mercoledì 27 agosto 2008

Le colpe del centrodestra nella Malagiustizia

In questa seconda parte del decimo capitolo del libro di Giacalone, troverete indicati gli errori compiuti dal precedente Governo Berlusconi in materia di riforma della giustizia.

Il fatto che questi errori vennero favoriti dalla fronda messa in atto dal Presidente NON-emerito della Repubblica, Azeglio Ciampi, non assolve, a mio parere, la pusillanimità della maggioranza che, dal 2001 al 2006, ha sostenuto (si fa per dire) il secondo Governo Berlusconi.

E' anche per questo motivo che chi scrive queste note si è incazzato come un puma quando ha avuto sentore, qualche settimana fa, che la nuova maggioranza voleva praticare la stessa NON-politica nei confronti della Magistratura: stavolta non ha neppure l' alibi di Ciampi e dell' UDC.

Stavolta, o si fa 'sta benedetta Riforma, e la si fa seriamente, o si Muore, della serie: "ora o mai più".

Il testo che leggerete oggi si inserisce perfettamente nelle polemiche di questi giorni innestate da quei dementi (si fa per dire) che dirigono l' Associazione Nazionale Magistrati ....



Fra il 2001 ed il 2006 in Parlamento c’era una solida maggioranza di centro destra. Nel corso di quei cinque anni il conflitto politico con la magistratura associata e politicizzata non ha praticamente mai avuto sosta.

Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente.

Il centro destra mostra di non avere la capacità d’impostare una complessiva politica per la giustizia e si lancia all’inseguimento di emergenze legate a questo o quel procedimento.

Verrà accusato di fare leggi ad personam, ovvero ritagliate sulle esigenze di questo o di quello, ma, in realtà, dalle rogatorie alla prescrizione accorciata per gli incensurati, sono tutte norme di banale civiltà, direi di ovvia bontà, destinate a portare nuove garanzie per tutti, ma agguantate sempre all’ultimo minuto e sempre senza la capacità di parlare apertamente dei diritti di tutti.

Per giunta, una volta fatti i conti, s’è semmai verificato il contrario: alcune garanzie vengono appositamente limitate affinché non siano applicabili a questo o quel caso concreto, tanto da poter effettivamente dire che alcune leggi sembrano aver dei buchi proprio per non giovare a delle persone specifiche.

Si oscilla per cinque anni fra la battaglia campale e l’accordo corporativo, da una parte si blandisce, dall’altra si gratta la magistratura associata.

Si rinuncia alla separazione delle carriere e si ripiega sulla distinzione delle funzioni, quindi si cerca in tutti i modi il dialogo, peraltro sollecitato da un Quirinale spesso fuori dai binari costituzionali.

Ma non ci si accorge che quel dialogo non è affatto testimonianza di moderazione e civiltà, bensì di cedimento agli interessi di pochi sacrificando quelli collettivi. Uno spettacolo inverecondo alla fine del quale rimane nell’opinione pubblica la sensazione che si sia agito solo per convenienze contingenti, particolari e personali, nel mentre i propri uomini, che si erano pubblicamente difesi, finiscono condannati.

Così gli uni potranno pensare che si era violentato il diritto nel tentativo di salvarli, senza riuscirci, e gli altri pensano di essere stati condannati proprio perché vittime di uno scontro in cui la maggioranza politica soccombeva.

Quei cinque anni dovrebbero essere ripassati al rallentatore e studiati, se non altro per capire che la politica per la giustizia non la devono fare i magistrati, ma non la si può affidare neanche agli avvocati. Gli uni e gli altri in quanto tali.

Dovrebbero essere rivisti per comprendere quali guai crei il non disporre di professionalità politica, il non sapere esattamente dove è bene mettere le mani. Il conflitto è talmente forte che ne fa le spese la migliore legge che il centro destra vara, ovvero la numero 46, meglio nota come legge Pecorella, approvata il 20 febbraio 2006 dopo che già aveva subito il rinvio alle Camere deciso dal Presidente della Repubblica.

