Con la speranza di aiutare a diffondere un po' di verità storiche, mi riaccosto al mio negletto blog solo per pubblicare l' ultimo post della mai abbastanza lodata Barbara Di. Leggetelo e rileggetelo, senza perderne una sillaba e, se ne avete la possibilità, diffondetelo ...
Non ho prove. Lo dico subito. Tutto ciò che segue nasce solo da sensazioni, chiamatele intuito femminile, avversione a pelle o più semplicemente istinto di sopravvivenza che mi fa diffidare da anni di un personaggio alquanto ambiguo.
Uno che secondo me la storia l’ha scritta e vuole continuare a scriverla a proprio uso e consumo.
Mi piacerebbe davvero, invece, che un giorno degli storici veri, quanto più possibile imparziali, ci raccontassero quello che davvero è accaduto dietro le quinte dell’Italia in questi ultimi 30 anni.
Io non ho certo questa pretesa, ma oggi mi va di condividere la mia personale visione, frammentata, di parte, priva di riscontri e del tutto umorale.
È solo l’abbozzo di un puzzle in cui inserisco alcuni fatti noti, ma mi mancano tanti pezzettini per avere un quadro completo e non posso far altro che riempire gli spazi vuoti con sensazioni e ipotesi prive di riscontro, con la speranza che un giorno gli storici ci restituiscano i pezzi mancanti.
Lui c’era, c’è sempre stato. Sempre in seconda linea, mai in prima fila, ma non mancava mai.
Luciano Violante mi ricorda un po’ il Numero Uno del gruppo TNT, con il suo immancabile libretto nero, zeppo di nomi dalla notte dei tempi e, soprattutto, di scheletri nell’armadio da tirare fuori alla bisogna per ottenere favori, silenzi, coperture.
Mi inquieta. Mi dà i brividi.
Le biografie narrano che la sua sfolgorante carriera di magistrato comunista prenda l’avvio nel ’76 con l’arresto di Edgardo Sogno, un partigiano liberale e profondamente anticomunista, che aveva capito prima degli altri e osato opporsi alla presa di potere occulto messa in atto dal PCI durante gli anni del terrorismo.
Pazienza se poi fu assolto da ogni accusa. Intanto si inaugurava il brutto vizio di far fuori un pericoloso avversario politico, giusto poco prima delle elezioni.
Quelli erano anni tremendi. Gli anni, cominciati nel disgraziato ’68, che, in un sol colpo, hanno distrutto il boom economico del dopoguerra e ci hanno fatto inesorabilmente affogare nella palude in cui ancora ci troviamo.
Gli anni in cui, mentre i comunisti armati facevano strage di innocenti, cominciavano a farsi strada nelle procure e nei tribunali i famigerati magistrati rossi.
Quei giudici che, si dice da tempo, erano stati indirizzati e sostenuti negli studi direttamente da Botteghe Oscure, se non anche coi rubli provenienti da oltre cortina.
Sarà una diceria, ma fatto sta che fino ad allora la magistratura era assolutamente borghese, poi come funghi sono spuntati i pretori del lavoro d’assalto che, proni ai voleri dei sempre più potenti sindacati, hanno avuto un gran peso nella crisi delle aziende e dell’economia italiane, grazie anche all’avvento nel ’70 dello Statuto dei Lavoratori, scritto sotto il ricatto degli scioperi continui che avevano messo in ginocchio l’Italia.
La situazione economica diventa tragica sotto il giogo dei sindacati, sempre più braccio armato del PCI, che anziché preoccuparsi del benessere dei lavoratori, necessariamente legato alla floridezza delle imprese, non si fa scrupoli a metterle in ginocchio, e con esse l’intera economia nazionale.
Comincia forse proprio in quel periodo la innaturale vicinanza del mondo imprenditoriale ad una sinistra sempre più capitalista, che fa dire a un Gianni Agnelli la bestemmia che l’Italia aveva bisogno di un governo di sinistra per attuare politiche di destra.
Contemporaneamente sul fronte penale, emergono magistrati che, guarda caso, non muovono un dito per fermare la deriva terrorista fino a che il PCI, bontà sua, non decide di intervenire in difesa della democrazia, che proprio i suoi rampolli avevano messo in pericolo.
Non prima, però, di aver ottenuto un posto d’onore, occulto ma potentissimo, nel governo dell’Italia.
La morte di Moro nel maggio ‘78 è lo spartiacque. Scalfari, grazie a un’intervista postuma che ovviamente il diretto interessato non poteva smentire, e la solita intellighentia sinistra hanno voluto farci credere che fosse proprio lui l’inventore del compromesso storico.
Negli anni ho cominciato a dubitarne seriamente e mi chiedo se piuttosto Moro non sia stato ucciso proprio perché contrario a quel patto scellerato tra il diavolo e l’acqua santa da cui è nata la nostra vera rovina: il consociativismo.
È in quegli anni e in quei tribunali penali che prende forma il trio Lescano, composto dai giudici Violante e Caselli e dal fido poliziotto De Gennaro, inseparabili, immarcescibili e tristemente sempre presenti dietro tutte le storie italiane che più puzzano di marcio.
Mi fa pensare che non abbiano mai fatto mistero delle loro simpatie per il PCI, che non si facessero scrupoli a fare avanti e indietro dal Tribunale di Torino a Botteghe Oscure, tanto che proprio grazie a questo la loro carriera è stata inarrestabile.
E così mi stupisce che proprio Caselli sia stato incaricato di indagare sui compagni delle Brigate Rosse, quelli che non sbagliavano affatto, ma eseguivano alla lettera gli ordini di Mosca, da cui erano, a quanto pare, finanziati.
Contemporaneamente l’amico Violante era all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia a scrivere le norme sul terrorismo, per poi passare la barricata e diventare deputato PCI, e mi chiedo quanta parte abbia avuto nell’ideazione della legge sui pentiti.
Quella grazie a cui, come ci hanno fatto credere, il terrorismo sarebbe stato sconfitto, ma che, a mio parere, ha solo contribuito a salvare tanti delinquenti, soprattutto di sinistra.
Ho come la sensazione che ormai il terrorismo sarebbe finito comunque perché non serviva più. L’obiettivo era stato raggiunto.
Stanno arrivando gli anni ’80, quelli in cui sembriamo usciti dai bui e sanguinosi anni ’70 e ci illudiamo di essere tornati nel benessere. Si spende e si spande che è un piacere e non ci accorgiamo che ci stiamo solo scavando la fossa di un debito pubblico che schizza alle stelle, con la connivenza del pentapartito e della finta opposizione del PCI che, pur formalmente fuori dal governo, mette il becco in ogni uscita di spesa.
