In questa seconda parte del decimo capitolo del libro di Giacalone, troverete indicati gli errori compiuti dal precedente Governo Berlusconi in materia di riforma della giustizia.
Il fatto che questi errori vennero favoriti dalla fronda messa in atto dal Presidente NON-emerito della Repubblica, Azeglio Ciampi, non assolve, a mio parere, la pusillanimità della maggioranza che, dal 2001 al 2006, ha sostenuto (si fa per dire) il secondo Governo Berlusconi.
E' anche per questo motivo che chi scrive queste note si è incazzato come un puma quando ha avuto sentore, qualche settimana fa, che la nuova maggioranza voleva praticare la stessa NON-politica nei confronti della Magistratura: stavolta non ha neppure l' alibi di Ciampi e dell' UDC.
Stavolta, o si fa 'sta benedetta Riforma, e la si fa seriamente, o si Muore, della serie: "ora o mai più".
Il testo che leggerete oggi si inserisce perfettamente nelle polemiche di questi giorni innestate da quei dementi (si fa per dire) che dirigono l' Associazione Nazionale Magistrati ....
Il fatto che questi errori vennero favoriti dalla fronda messa in atto dal Presidente NON-emerito della Repubblica, Azeglio Ciampi, non assolve, a mio parere, la pusillanimità della maggioranza che, dal 2001 al 2006, ha sostenuto (si fa per dire) il secondo Governo Berlusconi.
E' anche per questo motivo che chi scrive queste note si è incazzato come un puma quando ha avuto sentore, qualche settimana fa, che la nuova maggioranza voleva praticare la stessa NON-politica nei confronti della Magistratura: stavolta non ha neppure l' alibi di Ciampi e dell' UDC.
Stavolta, o si fa 'sta benedetta Riforma, e la si fa seriamente, o si Muore, della serie: "ora o mai più".
Il testo che leggerete oggi si inserisce perfettamente nelle polemiche di questi giorni innestate da quei dementi (si fa per dire) che dirigono l' Associazione Nazionale Magistrati ....
Fra il 2001 ed il 2006 in Parlamento c’era una solida maggioranza di centro destra. Nel corso di quei cinque anni il conflitto politico con la magistratura associata e politicizzata non ha praticamente mai avuto sosta.
Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente.
Il centro destra mostra di non avere la capacità d’impostare una complessiva politica per la giustizia e si lancia all’inseguimento di emergenze legate a questo o quel procedimento.
Verrà accusato di fare leggi ad personam, ovvero ritagliate sulle esigenze di questo o di quello, ma, in realtà, dalle rogatorie alla prescrizione accorciata per gli incensurati, sono tutte norme di banale civiltà, direi di ovvia bontà, destinate a portare nuove garanzie per tutti, ma agguantate sempre all’ultimo minuto e sempre senza la capacità di parlare apertamente dei diritti di tutti.
Per giunta, una volta fatti i conti, s’è semmai verificato il contrario: alcune garanzie vengono appositamente limitate affinché non siano applicabili a questo o quel caso concreto, tanto da poter effettivamente dire che alcune leggi sembrano aver dei buchi proprio per non giovare a delle persone specifiche.
Si oscilla per cinque anni fra la battaglia campale e l’accordo corporativo, da una parte si blandisce, dall’altra si gratta la magistratura associata.
Si rinuncia alla separazione delle carriere e si ripiega sulla distinzione delle funzioni, quindi si cerca in tutti i modi il dialogo, peraltro sollecitato da un Quirinale spesso fuori dai binari costituzionali.
Ma non ci si accorge che quel dialogo non è affatto testimonianza di moderazione e civiltà, bensì di cedimento agli interessi di pochi sacrificando quelli collettivi. Uno spettacolo inverecondo alla fine del quale rimane nell’opinione pubblica la sensazione che si sia agito solo per convenienze contingenti, particolari e personali, nel mentre i propri uomini, che si erano pubblicamente difesi, finiscono condannati.