Nella legge, operativa dal successivo 9 marzo, si stabilisce che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre appello contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle “ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva”.

E ciò significa che, se un imputato viene assolto in primo grado, a meno di casi eccezionali e di nuove decisive prove, non può più essere processato per il medesimo reato.

È previsto inoltre l’obbligo per il pubblico ministero, al termine delle indagini, di formulare richiesta d’archiviazione quando la Corte di cassazione si sia pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che giustificano l’applicazione di una misura di custodia cautelare e, successivamente, non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini.

Si tratta di due principi giustissimi.

Il primo, perché la presunzione d’innocenza, rafforzata da una sentenza d’assoluzione, non può piegarsi ad una decennale persecuzione giudiziaria, ed è evidente che siccome la condanna deve essere al di là di ogni ragionevole dubbio quel dubbio sarà più che ragionevole se la prima sentenza è di assoluzione.

Il secondo, perché se degli elementi d’accusa non sono sufficienti ad arrestare una persona è escluso che possano esserlo per condannarla in via definitiva.

Trovo imbarazzante che due solari evidenze debbano anche solo essere argomentate. Eppure successe il finimondo.

La legge aveva effettivamente un difetto relativo al ruolo della Cassazione, e su quel punto poteva sia essere scritta meglio che subire un severo giudizio istituzionale, ma il presidente Ciampi rifiutò di firmarla e la rimandò alle Camere, fra gli applausi del Consiglio Superiore della Magistratura e delle toghe associate, anche con un altro, del tutto errato, motivo: il fatto che non si potesse ricorrere contro un’assoluzione, laddove si continuava a poter ricorrere contro una condanna, sarebbe stata una violazione della parità fra le parti.

Il che è un’assoluta mostruosità culturale, purtroppo poi avallata dalla Corte Costituzionale, la cui rotta non è riuscita a restare estranea alle innumerevoli pressioni ed alle tante grida scomposte.

Perché è una mostruosità? La parità fra le parti si riferisce, in tutti i sistemi accusatori del mondo, nessuno escluso, al momento dibattimentale, vale a dire al processo in aula.

In quella sede il giudice deve essere del tutto terzo (e da noi non lo è, a vantaggio dell’accusa, che del giudice è collega) e le due parti, accusa e difesa, devono avere eguali diritti ed eguali doveri.

E questo nessuna persona civile può metterlo in discussione.

Ma se si allarga lo sguardo a quel che viene prima della fase dibattimentale, quindi al lunghissimo periodo che va dall’emergere della notizia di reato alle indagini, per poi giungere all’udienza preliminare, non solo le parti non sono affatto pari, ma la forza della procura è incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi cittadino.

La procura lavora con i soldi dello Stato, il cittadino si difende con i propri.

La procura ha consulenti presi da tutte le forze dell’ordine, il cittadino se li deve pagare.

La procura ha poteri intrusivi nel corso delle indagini, il cittadino non ne ha nessuno.

La procura può arrestare, il cittadino può essere arrestato.

La procura può lavorare in pool, ovvero dedicare molti magistrati a quell’inchiesta, il cittadino deve vendere tutto, ammesso che abbia qualche cosa, per creare un pool di avvocati.

La procura non soffre per il tempo che passa, il cittadino nel frattempo subisce il peso dell’inchiesta.

Potrei continuare per pagine, e non farei che scrivere cose del tutto ovvie.

Quindi non è affatto vero che ci sia parità fra le parti, o, meglio, quella parità arriva molto tempo dopo.

A fronte di questo, dopo avere subito l’inchiesta, le eventuali misure cautelari, spesso il pubblico screditamento, dopo avere pagato la difesa, il cittadino è infine assolto al processo, e se, a questo punto, gli si riconosce il diritto di non essere disturbato oltre ciò viola la parità fra accusa e difesa?