È nell’agosto ’78, pochi mesi dopo la morte di Moro, che nasce, infatti, la disgraziata e incostituzionale legge finanziaria e l’assurda disciplina di approvazione, nata appositamente per impedire al governo di governare e di decidere la spesa pubblica e le tasse senza avere l’appoggio esterno del PCI e del suo fido braccio armato, il sindacato con gli immancabili scioperi che hanno accompagnato ogni stesura.
Le conseguenze non si fanno attendere e nel giro di una decina d’anni e di finanziarie il nostro debito pubblico arriva a picchi mai visti, che ancora ci portiamo dietro.
La pace sembra tornata, apparentemente viviamo bene, ma è puro make-up. Il consociativismo sta dilapidando tutti i nostri averi e quelli delle generazioni future.
Sono gli anni delle spese folli, del fiume di denaro che dallo Stato arriva alle imprese e da queste torna ai partiti, ormai idrovore.
È il classico segreto di Pulcinella. Lo sanno tutti che i soldi se li spartiscono il pentapartito al governo e il PCI che si finge all’opposizione, ma in realtà, soprattutto grazie al tramite delle famigerate cooperative rosse, viene foraggiato per il suo appoggio esterno al governo nazionale, in particolare quando si tratta di varare le finanziarie e di tener buoni i sindacati, mentre fa il bello e il cattivo tempo nelle regioni dove governa indisturbato e dove si crea il più pauroso conflitto di interessi tra affari delle coop e politica.
È un sistema collaudato e incontenibile, grazie al quale ogni opera o servizio pubblico viene pagato molto più del dovuto, ovviamente a spese del deficit che nel giro di meno di un decennio passa dal 60% al 130% del PIL.
Questo surplus di capitale, come lo chiamerebbe il buon Marx, ritorna poi in buona parte nelle casse dei partiti, grazie ai quali gli appalti sono stati distribuiti nel più bieco clientelismo, nessuno escluso.
Il PCI in particolare, non si accontenta delle briciole lasciategli dai partiti di governo, e si fa pagare la sua finta opposizione con un quota di appalti assegnata alle coop, che poi girano parte dei proventi al partito.
Grazie alle rivelazioni del caro Mitrokhin, ovviamente messe sotto silenzio in Italia, sappiamo anche che le coop andavano oltre e fungevano da ambasciatrici a Mosca del simpatico PCI, che, per fantasmagorici appalti in terra russa, chissà poi se effettivamente eseguiti, ricevevano fior di rubli, sempre con destinazione finale Botteghe Oscure.
Apparentemente tutto fila liscio, i magistrati non indagano sul segreto di Pulcinella e l’idillio sembra destinato a durare.
Se non fosse che la Storia con la S maiuscola irrompe come un uragano e butta giù il muro di Berlino.
La botta per il PCI è impressionante, non solo si ritrova senza punti di riferimento politici, ma ha perso anche la fonte primaria di sostentamento della sua elefantiaca struttura, che certo non si reggeva con il ricavato delle salamelle alla Festa dell’Unità.
Bettino Craxi crede sia arrivato il momento buono per dare il colpo di grazia al PCI e conquistare la leadership della sinistra ormai spaesata. Crea, così, proprio nell’89, il CAF con Andreotti e Forlani, con il chiaro intento di mettere la parola fine al consociativismo degli anni ’80 ed eliminare la partecipazione occulta dei comunisti al governo.
Fa un grosso errore, però. La bestia è ferita, ma non morta.
Craxi non ha fatto i conti con il buon Violante, a capo del reparto giustizia del partito, e con le toghe rosse, cellule dormienti per un decennio, ma pronte ad attaccare con effetti devastanti.
Al PCI, nel frattempo camuffatosi in democratico di sinistra, bastano 3 anni per tornare più combattivo di prima.
Il ’92 è l’anno della rivoluzione. Devastante, incredibile.
Io non credo nelle coincidenze e non riesco a togliermi dalla testa che non possa essere un caso che accada tutto quell’anno. Ovviamente non ho prove, ma solo la netta sensazione che facesse tutto parte di un disegno diabolico per conquistare il potere, studiato a tavolino da una mente sopraffina. Di menti così nel PCI, all’epoca guidato da Ochetto, non è che ce ne fossero a bizzeffe. Aggiungeteci che era indispensabile un collegamento diretto con la magistratura e capite perché quell’uomo mi inquieta.
Il 6 aprile 1992, esattamente il giorno dopo le elezioni, che vedono il PDS prendere una batosta storica di 10 punti e scendere al 16%, parte in pompa magna l’inchiesta Mani Pulite.
Emerge all’improvviso il magistrato più rozzo e ignorante che si sia mai visto in un’aula di giustizia, tanto che ancora mi chiedo come abbia fatto non solo a passare il difficilissimo esame, ma addirittura a laurearsi, visto che sono indubbie le sue gravi lacune in italiano.
Per carità, sarà un genio del diritto e si sarà fatto capire comunque, ma mi risulta che al concorso di magistratura ti boccino per molto meno di un errore di ortografia. Buon per lui.
Fatto sta che, spintarella o meno all’esame, poco conta, ho sempre diffidato di quell’uomo.
All’epoca frequentavo giurisprudenza, proprio a Milano, e mentre tutti lo consideravano un idolo, io ho sempre sentito, di nuovo è solo questione di pelle, che c’era qualcosa o qualcuno dietro di lui che non mi sconfinferava.
Mi dava l’impressione che lui fosse solo una pedina, una testa d’ariete utilizzata da sfondamento, mentre i veri generali stavano nelle retrovie a controllare la battaglia.
Mi stupiva soprattutto il clamore che suscitava un’inchiesta che non faceva altro che portare sui giornali e nei tribunali il famoso segreto di Pulcinella.
Perché solo ora? Perché nessuno aveva mai indagato prima? Dov’erano stati tutti i magistrati del Pool fino ad allora? Davvero era stato uno come Di Pietro a scoprire l’acqua calda? Se era così facile scoperchiare il sistema, perché non lo avevano fatto prima?
Troppo domande senza risposta, o meglio che ce l’avrebbero, ma guai a darla.
E poi quel metodo barbaro e incivile di condurre le indagini, tutti sbattuti in galera per estorcere delle confessioni.
Quei terribili suicidi, quegli strani e sospetti suicidi, in primis quello di Gardini che dopo essersi sparato in testa da dietro, posa la pistola sul comò decisamente lontano dal letto, ma lo ritrovano sdraiato lì e senza segni di polvere da sparo vicino. Guarda caso proprio il giorno prima di presentarsi in procura dove avrebbe potuto raccontare anche troppo sulla famigerata maxi tangente Enimont, spartita tra tutti i partiti, PCI certo non escluso, anche se i giudici non si sono attardati troppo ad indagare in quella direzione.
Il problema di Mani Pulite, infatti, è stato proprio quello: nessuno discute che sia stata lodevole nel perseguire un sistema di corruzione che stava distruggendo l’Italia, ma lo scopo evidentemente politico con cui è passata come una schiacciasassi sui partiti della Prima Repubblica, lasciando fuori colpevolmente, anzi dolosamente, il PCI la macchia di una incancellabile infamia.
