopportarne la lentezza ed i costi.
Così capita che si accetti di avere meno soldi di quelli cui si avrebbe diritto, o che ci si arrenda in giudizio, o che ci si arrenda una volta vinto il giudizio e constatato che sta per aprirsi il calvario non meno lungo e periglioso dell’esecuzione.
Nel processo penale le tattiche dilatorie servono a fare andare in prescrizione i reati, in quello civile servono a prendere per la gola chi non ha le spalle economicamente robuste.
Proprio per queste ragioni, proprio perché la motivazione è prevalentemente economica, basterebbe un adeguato disincentivo economico per riportare molti tempi alla ragionevolezza.
Un esempio: il tasso d’interesse legale e quello di mercato sono solo lontani parenti, così che chi deve dare dei soldi a qualcun altro ha tutto l’interesse, anche economico, a darglieli il più tardi possibile.
Ci guadagna, anche materialmente, nel rimanere in possesso di quei quattrini.
Se quell’incentivo venisse meno, se tenersi soldi di altri fosse un onere e non un modo per guadagnare, molte meno persone avrebbero interesse a perdere tempo.
È noto che gli avvocati hanno accolto con avversità l’idea che il loro onorario dipenda, sebbene solo in parte, dal patto di quota lite, ovvero dal valore reale della causa e dal suo esito.
Ma farebbero bene a riflettere su questa loro posizione, perché in altri Paesi europei il pagamento degli avvocati prevalentemente a success fee è considerato normale: mi fai vincere, ti pago; mi fai perdere, ti rifondo le spese.
In questo modo si ottiene un primo filtro professionale, di grande valore: nessuno vorrà prendersi in carico cause visibilmente suicide, in cui la probabilità di successo è praticamente nulla.
Ed in questo modo anche la giustizia civile (ovvio che il discorso non vale nel penale) respira.
Pensare, invece, che il mestiere dell’avvocato consista nell’assecondare sempre e comunque il cliente, anche quando ha platealmente torto, per poi riscuotere parcelle fissate da un tabellario non è che sia dimostrazione di una concezione particolarmente orgogliosa del proprio lavoro.
Accanto a questo va fatto un ragionamento sulla “lite temeraria”, ovvero sull’impiantare cause civili del tutto pretestuose, sapendo di essere dalla parte del torto.
Le leggi puniscono tale atteggiamento, ma solo dal punto di vista teorico, perché assegna all’altra parte l’onere di dimostrare il danno subito.
Invece questa è una strada da percorrere, per disincentivare l’insana abitudine di portare davanti ad un giudice questioni prive di rilievo e razionalità (anche se temo che, estendendo tale concetto al penale, sarebbero non pochi i pubblici ministeri protagonisti della lite temeraria). Non si deve mai perdere, comunque, la cognizione che lo sfascio della giustizia è causa di un grave ed irreparabile danno economico. Un Paese povero di giustizia è povero anche di capacità produttive.
Non si tratta solo dell’incapacità ad individuare e perseguire i reati di corruzione, ma, più generalmente, dell’incapacità a far rispettare le regole.
Un mercato dove il rispetto delle regole non sia garantito, e dove l’infrangerle non avvenga sotto la realistica e tempestiva minaccia di una punizione, è un mercato che si corrompe. Nel suo insieme.
Questa, purtroppo, è la nostra condizione.
Al fiorire smodato di regole ed adempimenti non fa seguito un accurato ed efficace controllo, cosicché la superfetazione legislativa e regolamentare finisce con l’essere una tortura per chi si picca di volere essere nel giusto e nel rispetto, mentre diventa uno spauracchio poco temibile per chi del rispetto delle regole si fa un baffo.
Nel Paese in cui tutto è proibito, in cui per tutto è necessaria l’autorizzazione, la vidimazione, l’autentica, il permesso, chi cerca di procurarseli perde un sacco di tempo, chi se ne frega può ragionevolmente sperare di farla franca.