Ma si deve essere del tutto matti per sostenere una simile corbelleria, o, più probabilmente, non si deve sapere quel che si dice e ci si limita ad ascoltare la voce corporativa di toghe cui andare avanti per anni non costa nulla e non sposta nulla.

E, lo ripeto sapendo di ripetermi, come si fa a condannare un cittadino, a riconoscerne la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, se per lo stesso fatto un tribunale lo ha già assolto?

Tenuto anche conto che il giudice dell’appello non ascolta i testimoni, non assiste al formarsi della prova, ma lavora sulla carta, su quel che si è scritto nel primo grado.

Tutto questo senza contare che il protrarsi di quel processo, il desiderio della procura di riprovare ad ottenere una condanna già negata, non solo è una tortura per il malcapitato, ma anche un costo sociale, perché si costringerà altri giudici a dedicare tempo e denaro pubblico all’esame di quel che loro colleghi hanno già giudicato insufficiente per una condanna.

L’allungarsi del procedimento si riflette inevitabilmente sull’allungarsi dei tempi della giustizia, tema che, come abbiamo visto, ci procura già molti guai.

Anzi, si allontana la ragionevole durata del processo, cosicché i magistrati possano ancora lamentarsene ad ogni inaugurazione d’anno giudiziario.

Ma non si ragionò di questo, non si ragionò di diritto e di diritti, si impostò il problema di una maggioranza politica che voleva togliere poteri alle procure, chiamando tutti gli avversari di quella maggioranza a dar man forte ad una reazione di cui molti dovrebbero vergognarsi.

E credo anche la Corte Costituzionale.

Così, comunque, cadde la norma migliore di quella stagione politica.

Così si dimostrò che la malattia della malagiustizia non è curabile con provvedimenti parziali e circoscritti.

La politica, del resto, di qualsiasi colore sia, non riuscirà mai a far funzionare le cose, non riuscirà ad invertire la rotta del naufragio se non spezzerà l’autoreferenzialità inefficiente della magistratura.

Da una parte serve, come abbiamo visto, la separazione delle carriere, ma serve anche mettere le mani sul Consiglio Superiore della Magistratura.

Ripeto l’espressione, affinché non sembri mi sia sfuggita una non voluta esagerazione: si devono “mettere le mani” sul Csm.

E si deve farlo per non tradire la Costituzione.

Le toghe correntizzate ci tengono a gridare che chi tocca il Csm aggredisce e distrugge la Costituzione,

Invece è vero il contrario: a Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la Costituzione è stata ridotta in coriandoli.

L’articolo 104 della Costituzione esprime concetti chiari, e molti di quelli che lo citano a sproposito contano sul fatto che chi li ascolta non lo abbia letto. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.

Le parole hanno un senso, e qui si esclude che la magistratura sia un “potere”, ma la si vuole “ordine”. Distinzione niente affatto scolastica, perché nasce dal fatto che il “potere” risiede nelle leggi, che sono fatte dal Parlamento, frutto a sua volta dell’unico sovrano legittimo, in democrazia, il Popolo.

Ed il 104 continua: “Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica”.

In questo modo non si volle trovare l’occasione di una comparsata che consentisse una proiezione televisiva (allora c’erano solo i giornali e la radio), non si volle indicare una funzione meramente decorativa per l’inquilino del Quirinale, ma si stabilì che chi governa un ordine autonomo ed indipendente deve farlo sotto la regia di chi rappresenta l’unità della nazione e dei suoi cittadini.

Hanno fatto male, malissimo, i Presidenti della Repubblica succedutisi a prender sottogamba quel ruolo, con l’unica eccezione di Francesco Cossiga, che ad un certo punto si trasferì a Palazzo dei Marescialli per affermare il sacrosanto principio che quell’organo non aveva il diritto di pronunciarsi su provvedimenti politici, di governo e legislativi.