Gli italiani erano tornati in quegli anni a fidarsi dei giudici, credevano davvero che fossero mossi solo da sete di giustizia, erano tutti con loro, li osannavano come eroi, per primo la superstar Di Pietro, pensavano veramente che fosse arrivata l’ora del cambiamento e che tutti, ma proprio tutti, i politici colpevoli delle peggiori malefatte avrebbero pagato.
Peccato che la giustizia o è imparziale o non è.
Questo i giudici e i burattinai che avevano predisposto tutto a tavolino per l’ascesa al potere del PCI-PDS proprio non lo avevano voluto capire, o forse pensavano che fossimo più ingenui di quanto ci siamo poi dimostrati.
Ma torniamo ancora al ’92, l’anno dei magistrati per antonomasia, nel bene e nel male.
Dopo le dimissioni di Cossiga, toccato dal caso Gladio, la solita insulsa inchiesta che poi si rivela un buco nell’acqua, i parlamentari, completamente rintronati dalla devastazione di Tangentopoli, fanno l’errore clamoroso di eleggere il peggiore presidente che la Repubblica italiana abbia mai avuto, l’ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro (anche se ex non lo si diventa davvero mai).
Un’elezione per certi versi inaspettata, che arrivò proprio a pochi giorni dal tragico attentato che costò la vita ad uno dei più grandi magistrati che l’Italia abbia mai avuto, Giovanni Falcone.
Un magistrato vero, però, purtroppo per lui, non rosso e soprattutto contrario all’uso politico della giustizia, e che per questo, malgrado sia stato il primo ed il principale nemico della mafia, è stato prima linciato dal PCI e dai professionisti dell’antimafia e poi abbandonato al suo tragico destino.
La sua colpa? Non aver permesso al nostro Numero Uno di attaccare giudizialmente Andreotti tramite Salvo Lima, accusando di calunnia il solito pentito imbeccato alla bisogna.
Sarà un caso, sarà una combinazione, ma nello stesso periodo in cui il Pool di Milano distruggeva il pentapartito per le tangenti, Violante si inventava il famoso “terzo livello” e premeva sui magistrati siciliani affinché mettessero sotto inchiesta i politici DC per connivenza con la mafia.
Falcone si oppose a questo meschino massacro basato sulla cultura del sospetto, perché, come egli stesso ammise, “Questo è cinismo politico. Mi fa paura...”.
Per lui è l’inizio della fine, la Rete di Leoluca Orlando, affiancata dal PCI, o più porobabilmente spronata come testa d’ariete (guarda la combinazione: un’altro ariete oggi finito nell’Italia dei Valori) lo attacca in maniera pesante, viene isolato, accusato di nascondere le prove a carico dei politici.
Ed ecco che spunta anche il fido Caselli, tra i primi firmatari di un appello contro la Procura generale Antimafia, inventata proprio da Falcone e a cui gli sarà negata, per motivi tutti politici, l’elezione.
Ma non solo, a completamento del trio lescano, c’è il fido De Gennaro che, come ricorda magistralmente Jannuzzi in un articolo da brividi, tramite il suo pentito Buscetta, opportunamente imbeccato, comincia l’eliminazione di Bruno Contrada, uno dei migliori poliziotti d’Italia, che ha avuto il grosso torto di trovarsi sulla strada della carriera del superpoliziotto.
Dell’articolo, che vi invito a leggere qui, vi cito solo alcune frasi che fanno accapponare la pelle:
«Gianni De Gennaro ha fatto fuori Contrada quando questi era già passato al Sisde e aveva preparato per incarico del governo il progetto di trasformare il servizio segreto civile in una direzione antimafia. De Gennaro, allora dirigente della squadra mobile, aveva un altro progetto, caro a Luciano Violante e ai giustizialisti del Pci e ai magistrati professionisti dell’ antimafia, quello di organizzare la Dia, una direzione antimafia svincolata dai servizi e dalla stessa direzione generale della polizia e dal governo: quella che presto il presidente Cossiga avrebbe definito, chiedendone la soppressione, “la nostra ‘polizia politica’, la nostra Ovra, la nostra Gestapo, il nostro Kgb”, lo strumento più efficace per liquidare gli avversari con l’uso e l’abuso dei “pentiti” e dei processi politici. Liquidato Contrada e il suo progetto, De Gennaro creò la Dia e ne assunse il controllo, e inventò la “fabbrica dei pentiti”, divenne il “Signore dei “pentiti”...
Giovanni Brusca, il braccio destro di Totò Riina, catturato e “pentito”, racconta che ha viaggiato in aereo da Palermo a Roma con Luciano Violante e hanno concordato insieme la trappola per Andreotti (la prima cosa è provata, la seconda no).»
C’è in corso una guerra tra poteri senza esclusione di colpi e la posta in palio è il controllo della lotta alla mafia, o meglio dovrei dire il controllo delle indagini sulla mafia, che, purtroppo, è cosa ben diversa.
Da una parte ci sono magistrati come Falcone e Borsellino che vogliono organizzare per lo Stato e nello Stato, ma non con lo Stato, delle procure apposite che possano coordinare la lotta alla mafia, godendo della massima autonomia sia da parte della politica, sia soprattutto dallo strapotere della magistratura e dalle sue beghe e correnti interne.
Dall’altra parte ci sono magistrati come Caselli ed ex magistrati come Violante, che vogliono mantenere il controllo politico e del CSM sull’opera di questi giudici troppo indipendenti.
Allo stesso tempo, nella polizia è in atto una lotta intestina tra chi, come Contrada, vuole far convergere le indagini sotto il controllo dei servizi segreti interni, e chi, come De Gennaro, vuole il monopolio delle indagini di mafia sotto la neonata DIA, dove lui fa il bello e il cattivo tempo.
Purtroppo la guerra la vince Caino, ma procediamo con ordine nel ’92, perché è davvero un anno unico per la distruzione sistematica di tutti coloro che si sarebbero potuti opporre a quello che sembra proprio un disegno diabolico.
Se ne parla poco, ma a quanto pare Falcone, quando viene ucciso, stava indagando su uno degli scandali meglio nascosti dai nostri parzialissimi media: la connivenza pericolosa tra mafia nostrana, mafia russa, Cremlino e le cooperative rosse, che sguazzavano negli appalti siciliani quasi quanto in quelli emiliani.
Sarebbe dovuto partire a breve per Mosca per confrontarsi con un collega russo che stava seguendo lo stesso filone di indagini. Il tritolo di Capaci glielo ha impedito.
Il collega Borsellino che aveva ereditato le carte farà, purtroppo, la stessa tragica fine di lì a qualche mese e di quell’indagine non si saprà più nulla.