Siccome appartengo io stesso alla categoria dei timorosi e timorati e non mi faccio mancare neanche un timbro so, per esperienza, che la precedente affermazione può lasciar perplessi i miei simili, ma, vedete, sono proprio quelli come me che temono la sanzione per quello che neanche pensavano di avere il dovere di possedere o custodire a vita, finché morte non li colga, mentre c’è una vasta categoria di concittadini che se la ride e sa bene che la pubblica amministrazione fa la faccia feroce solo all’inizio, mentre poi non è in grado di far rispettare se stessa e si smarrisce nei corridoi dei tribunali.
Io m’incupisco anche quando l’agenzia dei tributi mi fa sapere che è tutto in regola, perché sotto aggiunge che questa sua affermazione non fa testo, ma altri se la ridono anche quando vengono scoperti in plateale evasione, giacché sanno, come le statistiche dimostrano, che sarà difficile costringerli a scucire un tallero.
Gli scandali finanziari sono parte stessa del mercato, ed in nessuna parte del mondo si è in grado di prevenirli tutti.
La cronaca statunitense, del resto, ci ha restituito storie di grandi crack nati da truffe vere e proprie, nelle quali hanno rimesso soldi i risparmiatori ed i lavoratori, bruciando ricchezza del mercato a vantaggio di qualche maneggione.
Ma quelle stesse cronache raccontano poi di procedimenti giudiziari avviati alla svelta e condotti con gran severità. Il che ha portato certuni a scendere dall’aereo privato per entrare in galera e starci lunghi anni.
Da noi gli scandali finanziari sono oggetto di chiacchiera sociale.
Li si sviscera sui giornali, ci si scrivono libri, ma delle sentenze, e delle relative pene, neanche l’ombra.
I presunti responsabili (presunti, accidenti, perché così c’impone la civiltà, anche quando sono dichiaratamente colpevoli) finiscono in carcere nel corso delle indagini, non scontano alcuna pena ma ci passano qualche settimana, talora mesi, poi escono e si fanno fotografare con la famiglia, intenti a riscoprire i valori di una volta e la fede trascurata.
I processi durano anni, tanto che si fa in tempo anche a dimenticarsene.
I risarcimenti sono una chimera e, con il passare del tempo ed il divenire la materia buona solo per ricostruzioni dietrologiche, si diffondono leggende di coinvolgimenti innominabili, di ambienti intoccabili, di livelli inavvicinabili.
Mentre l’unica cosa cui non ci si avviciana, appunto, è una giustizia decente.
È dei nostri giorni un’inchiesta che dura anni, dove si scopre che una banda di spioni, pagata diecine di milioni da due aziende quotate in Borsa, commetteva reati a gogò violando la riservatezza di intere comitive.
Ma ogni volta che i capi di quell’azienda, quindi quelli che avevano assunto, istruito e pagato i presunti (sempre accidenti) responsabili di quei reati ne parlano dicono: noi siamo parte lesa.
È una barzelletta, che non fa neanche ridere.
Poi prendono un noto avvocato, lo mettono a presiedere l’azienda e quando litigano quello se ne va dicendo di aver visto una realtà che gli ricorda la Chicago dei mafiosi che sparano per strada.
Ma quelli continuano ad andare in giro e dire: siamo la parte lesa.
La cosa non sarebbe grottesca se si pensasse d’arrivare in tempi ragionevoli ad un processo, per cui le cose vengono a galla e se quei signori sono veramente parte lesa si rivarranno sui rei, oppure parteciperanno della loro sorte.
Ma questo non avviene, e ci teniamo il grottesco.
Tutto ciò, sia chiaro, non lo sappiamo solo noi che la mattina facciamo colazione mangiando il cornetto e leggendo le intercettazioni di turno, lo sa tutto il mondo che, difatti, diventa sospettoso e riottoso quando si tratta d’investire soldi in Italia.
E se poi il partner mi truffa, a chi mi rivolgo? Al giudice che sentenzia dieci anni dopo, sempre che lo faccia, no, grazie.
Ed è anche questo il motivo per cui preferiscono evitare d’avere società di diritto italiano, e se le occasioni sono ghiotte investono utilizzando veicoli esteri e scrivendo esplicitamente che, in caso di problemi, il foro competente sarà una sede internazionale.
Mai Roma, mai Milano.