Così gli uni potranno pensare che si era violentato il diritto nel tentativo di salvarli, senza riuscirci, e gli altri pensano di essere stati condannati proprio perché vittime di uno scontro in cui la maggioranza politica soccombeva.
Quei cinque anni dovrebbero essere ripassati al rallentatore e studiati, se non altro per capire che la politica per la giustizia non la devono fare i magistrati, ma non la si può affidare neanche agli avvocati. Gli uni e gli altri in quanto tali.
Dovrebbero essere rivisti per comprendere quali guai crei il non disporre di professionalità politica, il non sapere esattamente dove è bene mettere le mani. Il conflitto è talmente forte che ne fa le spese la migliore legge che il centro destra vara, ovvero la numero 46, meglio nota come legge Pecorella, approvata il 20 febbraio 2006 dopo che già aveva subito il rinvio alle Camere deciso dal Presidente della Repubblica.
Nella legge, operativa dal successivo 9 marzo, si stabilisce che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle “ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva”.
E ciò significa che, se un imputato viene assolto in primo grado, a meno di casi eccezionali e di nuove decisive prove, non può più essere processato per il medesimo reato.
È previsto inoltre l’obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta d’archiviazione quando la Corte di cassazione si sia pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che giustificano l’applicazione di una misura di custodia cautelare e, successivamente, non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.
Si tratta di due principi giustissimi.
Il primo, perché la presunzione d’innocenza, rafforzata da una sentenza d’assoluzione, non può piegarsi ad una decennale persecuzione giudiziaria, ed è evidente che siccome la condanna deve essere al di là di ogni ragionevole dubbio quel dubbio sarà più che ragionevole se la prima sentenza è di assoluzione.
Il secondo, perché se degli elementi d’accusa non sono sufficienti ad arrestare una persona è escluso che possano esserlo per condannarla in via definitiva.
Trovo imbarazzante che due solari evidenze debbano anche solo essere argomentate. Eppure successe il finimondo.
La legge aveva effettivamente un difetto relativo al ruolo della Cassazione, e su quel punto poteva sia essere scritta meglio che subire un severo giudizio istituzionale, ma il presidente Ciampi rifiutò di firmarla e la rimandò alle Camere, fra gli applausi del Consiglio Superiore della Magistratura e delle toghe associate, anche con un altro, del tutto errato, motivo: il fatto che non si potesse ricorrere contro un’assoluzione, laddove si continuava a poter ricorrere contro una condanna, sarebbe stata una violazione della parità fra le parti.
Il che è un’assoluta mostruosità culturale, purtroppo poi avallata dalla Corte Costituzionale, la cui rotta non è riuscita a restare estranea alle innumerevoli pressioni ed alle tante grida scomposte.
Perché è una mostruosità? La parità fra le parti si riferisce, in tutti i sistemi accusatori del mondo, nessuno escluso, al momento dibattimentale, vale a dire al processo in aula.
In quella sede il giudice deve essere del tutto terzo (e da noi non lo è, a vantaggio dell’accusa, che del giudice è collega) e le due parti, accusa e difesa, devono avere eguali diritti ed eguali doveri.
E questo nessuna persona civile può metterlo in discussione.
Ma se si allarga lo sguardo a quel che viene prima della fase dibattimentale, quindi al lunghissimo periodo che va dall’emergere della notizia di reato alle indagini, per poi giungere all’udienza preliminare, non solo le parti non sono affatto pari, ma la forza della procura è incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi cittadino.
La procura lavora con i soldi dello Stato, il cittadino si difende con i propri.
La procura ha consulenti presi da tutte le forze dell’ordine, il cittadino se li deve pagare.
La procura ha poteri intrusivi nel corso delle indagini, il cittadino non ne ha nessuno.
La procura può arrestare, il cittadino può essere arrestato.
La procura può lavorare in pool, ovvero dedicare molti magistrati a quell’inchiesta, il cittadino deve vendere tutto, ammesso che abbia qualche cosa, per creare un pool di avvocati.
La procura non soffre per il tempo che passa, il cittadino nel frattempo subisce il peso dell’inchiesta.