Pomicino narra che la notte di Capaci i servizi segreti italiani avrebbero filmato dei camion carichi di armi e di carte partire in tutta fretta da Botteghe Oscure, ma i riscontri nessuno li ha mai cercati.
Tutti casi, coincidenze? Solo i protagonisti possono saperlo.
Io vedo solo che, subito dopo la morte di Borsellino, Caselli viene messo a capo della procura di Palermo e possono finalmente partire i processi, non solo a mio parere tutti politici, contro Contrada, arrestato a dicembre, e contro Andreotti ed altri esponenti DC, grazie a quella fabbrica di pentiti che è ormai diventata la DIA sotto il controllo di De Gennaro, che sforna, gestisce e paga i pentiti ad uso e consumo della procura di Palermo, guidata da Caselli e, soprattutto, della Commissione Parlamentare Antimafia, di cui nel settembre ’92, ma tu guarda di nuovo la combinazione, è diventato presidente il caro Violante.
Pentiti che, come Buscetta, negli interrogatori fatti davanti a Violante e Caselli cambiano amabilmente versione come se nulla fosse e, con dichiarazioni contraddittorie del tutto prive di riscontro, inguaiano a dovere buona parte della DC locale e nazionale.
E così, ricapitolando questo strano gioco di casi fortuiti e combinazioni, assistiamo nel ’92 alla distruzione sistematica di tutti i partiti della Prima Repubblica, tranne uno a caso chiamato PCI, in una guerra portata avanti da nord dal Tribunale di Milano e da sud dal Tribunale di Palermo, dove i due più validi magistrati sono passati direttamente dall’ostracismo e dall’isolamento all’Olimpo dei martiri.
Ma, forse pochi ricordano che sempre nel ’92, nel pieno del caos, prendono il via le disgraziate privatizzazioni che, grazie all’opera del fino ad allora semisconosciuto our man Romano Prodi, portano alla svendita da parte dell’IRI delle più grosse aziende italiane.
D’altronde, quale momento migliore per trasferire per un piatto di ceci ad amici stranieri e italiani, che perennemente ringraziano, una serie di monopoli che da pubblici diventano privati, senza passare per le necessarie liberalizzazioni?
I politici hanno certo altro a cui pensare in quel momento e non hanno la forza di opporsi, l’opinione pubblica non capisce e saluta con giubilo tutto ciò che sottrae l’economia al controllo corrotto della politica.
Peccato che la nostra economia paghi ancora oggi le conseguenze di quel fallimento annunciato.
E non solo, la ciliegina sulla torta arriva a dicembre del ’92, quando in un parlamento devastato prende il via la riforma della legge elettorale che porterà ad un sistema maggioritario e segnerà la vera fine della Prima Repubblica.
Ormai la strada sembra spianata, il pentapartito non esiste più, con la nuova legge elettorale è sufficiente una maggioranza minima per fare cappotto, di partito ne è rimasto solo uno che, autodefinendosi “gioiosa macchina da guerra”, è pronto a e prendere il governo del Paese.
E così, malgrado il comunismo sia stato distrutto in tutto il resto del mondo, a soli 5 anni dal crollo del muro, il PCI, camuffatosi da PDS, è pronto a coronare un sogno durato 50 anni.
Peccato che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi e così, spuntato dal nulla e del tutto inaspettato, come il Mulo di Asimov, irrompe in campo Berlusconi e manda all’aria tutti i calcoli psicostorici dei comunisti nostrani (se non avete letto il ciclo della Fondazione, questa ve la spiego un’altra volta).
Apriti cielo!
Questa è una botta da cui non si sono ancora ripresi e che non gli perdoneranno mai.
Facile comprendere l’odio viscerale che contraddistingue tutt’oggi la sinistra italiana.
Il resto è storia recente che conoscete benissimo: gli avvisi di garanzia a mezzo Corriere, il ribaltone di Scalfaro, i processi infiniti portati avanti dai soliti giudici che non riescono ad accettare di aver perso la fiducia dei cittadini e continuano imperterriti a voler imporre i loro politici di riferimento distruggendo il nemico pubblico n. 1, i soliti metodi giustizialisti, gli stessi pentiti mafiosi privi di riscontri, la denigrazione continua dei media, le accuse di fascismo, populismo, razzismo, nepotismo e benaltrismo.
In altre parole il berlusconismo e l’antiberlusconismo come unico filo conduttore della politica degli ultimi 15 anni.
E oggi? Gli italiani sono andati avanti, hanno aperto gli occhi, si sono stufati di questi attacchi continui, hanno perso completamente la fiducia nei giudici e vogliono cambiare pagina.
Ma i giapponesi non mollano e insistono, insistono, insistono.
E chi poteva essere il faro dei giustizialisti, se non l’idolo di allora, il pm d’assalto Di Pietro, che sembra ogni giorno di più la caricatura di se stesso.
No, lui non mi preoccupa, è una macchietta che non si rende conto di essere il principale fautore delle vittorie di Berlusconi.
Di Uolter che cerca di imitarlo non vale neppure la pena di parlare.
C’è qualcun altro di cui avere davvero paura, qualcuno molto più intelligente e astuto degli altri, uno che non si mette mai in mostra, che resta nell’ombra ed ha ancora una cartuccia mortale da sparare.
Uno che ormai da tempo ha capito che l’attacco frontale non paga, che si finge riformista, conciliante, che non perde occasione per lanciare dichiarazioni di disgelo alla destra e sembra essersi dissociato dal giustizialismo che lui stesso ha inventato, che sembra accogliere con favore le proposte di riforma della giustizia, che non esita a rinnegare i suoi (apparentemente) ex amici di procura, che cerca in tutti i modi di mostrarsi saggio, imparziale, istituzionale, uomo di Stato al di sopra di ogni sospetto.
Ecco, lo dicevo all’inizio, saranno sensazioni, sarà una questione di pelle, sarà il puzzle che ho cercato di ricostruirvi, ma mi si rizza il cuoio capelluto a pensare che a breve Luciano Violante potrebbe diventare giudice della Corte Costituzionale.
Al solo pensiero dei danni che potrebbe fare alla Consulta, distruggendo sistematicamente, senza alcun mandato elettorale, tutte le leggi approvate dal Parlamento votato dal Popolo sovrano, mi vien male.
Non posso credere che, oggi come oggi, la maggioranza sia così ingenua da cascare nella trappola ed eleggere lui quale membro di nomina parlamentare. Davvero sarebbe un suicidio.
Il problema, però, sarebbe solo rinviato perché fra pochi mesi sarà Napolitano a dover nominare un altro giudice della Corte Costituzionale e con il Colle rosso c’è poco da star tranquilli.
Che fare? Mobilitazione di massa, petizioni on-line, raccolta di firme, una valanga di e-mail al Quirinale? Si accettano suggerimenti e adesioni.