I componenti del Csm “sono eletti –scrisse il costituente- per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”.

Questo è l’unico punto in cui si dette prevalenza ai magistrati, nella composizione.

Quel che allora non si era neanche immaginato è che il meccanismo elettorale scelto avrebbe portato a creare delle correnti politicizzate, a loro volta moltiplicanti i peggiori istinti corporativi ed autoconservativi della categoria.

Questa previsione costituzionale, però, precedeva immediatamente un altro concetto fondamentale: “Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento”.

Quindi la presidenza spetta ad un non magistrato e la vice presidenza, che ha compiti fondamentali, ad uno dei nominati dal Parlamento.

Il costituente, insomma, ce la mise tutta nel cercare di evitare che il Csm divenisse quel che è divenuto.


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lunedì 25 agosto 2008

Il colombo Furio e la coccinella Concita

Come ben sanno i frequentatori di questo blog, paraffo legge raramente il Giornale di Berlusconi (Paolo) e rarissimamente lo cita, ma oggi deve fare una eccezione e invitarvi alla lettura di ben due articoli a loro modo straordinari e, anche, divertenti.

Il primo è di Giancarlo Perna ed è dedicato a Furio Colombo, il grande odiatore di Berlusconi.

Il tratto interessante di questo pezzo non è politico, in senso stretto, ma sociologico perchè l' autore, descrivendo la carriera di Colombo, ci regala il ritratto di un tipico intellettuale italiano della prima repubblica.

Colombo è - a mio parere - il simbolo di quell' Italia finto-cattolica, finto-atea, finto-marxista, finto- fascista, finto-liberale, finto-capitalista, insomma, finto-tutto che io disprezzo totalmente e che mi auguro (forse ingenuamente) stia per tirare le cuoia, sempre che il centro-destra, stavolta, abbia le palle di seguire Berlusconi, l' unico che, volendolo, abbia la capacità di liberarci da questo incubo che dura da 80 anni (e oltre).

Il secondo articolo è di Polo Guzzanti ed è dedicato al nuovo direttore de l' Unità, Concita De Gregorio.

Questo pezzo è interessante politicamente, invece, in quanto - attraverso le vicende direttoriali di quel giornale - descrive lo stato di sfascio in cui versa il PD veltroniano, stato di cui noi di destra dobbiamo gioire sì, ma fino ad un certo punto, cioè ben poco.

Come dice lo stesso Guzzanti, una democrazia deve viaggiare su due gambe. Oggi viaggia su una sola, quella del centrodestra. Dunque, non viaggia, ma zompetta come sempre.

I teatrinanti della politica continuano a trastullarsi - persino quando stanno in vacanza - enumerando le Repubbliche, chiedendosi se siamo nella seconda o già nella terza.

A me pare che siamo ancora alla prima: è dal 1948 che esiste una maggioranza ma NON non esiste una opposizione. Così era e così è tutt' ora.

Dunque, a mio avviso, potremo parlare di SECONDA Repubblica solo quando esiterà anche una opposizione capace di andare al governo a sua volta e governare davvero.

Insomma, è mia opinione che, senza una opposizione VERA, anche una maggioranza non può governare DAVVERO.

L' articolo di Guzzanti ha il merito di farci sapere che, a tutt' oggi, di una vera opposizione non si vede neppure l' ombra e di farcene - giustamente - preoccupare.

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mercoledì 20 agosto 2008

Malapolitica e Malagiustizia: binomio indissolubile

La cosa "avvilente" di questo libro di Giacalone è che ogni capitolo contiene denunce peggiori del precedente ...

In questo decimo capitolo, che pubblicherò a puntate per permettervi di assaporarlo meglio, si parla della malapolitica che è la causa prima della malagiustizia.

Sì, amici miei, perchè deve essere chiaro a tutti che è stata l' ignavia dei politici a rendere possibile quella dei magistrati, così come è l' ignavia di noi cittadini a rendere possibile quella dei nostri rappresentanti in Parlamento.