Potrei continuare per pagine, e non farei che scrivere cose del tutto ovvie.
Quindi non è affatto vero che ci sia parità fra le parti, o, meglio, quella parità arriva molto tempo dopo.
A fronte di questo, dopo avere subito l’inchiesta, le eventuali misure cautelari, spesso il pubblico screditamento, dopo avere pagato la difesa, il cittadino è infine assolto al processo, e se, a questo punto, gli si riconosce il diritto di non essere disturbato oltre ciò viola la parità fra accusa e difesa?
Ma si deve essere del tutto matti per sostenere una simile corbelleria, o, più probabilmente, non si deve sapere quel che si dice e ci si limita ad ascoltare la voce corporativa di toghe cui andare avanti per anni non costa nulla e non sposta nulla.
E, lo ripeto sapendo di ripetermi, come si fa a condannare un cittadino, a riconoscerne la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, se per lo stesso fatto un tribunale lo ha già assolto?
Tenuto anche conto che il giudice dell’appello non ascolta i testimoni, non assiste al formarsi della prova, ma lavora sulla carta, su quel che si è scritto nel primo grado.
Tutto questo senza contare che il protrarsi di quel processo, il desiderio della procura di riprovare ad ottenere una condanna già negata, non solo è una tortura per il malcapitato, ma anche un costo sociale, perché si costringerà altri giudici a dedicare tempo e denaro pubblico all’esame di quel che loro colleghi hanno già giudicato insufficiente per una condanna.
L’allungarsi del procedimento si riflette inevitabilmente sull’allungarsi dei tempi della giustizia, tema che, come abbiamo visto, ci procura già molti guai.
Anzi, si allontana la ragionevole durata del processo, cosicché i magistrati possano ancora lamentarsene ad ogni inaugurazione d’anno giudiziario.
Ma non si ragionò di questo, non si ragionò di diritto e di diritti, si impostò il problema di una maggioranza politica che voleva togliere poteri alle procure, chiamando tutti gli avversari di quella maggioranza a dar man forte ad una reazione di cui molti dovrebbero vergognarsi.
E credo anche la Corte Costituzionale.
Così, comunque, cadde la norma migliore di quella stagione politica.
Così si dimostrò che la malattia della malagiustizia non è curabile con provvedimenti parziali e circoscritti.
La politica, del resto, di qualsiasi colore sia, non riuscirà mai a far funzionare le cose, non riuscirà ad invertire la rotta del naufragio se non spezzerà l’autoreferenzialità inefficiente della magistratura.
Da una parte serve, come abbiamo visto, la separazione delle carriere, ma serve anche mettere le mani sul Consiglio Superiore della Magistratura.
Ripeto l’espressione, affinché non sembri mi sia sfuggita una non voluta esagerazione: si devono “mettere le mani” sul Csm.
E si deve farlo per non tradire la Costituzione.
Le toghe correntizzate ci tengono a gridare che chi tocca il Csm aggredisce e distrugge la Costituzione,
Invece è vero il contrario: a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la Costituzione è stata ridotta in coriandoli.
L’articolo 104 della Costituzione esprime concetti chiari, e molti di quelli che lo citano a sproposito contano sul fatto che chi li ascolta non lo abbia letto. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
Le parole hanno un senso, e qui si esclude che la magistratura sia un “potere”, ma la si vuole “ordine”. Distinzione niente affatto scolastica, perché nasce dal fatto che il “potere” risiede nelle leggi, che sono fatte dal Parlamento, frutto a sua volta dell’unico sovrano legittimo, in democrazia, il Popolo.
Ed il 104 continua: “Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica”.
In questo modo non si volle trovare l’occasione di una comparsata che consentisse una proiezione televisiva (allora c’erano solo i giornali e la radio), non si volle indicare una funzione meramente decorativa per l’inquilino del Quirinale, ma si stabilì che chi governa un ordine autonomo ed indipendente deve farlo sotto la regia di chi rappresenta l’unità della nazione e dei suoi cittadini.