Lo so che col disastro mondiale dell’economia, sembra l’ultimo dei nostri problemi, ma è proprio nei periodi di caos che passano sotto silenzio le peggiori nefandezze.
Che sia il caso di far partire fin da subito la campagna “Non mi fido di Violante”?
Chi ci sta?
Uno che secondo me la storia l’ha scritta e vuole continuare a scriverla a proprio uso e consumo.
Mi piacerebbe davvero, invece, che un giorno degli storici veri, quanto più possibile imparziali, ci raccontassero quello che davvero è accaduto dietro le quinte dell’Italia in questi ultimi 30 anni.
Io non ho certo questa pretesa, ma oggi mi va di condividere la mia personale visione, frammentata, di parte, priva di riscontri e del tutto umorale.
È solo l’abbozzo di un puzzle in cui inserisco alcuni fatti noti, ma mi mancano tanti pezzettini per avere un quadro completo e non posso far altro che riempire gli spazi vuoti con sensazioni e ipotesi prive di riscontro, con la speranza che un giorno gli storici ci restituiscano i pezzi mancanti.
Lui c’era, c’è sempre stato. Sempre in seconda linea, mai in prima fila, ma non mancava mai.
Luciano Violante mi ricorda un po’ il Numero Uno del gruppo TNT, con il suo immancabile libretto nero, zeppo di nomi dalla notte dei tempi e, soprattutto, di scheletri nell’armadio da tirare fuori alla bisogna per ottenere favori, silenzi, coperture.
Mi inquieta. Mi dà i brividi.
Le biografie narrano che la sua sfolgorante carriera di magistrato comunista prenda l’avvio nel ’76 con l’arresto di Edgardo Sogno, un partigiano liberale e profondamente anticomunista, che aveva capito prima degli altri e osato opporsi alla presa di potere occulto messa in atto dal PCI durante gli anni del terrorismo.
Pazienza se poi fu assolto da ogni accusa. Intanto si inaugurava il brutto vizio di far fuori un pericoloso avversario politico, giusto poco prima delle elezioni.
Quelli erano anni tremendi. Gli anni, cominciati nel disgraziato ’68, che, in un sol colpo, hanno distrutto il boom economico del dopoguerra e ci hanno fatto inesorabilmente affogare nella palude in cui ancora ci troviamo.
Gli anni in cui, mentre i comunisti armati facevano strage di innocenti, cominciavano a farsi strada nelle procure e nei tribunali i famigerati magistrati rossi.
Quei giudici che, si dice da tempo, erano stati indirizzati e sostenuti negli studi direttamente da Botteghe Oscure, se non anche coi rubli provenienti da oltre cortina.
Sarà una diceria, ma fatto sta che fino ad allora la magistratura era assolutamente borghese, poi come funghi sono spuntati i pretori del lavoro d’assalto che, proni ai voleri dei sempre più potenti sindacati, hanno avuto un gran peso nella crisi delle aziende e dell’economia italiane, grazie anche all’avvento nel ’70 dello Statuto dei Lavoratori, scritto sotto il ricatto degli scioperi continui che avevano messo in ginocchio l’Italia.
La situazione economica diventa tragica sotto il giogo dei sindacati, sempre più braccio armato del PCI, che anziché preoccuparsi del benessere dei lavoratori, necessariamente legato alla floridezza delle imprese, non si fa scrupoli a metterle in ginocchio, e con esse l’intera economia nazionale.
Comincia forse proprio in quel periodo la innaturale vicinanza del mondo imprenditoriale ad una sinistra sempre più capitalista, che fa dire a un Gianni Agnelli la bestemmia che l’Italia aveva bisogno di un governo di sinistra per attuare politiche di destra.
Contemporaneamente sul fronte penale, emergono magistrati che, guarda caso, non muovono un dito per fermare la deriva terrorista fino a che il PCI, bontà sua, non decide di intervenire in difesa della democrazia, che proprio i suoi rampolli avevano messo in pericolo.
Non prima, però, di aver ottenuto un posto d’onore, occulto ma potentissimo, nel governo dell’Italia.
La morte di Moro nel maggio ‘78 è lo spartiacque. Scalfari, grazie a un’intervista postuma che ovviamente il diretto interessato non poteva smentire, e la solita intellighentia sinistra hanno voluto farci credere che fosse proprio lui l’inventore del compromesso storico.
Negli anni ho cominciato a dubitarne seriamente e mi chiedo se piuttosto Moro non sia stato ucciso proprio perché contrario a quel patto scellerato tra il diavolo e l’acqua santa da cui è nata la nostra vera rovina: il consociativismo.
È in quegli anni e in quei tribunali penali che prende forma il trio Lescano, composto dai giudici Violante e Caselli e dal fido poliziotto De Gennaro, inseparabili, immarcescibili e tristemente sempre presenti dietro tutte le storie italiane che più puzzano di marcio.
Mi fa pensare che non abbiano mai fatto mistero delle loro simpatie per il PCI, che non si facessero scrupoli a fare avanti e indietro dal Tribunale di Torino a Botteghe Oscure, tanto che proprio grazie a questo la loro carriera è stata inarrestabile.
E così mi stupisce che proprio Caselli sia stato incaricato di indagare sui compagni delle Brigate Rosse, quelli che non sbagliavano affatto, ma eseguivano alla lettera gli ordini di Mosca, da cui erano, a quanto pare, finanziati.
Contemporaneamente l’amico Violante era all’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia a scrivere le norme sul terrorismo, per poi passare la barricata e diventare deputato PCI, e mi chiedo quanta parte abbia avuto nell’ideazione della legge sui pentiti.
Quella grazie a cui, come ci hanno fatto credere, il terrorismo sarebbe stato sconfitto, ma che, a mio parere, ha solo contribuito a salvare tanti delinquenti, soprattutto di sinistra.
Ho come la sensazione che ormai il terrorismo sarebbe finito comunque perché non serviva più. L’obiettivo era stato raggiunto.
Stanno arrivando gli anni ’80, quelli in cui sembriamo usciti dai bui e sanguinosi anni ’70 e ci illudiamo di essere tornati nel benessere. Si spende e si spande che è un piacere e non ci accorgiamo che ci stiamo solo scavando la fossa di un debito pubblico che schizza alle stelle, con la connivenza del pentapartito e della finta opposizione del PCI che, pur formalmente fuori dal governo, mette il becco in ogni uscita di spesa.
È nell’agosto ’78, pochi mesi dopo la morte di Moro, che nasce, infatti, la disgraziata e incostituzionale legge finanziaria e l’assurda disciplina di approvazione, nata appositamente per impedire al governo di governare e di decidere la spesa pubblica e le tasse senza avere l’appoggio esterno del PCI e del suo fido braccio armato, il sindacato con gli immancabili scioperi che hanno accompagnato ogni stesura.