Così procedendo, però, il nostro mercato s’impoverisce, il nostro stesso fisco incassa meno e, pertanto, tutti paghiamo una tassa per l’inesistenza di una giustizia degna di questo nome.
Dall’inizio alla fine di una procedura di fallimento passano, in media, 3.140 giorni. Quasi nove anni.
Immaginate di avere un’azienda che deve avere dei soldi dal fallito e fate due conti di quanto vi costa l’inesistenza della giustizia.
Confartigianato i conti ha provato a farli (non è facile, ma a spanne sono possibili) e ne ha dedotto che per le sole imprese artigiane quei costi ammontano a 2,3 miliardi l’anno, in media 384mila euro ad azienda.
Dicono che il costo del ritardo per la riscossione dei crediti è di 1.157 milioni di euro, mentre il costo indotto dagli ingenti ritardi delle procedure concorsuali obbliga le imprese a sostenere maggiori oneri finanziari per 1.174 milioni, incrementando in tal modo del 12,2% le perdite dei fallimenti, che sono già enormi ed ammontano a 9.606 milioni.
Nel complesso, al sistema economico, i fallimenti portano una perdita di 10,7 miliardi, ovvero una cifra che fa lo 0,76% del prodotto interno lordo.
Si guardi questa tabella, frutto dell’elaborazione di Confartigianato dei dati Istat e Infocamere relativi al 2005:
Non solo sono dati drammatici, ma riportano a galla una differenza territoriale che segna lo svantaggio di certi imprenditori per il solo fatto di trovarsi in una regione anziché in un’altra.
E si tratta di uno svantaggio dovuto alla giustizia, quindi allo Stato. Senza contare lo svantaggio dell’intera azienda-Italia rispetto ai diretti concorrenti esteri.
Si calcola che “se prendiamo a riferimento il tempo per far rispettare un contratto la performance del nostro sistema giudiziario presenta profonde inefficienze rispetto ai sistemi giudiziari dei principali Paesi industrializzati. La durata media rilevata dalla Banca Mondiale nel 2006 per far rispettare un contratto del valore pari a due volte il reddito pro capite in Italia è pari a 1.210 giorni, superiore ai 515 giorni della Spagna, ai 394 della Germania ed ai 331 della Francia”. Dove, non dimentichiamolo, tutti si lamentano per la lentezza della giustizia. Abbiamo visto (secondo capitolo) che alla giustizia ed al suo naufragio ha dedicato attenzione il governatore della Banca d’Italia, nelle considerazioni finali lette all’assemblea del maggio 2007.
Prima ancora lo stesso istituto aveva pubblicato un lavoro di Amanda Carmignani2, dove si legge che: “in ambienti dove le tutele giuridiche sono più scarse o inefficienti, la disponibilità relativa del credito commerciale può risultare maggiore, soprattutto per le imprese per le quali l’esistenza di asimmetrie informative può determinare forme di razionamento da parte degli intermediari creditizi. Le informazioni utilizzate per l’analisi empirica sono state ottenute incrociando le statistiche giudiziarie civili diffuse dall’Istat con i dati sui bilanci delle imprese presenti nella base dati della Centrale dei bilanci e con quelli sul sistema creditizio tratti dalle segnalazioni di vigilanza e dall’archivio anagrafico delle banche tenuto presso la Banca d’Italia.
I risultati mostrano che laddove l’enforcement giudiziario è più debole, le imprese ricorrono in maniera più intensa alle dilazioni di pagamento presso i fornitori; ne risulta accresciuta l’incidenza del debito commerciale sul totale dei debiti”.
Ed aggiunge che: “La relazione tra funzionamento della giustizia e indebitamento commerciale può essere spiegata in base al grado di tutela dei creditori. Sotto questo profilo, il credito commerciale presenta un vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento a breve termine che lo rende più indipendente dal funzionamento dei meccanismi di tutela giuridica formale: oltre alla limitata entità degli importi e ai brevi tempi di dilazione, la protezione è assicurata dalla natura del finanziamento (input specifici piuttosto che denaro, cfr. Burkart e Ellingsen, 2002) e dalla credibilità della sanzione che l’impresa venditrice è in grado di imporre a quella acquirente in caso di inadempimento (la sospensione della fornitura della merce).