Hanno fatto male, malissimo, i Presidenti della Repubblica succedutisi a prender sottogamba quel ruolo, con l’unica eccezione di Francesco Cossiga, che ad un certo punto si trasferì a Palazzo dei Marescialli per affermare il sacrosanto principio che quell’organo non aveva il diritto di pronunciarsi su provvedimenti politici, di governo e legislativi.
I componenti del Csm “sono eletti –scrisse il costituente- per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
Questo è l’unico punto in cui si dette prevalenza ai magistrati, nella composizione.
Quel che allora non si era neanche immaginato è che il meccanismo elettorale scelto avrebbe portato a creare delle correnti politicizzate, a loro volta moltiplicanti i peggiori istinti corporativi ed autoconservativi della categoria.
Questa previsione costituzionale, però, precedeva immediatamente un altro concetto fondamentale: “Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento”.
Quindi la presidenza spetta ad un non magistrato e la vice presidenza, che ha compiti fondamentali, ad uno dei nominati dal Parlamento.
Il costituente, insomma, ce la mise tutta nel cercare di evitare che il Csm divenisse quel che è divenuto.
Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente.
Il centro destra mostra di non avere la capacità d’impostare una complessiva politica per la giustizia e si lancia all’inseguimento di emergenze legate a questo o quel procedimento.
Verrà accusato di fare leggi ad personam, ovvero ritagliate sulle esigenze di questo o di quello, ma, in realtà, dalle rogatorie alla prescrizione accorciata per gli incensurati, sono tutte norme di banale civiltà, direi di ovvia bontà, destinate a portare nuove garanzie per tutti, ma agguantate sempre all’ultimo minuto e sempre senza la capacità di parlare apertamente dei diritti di tutti.
Per giunta, una volta fatti i conti, s’è semmai verificato il contrario: alcune garanzie vengono appositamente limitate affinché non siano applicabili a questo o quel caso concreto, tanto da poter effettivamente dire che alcune leggi sembrano aver dei buchi proprio per non giovare a delle persone specifiche.
Si oscilla per cinque anni fra la battaglia campale e l’accordo corporativo, da una parte si blandisce, dall’altra si gratta la magistratura associata.
Si rinuncia alla separazione delle carriere e si ripiega sulla distinzione delle funzioni, quindi si cerca in tutti i modi il dialogo, peraltro sollecitato da un Quirinale spesso fuori dai binari costituzionali.
Ma non ci si accorge che quel dialogo non è affatto testimonianza di moderazione e civiltà, bensì di cedimento agli interessi di pochi sacrificando quelli collettivi. Uno spettacolo inverecondo alla fine del quale rimane nell’opinione pubblica la sensazione che si sia agito solo per convenienze contingenti, particolari e personali, nel mentre i propri uomini, che si erano pubblicamente difesi, finiscono condannati.
Così gli uni potranno pensare che si era violentato il diritto nel tentativo di salvarli, senza riuscirci, e gli altri pensano di essere stati condannati proprio perché vittime di uno scontro in cui la maggioranza politica soccombeva.
Quei cinque anni dovrebbero essere ripassati al rallentatore e studiati, se non altro per capire che la politica per la giustizia non la devono fare i magistrati, ma non la si può affidare neanche agli avvocati. Gli uni e gli altri in quanto tali.
Dovrebbero essere rivisti per comprendere quali guai crei il non disporre di professionalità politica, il non sapere esattamente dove è bene mettere le mani. Il conflitto è talmente forte che ne fa le spese la migliore legge che il centro destra vara, ovvero la numero 46, meglio nota come legge Pecorella, approvata il 20 febbraio 2006 dopo che già aveva subito il rinvio alle Camere deciso dal Presidente della Repubblica.
Nella legge, operativa dal successivo 9 marzo, si stabilisce che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle “ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva”.
E ciò significa che, se un imputato viene assolto in primo grado, a meno di casi eccezionali e di nuove decisive prove, non può più essere processato per il medesimo reato.