Un popolo di adoratori del Papa, del gioco del calcio e delle canzonette di Vasco Rossi, un popolo di bacchettoni cattolici marxisti o fascisti che pensano che lo Stato sia altro da sè, un popolo così profondamente illiberale da fare spallucce di fronte ad una amministrazione della giustizia che definire vergognosa in tutti i suoi aspetti è un eufemismo, un popolo siffatto si merita i politici che ha e - di conseguenza -  i magistrati che ha.

La lettura di questo capitolo ha rafforzato la convinzione che ho espresso in queste ultime settimane, secondo la quale non ha senso continuare a "tifare" - attraverso questo blog - per il Governo Berlusconi se questo non si farà carico di varare la "regina" di tutte le riforme, quella della giustizia.



Fra poche pagine descriverò un programma immediato per la giustizia, e lì si troverà ancora l’urgenza e la necessità di separare la carriera dei giudici da quella dei procuratori.

Chi è giunto fin qui ha già letto diverse considerazioni su questo tema, che però riprendo, perché decisivo. Questa volta ripartiamo da una presa di posizione autorevole e di segno completamente opposto, quella del procuratore generale della Repubblica, presso la corte di cassazione, e dalle sue parole del 26 gennaio 2007:

“(...) si è disposta la separazione delle funzioni di giudice e di pubblico ministero, rendendo estremamente difficile, e necessariamente limitato a pochi casi, il passaggio dall’una all’altra funzione; passaggio che invece dovrebbe essere incoraggiato e facilitato. A mio giudizio, infatti, è proprio nell’interesse dell’imputato che il magistrato che svolge le funzioni di pubblico ministero abbia l’habitus mentale del giudice e cioè tenda alla sola ricerca della verità, senza acquisire una mentalità agonistica e persecutoria. Peggio ancora sarebbe la completa separazione delle carriere, oltre tutto prodromica all’assoggettamento del pubblico ministero al potere politico”.

Mario Delli Priscoli continua:

“La separazione delle carriere instaurerebbe un modello di pubblico ministero basato sulla ricerca esasperata dei risultati, senza la media zione dei valori e della cultura delle garanzie. Un modello che potrebbe essere fortemente esposto alle pressioni dell’opinione pubblica, che spingono in molti casi alla ricerca di un colpevole ad ogni costo, senza andare tanto per il sottile sulle prove e sulla ricerca delle vere responsabilità. (...) Il decreto legislativo n. 106 del 2006, relativo alla riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, è stato accolto dalla magistratura con non poche riserve, anche per il pericolo di eccessiva gerarchizzazione e burocratizzazione”.

Non solo credo che Delli Priscoli si sbagli, ma trovo gravissimo che egli abbia potuto pronunciare queste parole alla presenza delle più alte cariche dello Stato, e trovo scandaloso che nessuno glielo abbia fatto notare.

Lo scandalo sta nel fatto che la magistratura è chiamata ad applicare le leggi, e se invece di farlo le “accoglie con non poche riserve” vuol dire che l’intero sistema è già saltato.

Lo dicevamo all’inizio, quella cerimonia inutile e soporifera (l’inaugurazione dell’anno giudiziario) consente anche che tali veleni s’insinuino nel già malato corpo della giustizia, senza che nessuno abbia più neanche la sensibilità e la lucidità per reagire. Ma veniamo all’errore del procuratore generale, e dei tanti suoi colleghi che la pensano come lui.

Ma in che mondo vive, il dottor Delli Priscoli?

Dove li ha visti i pubblici ministeri che non s’industriano a trovar le prove contro gli indagati ma s’adoperano per far trionfare la loro innocenza?