Le conseguenze non si fanno attendere e nel giro di una decina d’anni e di finanziarie il nostro debito pubblico arriva a picchi mai visti, che ancora ci portiamo dietro.
La pace sembra tornata, apparentemente viviamo bene, ma è puro make-up. Il consociativismo sta dilapidando tutti i nostri averi e quelli delle generazioni future.
Sono gli anni delle spese folli, del fiume di denaro che dallo Stato arriva alle imprese e da queste torna ai partiti, ormai idrovore.
È il classico segreto di Pulcinella. Lo sanno tutti che i soldi se li spartiscono il pentapartito al governo e il PCI che si finge all’opposizione, ma in realtà, soprattutto grazie al tramite delle famigerate cooperative rosse, viene foraggiato per il suo appoggio esterno al governo nazionale, in particolare quando si tratta di varare le finanziarie e di tener buoni i sindacati, mentre fa il bello e il cattivo tempo nelle regioni dove governa indisturbato e dove si crea il più pauroso conflitto di interessi tra affari delle coop e politica.
È un sistema collaudato e incontenibile, grazie al quale ogni opera o servizio pubblico viene pagato molto più del dovuto, ovviamente a spese del deficit che nel giro di meno di un decennio passa dal 60% al 130% del PIL.
Questo surplus di capitale, come lo chiamerebbe il buon Marx, ritorna poi in buona parte nelle casse dei partiti, grazie ai quali gli appalti sono stati distribuiti nel più bieco clientelismo, nessuno escluso.
Il PCI in particolare, non si accontenta delle briciole lasciategli dai partiti di governo, e si fa pagare la sua finta opposizione con un quota di appalti assegnata alle coop, che poi girano parte dei proventi al partito.
Grazie alle rivelazioni del caro Mitrokhin, ovviamente messe sotto silenzio in Italia, sappiamo anche che le coop andavano oltre e fungevano da ambasciatrici a Mosca del simpatico PCI, che, per fantasmagorici appalti in terra russa, chissà poi se effettivamente eseguiti, ricevevano fior di rubli, sempre con destinazione finale Botteghe Oscure.
Apparentemente tutto fila liscio, i magistrati non indagano sul segreto di Pulcinella e l’idillio sembra destinato a durare.
Se non fosse che la Storia con la S maiuscola irrompe come un uragano e butta giù il muro di Berlino.
La botta per il PCI è impressionante, non solo si ritrova senza punti di riferimento politici, ma ha perso anche la fonte primaria di sostentamento della sua elefantiaca struttura, che certo non si reggeva con il ricavato delle salamelle alla Festa dell’Unità.
Bettino Craxi crede sia arrivato il momento buono per dare il colpo di grazia al PCI e conquistare la leadership della sinistra ormai spaesata. Crea, così, proprio nell’89, il CAF con Andreotti e Forlani, con il chiaro intento di mettere la parola fine al consociativismo degli anni ’80 ed eliminare la partecipazione occulta dei comunisti al governo.
Fa un grosso errore, però. La bestia è ferita, ma non morta.
Craxi non ha fatto i conti con il buon Violante, a capo del reparto giustizia del partito, e con le toghe rosse, cellule dormienti per un decennio, ma pronte ad attaccare con effetti devastanti.
Al PCI, nel frattempo camuffatosi in democratico di sinistra, bastano 3 anni per tornare più combattivo di prima.
Il ’92 è l’anno della rivoluzione. Devastante, incredibile.
Io non credo nelle coincidenze e non riesco a togliermi dalla testa che non possa essere un caso che accada tutto quell’anno. Ovviamente non ho prove, ma solo la netta sensazione che facesse tutto parte di un disegno diabolico per conquistare il potere, studiato a tavolino da una mente sopraffina. Di menti così nel PCI, all’epoca guidato da Ochetto, non è che ce ne fossero a bizzeffe. Aggiungeteci che era indispensabile un collegamento diretto con la magistratura e capite perché quell’uomo mi inquieta.
Il 6 aprile 1992, esattamente il giorno dopo le elezioni, che vedono il PDS prendere una batosta storica di 10 punti e scendere al 16%, parte in pompa magna l’inchiesta Mani Pulite.
Emerge all’improvviso il magistrato più rozzo e ignorante che si sia mai visto in un’aula di giustizia, tanto che ancora mi chiedo come abbia fatto non solo a passare il difficilissimo esame, ma addirittura a laurearsi, visto che sono indubbie le sue gravi lacune in italiano.
Per carità, sarà un genio del diritto e si sarà fatto capire comunque, ma mi risulta che al concorso di magistratura ti boccino per molto meno di un errore di ortografia. Buon per lui.
Fatto sta che, spintarella o meno all’esame, poco conta, ho sempre diffidato di quell’uomo.
All’epoca frequentavo giurisprudenza, proprio a Milano, e mentre tutti lo consideravano un idolo, io ho sempre sentito, di nuovo è solo questione di pelle, che c’era qualcosa o qualcuno dietro di lui che non mi sconfinferava.
Mi dava l’impressione che lui fosse solo una pedina, una testa d’ariete utilizzata da sfondamento, mentre i veri generali stavano nelle retrovie a controllare la battaglia.
Mi stupiva soprattutto il clamore che suscitava un’inchiesta che non faceva altro che portare sui giornali e nei tribunali il famoso segreto di Pulcinella.
Perché solo ora? Perché nessuno aveva mai indagato prima? Dov’erano stati tutti i magistrati del Pool fino ad allora? Davvero era stato uno come Di Pietro a scoprire l’acqua calda? Se era così facile scoperchiare il sistema, perché non lo avevano fatto prima?
Troppo domande senza risposta, o meglio che ce l’avrebbero, ma guai a darla.
E poi quel metodo barbaro e incivile di condurre le indagini, tutti sbattuti in galera per estorcere delle confessioni.
Quei terribili suicidi, quegli strani e sospetti suicidi, in primis quello di Gardini che dopo essersi sparato in testa da dietro, posa la pistola sul comò decisamente lontano dal letto, ma lo ritrovano sdraiato lì e senza segni di polvere da sparo vicino. Guarda caso proprio il giorno prima di presentarsi in procura dove avrebbe potuto raccontare anche troppo sulla famigerata maxi tangente Enimont, spartita tra tutti i partiti, PCI certo non escluso, anche se i giudici non si sono attardati troppo ad indagare in quella direzione.
Il problema di Mani Pulite, infatti, è stato proprio quello: nessuno discute che sia stata lodevole nel perseguire un sistema di corruzione che stava distruggendo l’Italia, ma lo scopo evidentemente politico con cui è passata come una schiacciasassi sui partiti della Prima Repubblica, lasciando fuori colpevolmente, anzi dolosamente, il PCI la macchia di una incancellabile infamia.