È previsto inoltre l’obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta d’archiviazione quando la Corte di cassazione si sia pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che giustificano l’applicazione di una misura di custodia cautelare e, successivamente, non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.
Si tratta di due principi giustissimi.
Il primo, perché la presunzione d’innocenza, rafforzata da una sentenza d’assoluzione, non può piegarsi ad una decennale persecuzione giudiziaria, ed è evidente che siccome la condanna deve essere al di là di ogni ragionevole dubbio quel dubbio sarà più che ragionevole se la prima sentenza è di assoluzione.
Il secondo, perché se degli elementi d’accusa non sono sufficienti ad arrestare una persona è escluso che possano esserlo per condannarla in via definitiva.
Trovo imbarazzante che due solari evidenze debbano anche solo essere argomentate. Eppure successe il finimondo.
La legge aveva effettivamente un difetto relativo al ruolo della Cassazione, e su quel punto poteva sia essere scritta meglio che subire un severo giudizio istituzionale, ma il presidente Ciampi rifiutò di firmarla e la rimandò alle Camere, fra gli applausi del Consiglio Superiore della Magistratura e delle toghe associate, anche con un altro, del tutto errato, motivo: il fatto che non si potesse ricorrere contro un’assoluzione, laddove si continuava a poter ricorrere contro una condanna, sarebbe stata una violazione della parità fra le parti.
Il che è un’assoluta mostruosità culturale, purtroppo poi avallata dalla Corte Costituzionale, la cui rotta non è riuscita a restare estranea alle innumerevoli pressioni ed alle tante grida scomposte.
Perché è una mostruosità? La parità fra le parti si riferisce, in tutti i sistemi accusatori del mondo, nessuno escluso, al momento dibattimentale, vale a dire al processo in aula.
In quella sede il giudice deve essere del tutto terzo (e da noi non lo è, a vantaggio dell’accusa, che del giudice è collega) e le due parti, accusa e difesa, devono avere eguali diritti ed eguali doveri.
E questo nessuna persona civile può metterlo in discussione.
Ma se si allarga lo sguardo a quel che viene prima della fase dibattimentale, quindi al lunghissimo periodo che va dall’emergere della notizia di reato alle indagini, per poi giungere all’udienza preliminare, non solo le parti non sono affatto pari, ma la forza della procura è incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi cittadino.
La procura lavora con i soldi dello Stato, il cittadino si difende con i propri.
La procura ha consulenti presi da tutte le forze dell’ordine, il cittadino se li deve pagare.
La procura ha poteri intrusivi nel corso delle indagini, il cittadino non ne ha nessuno.
La procura può arrestare, il cittadino può essere arrestato.
La procura può lavorare in pool, ovvero dedicare molti magistrati a quell’inchiesta, il cittadino deve vendere tutto, ammesso che abbia qualche cosa, per creare un pool di avvocati.
La procura non soffre per il tempo che passa, il cittadino nel frattempo subisce il peso dell’inchiesta.
Potrei continuare per pagine, e non farei che scrivere cose del tutto ovvie.
Quindi non è affatto vero che ci sia parità fra le parti, o, meglio, quella parità arriva molto tempo dopo.
A fronte di questo, dopo avere subito l’inchiesta, le eventuali misure cautelari, spesso il pubblico screditamento, dopo avere pagato la difesa, il cittadino è infine assolto al processo, e se, a questo punto, gli si riconosce il diritto di non essere disturbato oltre ciò viola la parità fra accusa e difesa?
Ma si deve essere del tutto matti per sostenere una simile corbelleria, o, più probabilmente, non si deve sapere quel che si dice e ci si limita ad ascoltare la voce corporativa di toghe cui andare avanti per anni non costa nulla e non sposta nulla.
E, lo ripeto sapendo di ripetermi, come si fa a condannare un cittadino, a riconoscerne la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, se per lo stesso fatto un tribunale lo ha già assolto?
Tenuto anche conto che il giudice dell’appello non ascolta i testimoni, non assiste al formarsi della prova, ma lavora sulla carta, su quel che si è scritto nel primo grado.