A me non è mai capitato di vederne anche uno solo. Uno. E non direi neanche che si tratta di un istinto persecutorio, ma semplicemente del fatto che, nella pratica, ciascuno di loro si sente rappresentante dell’accusa, si vive come parte fin da prima che si avvii un processo, e, in un certo senso, le cose sono già andate dove la forza di gravità le spinge, opponendosi a questa evidenza la forza d’attrito corporativa, quella di chi, come Delli Priscoli, difende il proprio diritto di poter scegliere di volta in volta, sulla base della sede e della carriera, cosa fare.

È inutile girarci attorno e costruire false teorizzazioni, la separazione delle carriere è un’indispensabile necessità del processo accusatorio, non c’è alcun posto al mondo dove lo sconcio italiano della colleganza trova riscontro, ma vi si oppongono solo e soltanto interessi di casta, miserabili egoismi carrieristici di una minoranza che si fa potente del potere che solo la legge dovrebbe avere.

Tanto potente da divenire sfrontanta, tanto sfrontata dal sostenere che si possa guardare con sospetto a quelle leggi di cui le toghe dovrebbero essere la voce.

La “cultura della giurisdizione” è una fanfaluca, una roba che non si trova nella testa, prima ancora che nella condotta, di chi interpreta un ruolo legato al sistema accusatorio pensando di poterlo far convivere con i privilegi castali del vecchio sistema inquisitorio.

E qui veniamo ad un punto sul quale è bene essere chiari: è vero, per separare le carriere vi è un ostacolo costituzionale. La nostra Costituzione è stata scritta da chi viveva, aveva conosciuto e manteneva la cultura del sistema inquisitorio.

In quel sistema le prove si raccoglievano e formavano prima del processo ed il pm lavorava sotto la supervisione del giudice istruttore. Tutto un altro mondo, che ben poteva tollerare la comunanza delle carriere e ben poteva giovarsi della “cultura della giurisdizione”, ovvero del portare lo stesso abito mentale, le stesse attenzioni e gli stessi scrupoli nelle diverse funzioni.

In quel sistema il cittadino era l’oggetto ed il suo avvocato prendeva solo alla fine atto di quel che si sarebbe portato al processo.

Tutto questo si ribalta con l’accusatorio, dove le parti devono essere sullo stesso piano e non esistono prove raccolte, ma solo informazioni e documentazioni che diventano prove davanti ad un giudice terzo, del tutto estraneo alle parti e che la legge vuole anche del tutto all’oscuro dei fatti sui quali è chiamato a giudicare.

Pur mantenendo immutato il dettato costituzionale è possibile approdare ad una tappa intermedia, consistente nella separazione delle funzioni: i magistrati sono tutti colleghi, ma chi sceglie di rappresentare l’accusa non può diventare giudice, e viceversa, se non a determinate condizioni, con tempi stabiliti e, ovviamente, non nella stessa sede.

Abbiamo visto che la magistratura associata si ribella anche a questa ipotesi minimale. Che, però, è e resta minimale.

L’approdo civile è la separazione delle carriere, con la necessaria modifica costituzionale, che riguarda più la forma che la sostanza, ma, appunto, nel diritto la forma è sostanza.

Un serio programma riformatore, una seria determinazione a rendere migliore la giustizia italiana, non s’accomoda a dare qualche botta al sistema esistente, manco fosse una carrozzeria bitorzolata, per non prendersi l’incomodo di dover sostenere la necessità di forme nuove.

Ragionassimo così, le macchine sarebbero ancora delle carrozze a trazione motorizzata.

La separazione delle funzioni è un accomodamento intermedio, reso del tutto inutile, del resto, dall’opposizione corporativa. Mentre la separazione delle carriere è il minimo indispensabile perché il processo assuma una forma di serietà.

Lo ripeto: non c’è Paese civile di questo mondo dove si trovi nulla di simile all’orgia corporativa della magistratura italiana.

Forse Delli Priscoli non se ne rese conto, ma proprio la sua alta collocazione nella carriera, proprio l’autorevolezza che ne deriva e la singolarità della sede dove ha pronunciato quelle parole, segnano l’evidenza di un drammatico stato di decadimento del diritto. Della cultura del diritto.