Gli italiani erano tornati in quegli anni a fidarsi dei giudici, credevano davvero che fossero mossi solo da sete di giustizia, erano tutti con loro, li osannavano come eroi, per primo la superstar Di Pietro, pensavano veramente che fosse arrivata l’ora del cambiamento e che tutti, ma proprio tutti, i politici colpevoli delle peggiori malefatte avrebbero pagato.
Peccato che la giustizia o è imparziale o non è.
Questo i giudici e i burattinai che avevano predisposto tutto a tavolino per l’ascesa al potere del PCI-PDS proprio non lo avevano voluto capire, o forse pensavano che fossimo più ingenui di quanto ci siamo poi dimostrati.
Ma torniamo ancora al ’92, l’anno dei magistrati per antonomasia, nel bene e nel male.
Dopo le dimissioni di Cossiga, toccato dal caso Gladio, la solita insulsa inchiesta che poi si rivela un buco nell’acqua, i parlamentari, completamente rintronati dalla devastazione di Tangentopoli, fanno l’errore clamoroso di eleggere il peggiore presidente che la Repubblica italiana abbia mai avuto, l’ex magistrato Oscar Luigi Scalfaro (anche se ex non lo si diventa davvero mai).
Un’elezione per certi versi inaspettata, che arrivò proprio a pochi giorni dal tragico attentato che costò la vita ad uno dei più grandi magistrati che l’Italia abbia mai avuto, Giovanni Falcone.
Un magistrato vero, però, purtroppo per lui, non rosso e soprattutto contrario all’uso politico della giustizia, e che per questo, malgrado sia stato il primo ed il principale nemico della mafia, è stato prima linciato dal PCI e dai professionisti dell’antimafia e poi abbandonato al suo tragico destino.
La sua colpa? Non aver permesso al nostro Numero Uno di attaccare giudizialmente Andreotti tramite Salvo Lima, accusando di calunnia il solito pentito imbeccato alla bisogna.
Sarà un caso, sarà una combinazione, ma nello stesso periodo in cui il Pool di Milano distruggeva il pentapartito per le tangenti, Violante si inventava il famoso “terzo livello” e premeva sui magistrati siciliani affinché mettessero sotto inchiesta i politici DC per connivenza con la mafia.
Falcone si oppose a questo meschino massacro basato sulla cultura del sospetto, perché, come egli stesso ammise, “Questo è cinismo politico. Mi fa paura...”.
Per lui è l’inizio della fine, la Rete di Leoluca Orlando, affiancata dal PCI, o più porobabilmente spronata come testa d’ariete (guarda la combinazione: un’altro ariete oggi finito nell’Italia dei Valori) lo attacca in maniera pesante, viene isolato, accusato di nascondere le prove a carico dei politici.
Ed ecco che spunta anche il fido Caselli, tra i primi firmatari di un appello contro la Procura generale Antimafia, inventata proprio da Falcone e a cui gli sarà negata, per motivi tutti politici, l’elezione.
Ma non solo, a completamento del trio lescano, c’è il fido De Gennaro che, come ricorda magistralmente Jannuzzi in un articolo da brividi, tramite il suo pentito Buscetta, opportunamente imbeccato, comincia l’eliminazione di Bruno Contrada, uno dei migliori poliziotti d’Italia, che ha avuto il grosso torto di trovarsi sulla strada della carriera del superpoliziotto.
Dell’articolo, che vi invito a leggere qui, vi cito solo alcune frasi che fanno accapponare la pelle:
«Gianni De Gennaro ha fatto fuori Contrada quando questi era già passato al Sisde e aveva preparato per incarico del governo il progetto di trasformare il servizio segreto civile in una direzione antimafia. De Gennaro, allora dirigente della squadra mobile, aveva un altro progetto, caro a Luciano Violante e ai giustizialisti del Pci e ai magistrati professionisti dell’ antimafia, quello di organizzare la Dia, una direzione antimafia svincolata dai servizi e dalla stessa direzione generale della polizia e dal governo: quella che presto il presidente Cossiga avrebbe definito, chiedendone la soppressione, “la nostra ‘polizia politica’, la nostra Ovra, la nostra Gestapo, il nostro Kgb”, lo strumento più efficace per liquidare gli avversari con l’uso e l’abuso dei “pentiti” e dei processi politici. Liquidato Contrada e il suo progetto, De Gennaro creò la Dia e ne assunse il controllo, e inventò la “fabbrica dei pentiti”, divenne il “Signore dei “pentiti”...
Giovanni Brusca, il braccio destro di Totò Riina, catturato e “pentito”, racconta che ha viaggiato in aereo da Palermo a Roma con Luciano Violante e hanno concordato insieme la trappola per Andreotti (la prima cosa è provata, la seconda no).»
C’è in corso una guerra tra poteri senza esclusione di colpi e la posta in palio è il controllo della lotta alla mafia, o meglio dovrei dire il controllo delle indagini sulla mafia, che, purtroppo, è cosa ben diversa.
Da una parte ci sono magistrati come Falcone e Borsellino che vogliono organizzare per lo Stato e nello Stato, ma non con lo Stato, delle procure apposite che possano coordinare la lotta alla mafia, godendo della massima autonomia sia da parte della politica, sia soprattutto dallo strapotere della magistratura e dalle sue beghe e correnti interne.
Dall’altra parte ci sono magistrati come Caselli ed ex magistrati come Violante, che vogliono mantenere il controllo politico e del CSM sull’opera di questi giudici troppo indipendenti.
Allo stesso tempo, nella polizia è in atto una lotta intestina tra chi, come Contrada, vuole far convergere le indagini sotto il controllo dei servizi segreti interni, e chi, come De Gennaro, vuole il monopolio delle indagini di mafia sotto la neonata DIA, dove lui fa il bello e il cattivo tempo.
Purtroppo la guerra la vince Caino, ma procediamo con ordine nel ’92, perché è davvero un anno unico per la distruzione sistematica di tutti coloro che si sarebbero potuti opporre a quello che sembra proprio un disegno diabolico.
Se ne parla poco, ma a quanto pare Falcone, quando viene ucciso, stava indagando su uno degli scandali meglio nascosti dai nostri parzialissimi media: la connivenza pericolosa tra mafia nostrana, mafia russa, Cremlino e le cooperative rosse, che sguazzavano negli appalti siciliani quasi quanto in quelli emiliani.
Sarebbe dovuto partire a breve per Mosca per confrontarsi con un collega russo che stava seguendo lo stesso filone di indagini. Il tritolo di Capaci glielo ha impedito.
Il collega Borsellino che aveva ereditato le carte farà, purtroppo, la stessa tragica fine di lì a qualche mese e di quell’indagine non si saprà più nulla.
Pomicino narra che la notte di Capaci i servizi segreti italiani avrebbero filmato dei camion carichi di armi e di carte partire in tutta fretta da Botteghe Oscure, ma i riscontri nessuno li ha mai cercati.
Tutti casi, coincidenze? Solo i protagonisti possono saperlo.