Quando la tutela legale dall’insolvenza o da comportamenti “opportunistici” dei debitori non è elevata, il livello di incertezza nei mercati dei finanziamenti aumenta ed ex ante gli intermediari finanziari sono meno disposti a concedere credito, soprattutto ai soggetti ritenuti più rischiosi (imprese più opache, caratterizzate da livelli bassi di garanzie, ecc.).
In simili circostanze le imprese che hanno difficoltà di accesso al mercato del credito possono utilizzare il credito commerciale come parziale sostituto di finanziamenti a breve termine alternativi”.
Tutto questo, naturalmente, senza considerare che l’inefficienza della giustizia nel recupero dei crediti consegna a talune organizzazioni criminali l’inquietante fascino della tempestività e dell’efficacia.
Per ragioni anche politiche, capita che la discussione sull’agonia della giustizia si concentri su quella penale, ma sarebbe un grave errore ignorare il progressivo venir meno di quella civile.
Basti considerare che il 70% delle cause civili di contenuto economico finiscono con il risolversi in un accordo fra le parti.
Il che non deve far credere al successo della volontà conciliativa, ma al fatto che nella grandissima maggioranza dei casi il debole soccombe prima del giudizio, non riuscendo a sopportarne la lentezza ed i costi.
Così capita che si accetti di avere meno soldi di quelli cui si avrebbe diritto, o che ci si arrenda in giudizio, o che ci si arrenda una volta vinto il giudizio e constatato che sta per aprirsi il calvario non meno lungo e periglioso dell’esecuzione.
Nel processo penale le tattiche dilatorie servono a fare andare in prescrizione i reati, in quello civile servono a prendere per la gola chi non ha le spalle economicamente robuste.
Proprio per queste ragioni, proprio perché la motivazione è prevalentemente economica, basterebbe un adeguato disincentivo economico per riportare molti tempi alla ragionevolezza.
Un esempio: il tasso d’interesse legale e quello di mercato sono solo lontani parenti, così che chi deve dare dei soldi a qualcun altro ha tutto l’interesse, anche economico, a darglieli il più tardi possibile.
Ci guadagna, anche materialmente, nel rimanere in possesso di quei quattrini.
Se quell’incentivo venisse meno, se tenersi soldi di altri fosse un onere e non un modo per guadagnare, molte meno persone avrebbero interesse a perdere tempo.
È noto che gli avvocati hanno accolto con avversità l’idea che il loro onorario dipenda, sebbene solo in parte, dal patto di quota lite, ovvero dal valore reale della causa e dal suo esito.
Ma farebbero bene a riflettere su questa loro posizione, perché in altri Paesi europei il pagamento degli avvocati prevalentemente a success fee è considerato normale: mi fai vincere, ti pago; mi fai perdere, ti rifondo le spese.
In questo modo si ottiene un primo filtro professionale, di grande valore: nessuno vorrà prendersi in carico cause visibilmente suicide, in cui la probabilità di successo è praticamente nulla.
Ed in questo modo anche la giustizia civile (ovvio che il discorso non vale nel penale) respira.
Pensare, invece, che il mestiere dell’avvocato consista nell’assecondare sempre e comunque il cliente, anche quando ha platealmente torto, per poi riscuotere parcelle fissate da un tabellario non è che sia dimostrazione di una concezione particolarmente orgogliosa del proprio lavoro.
Accanto a questo va fatto un ragionamento sulla “lite temeraria”, ovvero sull’impiantare cause civili del tutto pretestuose, sapendo di essere dalla parte del torto.
Le leggi puniscono tale atteggiamento, ma solo dal punto di vista teorico, perché assegna all’altra parte l’onere di dimostrare il danno subito.
Invece questa è una strada da percorrere, per disincentivare l’insana abitudine di portare davanti ad un giudice questioni prive di rilievo e razionalità (anche se temo che, estendendo tale concetto al penale, sarebbero non pochi i pubblici ministeri protagonisti della lite temeraria). Non si deve mai perdere, comunque, la cognizione che lo sfascio della giustizia è causa di un grave ed irreparabile danno economico. Un Paese povero di giustizia è povero anche di capacità produttive.
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