Una politica che voglia rendere migliore l’Italia non può accontentarsi di nulla di meno di un serio rimedio. Non sta scritto da nessuna parte che una seria riforma della giustizia debba farla una parte politica anziché un’altra. Possono, anzi devono, avere idee diverse, ma tutti quelli dotati di senso di responsabilità dovrebbero avere in mente un modello diverso da quello attuale.

Ma capita che, per le ragioni descritte all’inizio di questo libro, la sinistra sia passata da una buona cultura garantista ad una totale acquiescenza alla propria ala giudiziaria, e giustizialista.

Quando il tempo sarà passato e queste cose potranno essere lette con maggiore freddezza, s’individuerà in quella deviazione una delle cause dell’impoverirsi del pensiero riformatore nel mondo della sinistra.

La destra italiana prese forma, nel biennio 1992-1994 stando abbondantemente dalla parte dell’inciviltà, coltivando quella devozione per l’inquisizione e quel disprezzo per le garanzie costituzionali che poi la sinistra volle rubarle, come fosse un oggetto prezioso e non una degenerazione ripugnante.

Ma subito dopo aver preso forma, quella stessa destra si trovò a subire l’attacco delle toghe ed ebbe modo di provare, sulla propria pelle, la forza devastante del giustizialismo, la sua capacità di torcere i binari della democrazia.

È per questa ragione che si poteva supporre sarebbero state quelle le forze in grado, per convenienza anche propria, di porre un freno alla caduta. Si poteva supporre, ma le cose sono andate diversamente.

Fra il 2001 ed il 2006 in Parlamento c’era una solida maggioranza di centro destra. Nel corso di quei cinque anni il conflitto politico con la magistratura associata e politicizzata non ha praticamente mai avuto sosta.

Il risultato di questa lunga guerriglia, però, è avvilente. (Segue ....)


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lunedì 18 agosto 2008

Video: Incontro a Cortina 2008 sulla Malagiustizia

Grazie all' amico Andrea, eccovi i link a You Tube relativi ad uno degli aspetti più aberranti della malagiustizia italiana: l' uso dei pentiti.

Gli interventi sono di Davide Giacalone, Vittorio Pezzuto e Lino Jannuzzi










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domenica 10 agosto 2008

La Malagiustizia impedisce la crescita economica.

In questo nono capitolo del suo libro, Giacalone ci fa sapere come la malagiustizia civile sia causa dell' impoverimento sistematico del nostro paese, in una proporzione tale da risultare quasi incredibile (circa lo 0,70% del PIL)!!

Non credo di dover aggiungere altro.

Leggete e inorridite.


Un mercato dove la giustizia non funziona è un mercato corrotto.

Non si tratta solo dell’incapacità ad individuare e perseguire i reati di corruzione, ma, più generalmente, dell’incapacità a far rispettare le regole.

Un mercato dove il rispetto delle regole non sia garantito, e dove l’infrangerle non avvenga sotto la realistica e tempestiva minaccia di una punizione, è un mercato che si corrompe. Nel suo insieme.

Questa, purtroppo, è la nostra condizione.

Al fiorire smodato di regole ed adempimenti non fa seguito un accurato ed efficace controllo, cosicché la superfetazione legislativa e regolamentare finisce con l’essere una tortura per chi si picca di volere essere nel giusto e nel rispetto, mentre diventa uno spauracchio poco temibile per chi del rispetto delle regole si fa un baffo.

Nel Paese in cui tutto è proibito, in cui per tutto è necessaria l’autorizzazione, la vidimazione, l’autentica, il permesso, chi cerca di procurarseli perde un sacco di tempo, chi se ne frega può ragionevolmente sperare di farla franca.