Tutto questo senza contare che il protrarsi di quel processo, il desiderio della procura di riprovare ad ottenere una condanna già negata, non solo è una tortura per il malcapitato, ma anche un costo sociale, perché si costringerà altri giudici a dedicare tempo e denaro pubblico all’esame di quel che loro colleghi hanno già giudicato insufficiente per una condanna.
L’allungarsi del procedimento si riflette inevitabilmente sull’allungarsi dei tempi della giustizia, tema che, come abbiamo visto, ci procura già molti guai.
Anzi, si allontana la ragionevole durata del processo, cosicché i magistrati possano ancora lamentarsene ad ogni inaugurazione d’anno giudiziario.
Ma non si ragionò di questo, non si ragionò di diritto e di diritti, si impostò il problema di una maggioranza politica che voleva togliere poteri alle procure, chiamando tutti gli avversari di quella maggioranza a dar man forte ad una reazione di cui molti dovrebbero vergognarsi.
E credo anche la Corte Costituzionale.
Così, comunque, cadde la norma migliore di quella stagione politica.
Così si dimostrò che la malattia della malagiustizia non è curabile con provvedimenti parziali e circoscritti.
La politica, del resto, di qualsiasi colore sia, non riuscirà mai a far funzionare le cose, non riuscirà ad invertire la rotta del naufragio se non spezzerà l’autoreferenzialità inefficiente della magistratura.
Da una parte serve, come abbiamo visto, la separazione delle carriere, ma serve anche mettere le mani sul Consiglio Superiore della Magistratura.
Ripeto l’espressione, affinché non sembri mi sia sfuggita una non voluta esagerazione: si devono “mettere le mani” sul Csm.
E si deve farlo per non tradire la Costituzione.
Le toghe correntizzate ci tengono a gridare che chi tocca il Csm aggredisce e distrugge la Costituzione,
Invece è vero il contrario: a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la Costituzione è stata ridotta in coriandoli.
L’articolo 104 della Costituzione esprime concetti chiari, e molti di quelli che lo citano a sproposito contano sul fatto che chi li ascolta non lo abbia letto. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
Le parole hanno un senso, e qui si esclude che la magistratura sia un “potere”, ma la si vuole “ordine”. Distinzione niente affatto scolastica, perché nasce dal fatto che il “potere” risiede nelle leggi, che sono fatte dal Parlamento, frutto a sua volta dell’unico sovrano legittimo, in democrazia, il Popolo.
Ed il 104 continua: “Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica”.
In questo modo non si volle trovare l’occasione di una comparsata che consentisse una proiezione televisiva (allora c’erano solo i giornali e la radio), non si volle indicare una funzione meramente decorativa per l’inquilino del Quirinale, ma si stabilì che chi governa un ordine autonomo ed indipendente deve farlo sotto la regia di chi rappresenta l’unità della nazione e dei suoi cittadini.
Hanno fatto male, malissimo, i Presidenti della Repubblica succedutisi a prender sottogamba quel ruolo, con l’unica eccezione di Francesco Cossiga, che ad un certo punto si trasferì a Palazzo dei Marescialli per affermare il sacrosanto principio che quell’organo non aveva il diritto di pronunciarsi su provvedimenti politici, di governo e legislativi.
I componenti del Csm “sono eletti –scrisse il costituente- per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
Questo è l’unico punto in cui si dette prevalenza ai magistrati, nella composizione.
Quel che allora non si era neanche immaginato è che il meccanismo elettorale scelto avrebbe portato a creare delle correnti politicizzate, a loro volta moltiplicanti i peggiori istinti corporativi ed autoconservativi della categoria.
Questa previsione costituzionale, però, precedeva immediatamente un altro concetto fondamentale: “Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento”.
Quindi la presidenza spetta ad un non magistrato e la vice presidenza, che ha compiti fondamentali, ad uno dei nominati dal Parlamento.
Il costituente, insomma, ce la mise tutta nel cercare di evitare che il Csm divenisse quel che è divenuto.

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