Io vedo solo che, subito dopo la morte di Borsellino, Caselli viene messo a capo della procura di Palermo e possono finalmente partire i processi, non solo a mio parere tutti politici, contro Contrada, arrestato a dicembre, e contro Andreotti ed altri esponenti DC, grazie a quella fabbrica di pentiti che è ormai diventata la DIA sotto il controllo di De Gennaro, che sforna, gestisce e paga i pentiti ad uso e consumo della procura di Palermo, guidata da Caselli e, soprattutto, della Commissione Parlamentare Antimafia, di cui nel settembre ’92, ma tu guarda di nuovo la combinazione, è diventato presidente il caro Violante.
Pentiti che, come Buscetta, negli interrogatori fatti davanti a Violante e Caselli cambiano amabilmente versione come se nulla fosse e, con dichiarazioni contraddittorie del tutto prive di riscontro, inguaiano a dovere buona parte della DC locale e nazionale.
E così, ricapitolando questo strano gioco di casi fortuiti e combinazioni, assistiamo nel ’92 alla distruzione sistematica di tutti i partiti della Prima Repubblica, tranne uno a caso chiamato PCI, in una guerra portata avanti da nord dal Tribunale di Milano e da sud dal Tribunale di Palermo, dove i due più validi magistrati sono passati direttamente dall’ostracismo e dall’isolamento all’Olimpo dei martiri.
Ma, forse pochi ricordano che sempre nel ’92, nel pieno del caos, prendono il via le disgraziate privatizzazioni che, grazie all’opera del fino ad allora semisconosciuto our man Romano Prodi, portano alla svendita da parte dell’IRI delle più grosse aziende italiane.
D’altronde, quale momento migliore per trasferire per un piatto di ceci ad amici stranieri e italiani, che perennemente ringraziano, una serie di monopoli che da pubblici diventano privati, senza passare per le necessarie liberalizzazioni?
I politici hanno certo altro a cui pensare in quel momento e non hanno la forza di opporsi, l’opinione pubblica non capisce e saluta con giubilo tutto ciò che sottrae l’economia al controllo corrotto della politica.
Peccato che la nostra economia paghi ancora oggi le conseguenze di quel fallimento annunciato.
E non solo, la ciliegina sulla torta arriva a dicembre del ’92, quando in un parlamento devastato prende il via la riforma della legge elettorale che porterà ad un sistema maggioritario e segnerà la vera fine della Prima Repubblica.
Ormai la strada sembra spianata, il pentapartito non esiste più, con la nuova legge elettorale è sufficiente una maggioranza minima per fare cappotto, di partito ne è rimasto solo uno che, autodefinendosi “gioiosa macchina da guerra”, è pronto a e prendere il governo del Paese.
E così, malgrado il comunismo sia stato distrutto in tutto il resto del mondo, a soli 5 anni dal crollo del muro, il PCI, camuffatosi da PDS, è pronto a coronare un sogno durato 50 anni.
Peccato che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi e così, spuntato dal nulla e del tutto inaspettato, come il Mulo di Asimov, irrompe in campo Berlusconi e manda all’aria tutti i calcoli psicostorici dei comunisti nostrani (se non avete letto il ciclo della Fondazione, questa ve la spiego un’altra volta).
Apriti cielo!
Questa è una botta da cui non si sono ancora ripresi e che non gli perdoneranno mai.
Facile comprendere l’odio viscerale che contraddistingue tutt’oggi la sinistra italiana.
Il resto è storia recente che conoscete benissimo: gli avvisi di garanzia a mezzo Corriere, il ribaltone di Scalfaro, i processi infiniti portati avanti dai soliti giudici che non riescono ad accettare di aver perso la fiducia dei cittadini e continuano imperterriti a voler imporre i loro politici di riferimento distruggendo il nemico pubblico n. 1, i soliti metodi giustizialisti, gli stessi pentiti mafiosi privi di riscontri, la denigrazione continua dei media, le accuse di fascismo, populismo, razzismo, nepotismo e benaltrismo.
In altre parole il berlusconismo e l’antiberlusconismo come unico filo conduttore della politica degli ultimi 15 anni.
E oggi? Gli italiani sono andati avanti, hanno aperto gli occhi, si sono stufati di questi attacchi continui, hanno perso completamente la fiducia nei giudici e vogliono cambiare pagina.
Ma i giapponesi non mollano e insistono, insistono, insistono.
E chi poteva essere il faro dei giustizialisti, se non l’idolo di allora, il pm d’assalto Di Pietro, che sembra ogni giorno di più la caricatura di se stesso.
No, lui non mi preoccupa, è una macchietta che non si rende conto di essere il principale fautore delle vittorie di Berlusconi.
Di Uolter che cerca di imitarlo non vale neppure la pena di parlare.
C’è qualcun altro di cui avere davvero paura, qualcuno molto più intelligente e astuto degli altri, uno che non si mette mai in mostra, che resta nell’ombra ed ha ancora una cartuccia mortale da sparare.
Uno che ormai da tempo ha capito che l’attacco frontale non paga, che si finge riformista, conciliante, che non perde occasione per lanciare dichiarazioni di disgelo alla destra e sembra essersi dissociato dal giustizialismo che lui stesso ha inventato, che sembra accogliere con favore le proposte di riforma della giustizia, che non esita a rinnegare i suoi (apparentemente) ex amici di procura, che cerca in tutti i modi di mostrarsi saggio, imparziale, istituzionale, uomo di Stato al di sopra di ogni sospetto.
Ecco, lo dicevo all’inizio, saranno sensazioni, sarà una questione di pelle, sarà il puzzle che ho cercato di ricostruirvi, ma mi si rizza il cuoio capelluto a pensare che a breve Luciano Violante potrebbe diventare giudice della Corte Costituzionale.
Al solo pensiero dei danni che potrebbe fare alla Consulta, distruggendo sistematicamente, senza alcun mandato elettorale, tutte le leggi approvate dal Parlamento votato dal Popolo sovrano, mi vien male.
Non posso credere che, oggi come oggi, la maggioranza sia così ingenua da cascare nella trappola ed eleggere lui quale membro di nomina parlamentare. Davvero sarebbe un suicidio.
Il problema, però, sarebbe solo rinviato perché fra pochi mesi sarà Napolitano a dover nominare un altro giudice della Corte Costituzionale e con il Colle rosso c’è poco da star tranquilli.
Che fare? Mobilitazione di massa, petizioni on-line, raccolta di firme, una valanga di e-mail al Quirinale? Si accettano suggerimenti e adesioni.
Lo so che col disastro mondiale dell’economia, sembra l’ultimo dei nostri problemi, ma è proprio nei periodi di caos che passano sotto silenzio le peggiori nefandezze.
Che sia il caso di far partire fin da subito la campagna “Non mi fido di Violante”?
Chi ci sta?
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