Siccome appartengo io stesso alla categoria dei timorosi e timorati e non mi faccio mancare neanche un timbro so, per esperienza, che la precedente affermazione può lasciar perplessi i miei simili, ma, vedete, sono proprio quelli come me che temono la sanzione per quello che neanche pensavano di avere il dovere di possedere o custodire a vita, finché morte non li colga, mentre c’è una vasta categoria di concittadini che se la ride e sa bene che la pubblica amministrazione fa la faccia feroce solo all’inizio, mentre poi non è in grado di far rispettare se stessa e si smarrisce nei corridoi dei tribunali.

Io m’incupisco anche quando l’agenzia dei tributi mi fa sapere che è tutto in regola, perché sotto aggiunge che questa sua affermazione non fa testo, ma altri se la ridono anche quando vengono scoperti in plateale evasione, giacché sanno, come le statistiche dimostrano, che sarà difficile costringerli a scucire un tallero.

Gli scandali finanziari sono parte stessa del mercato, ed in nessuna parte del mondo si è in grado di prevenirli tutti.

La cronaca statunitense, del resto, ci ha restituito storie di grandi crack nati da truffe vere e proprie, nelle quali hanno rimesso soldi i risparmiatori ed i lavoratori, bruciando ricchezza del mercato a vantaggio di qualche maneggione.

Ma quelle stesse cronache raccontano poi di procedimenti giudiziari avviati alla svelta e condotti con gran severità. Il che ha portato certuni a scendere dall’aereo privato per entrare in galera e starci lunghi anni.

Da noi gli scandali finanziari sono oggetto di chiacchiera sociale.

Li si sviscera sui giornali, ci si scrivono libri, ma delle sentenze, e delle relative pene, neanche l’ombra.

I presunti responsabili (presunti, accidenti, perché così c’impone la civiltà, anche quando sono dichiaratamente colpevoli) finiscono in carcere nel corso delle indagini, non scontano alcuna pena ma ci passano qualche settimana, talora mesi, poi escono e si fanno fotografare con la famiglia, intenti a riscoprire i valori di una volta e la fede trascurata.

I processi durano anni, tanto che si fa in tempo anche a dimenticarsene.

I risarcimenti sono una chimera e, con il passare del tempo ed il divenire la materia buona solo per ricostruzioni dietrologiche, si diffondono leggende di coinvolgimenti innominabili, di ambienti intoccabili, di livelli inavvicinabili.

Mentre l’unica cosa cui non ci si avviciana, appunto, è una giustizia decente.

È dei nostri giorni un’inchiesta che dura anni, dove si scopre che una banda di spioni, pagata diecine di milioni da due aziende quotate in Borsa, commetteva reati a gogò violando la riservatezza di intere comitive.

Ma ogni volta che i capi di quell’azienda, quindi quelli che avevano assunto, istruito e pagato i presunti (sempre accidenti) responsabili di quei reati ne parlano dicono: noi siamo parte lesa.

È una barzelletta, che non fa neanche ridere.

Poi prendono un noto avvocato, lo mettono a presiedere l’azienda e quando litigano quello se ne va dicendo di aver visto una realtà che gli ricorda la Chicago dei mafiosi che sparano per strada.

Ma quelli continuano ad andare in giro e dire: siamo la parte lesa.

La cosa non sarebbe grottesca se si pensasse d’arrivare in tempi ragionevoli ad un processo, per cui le cose vengono a galla e se quei signori sono veramente parte lesa si rivarranno sui rei, oppure parteciperanno della loro sorte.

Ma questo non avviene, e ci teniamo il grottesco.

Tutto ciò, sia chiaro, non lo sappiamo solo noi che la mattina facciamo colazione mangiando il cornetto e leggendo le intercettazioni di turno, lo sa tutto il mondo che, difatti, diventa sospettoso e riottoso quando si tratta d’investire soldi in Italia.

E se poi il partner mi truffa, a chi mi rivolgo? Al giudice che sentenzia dieci anni dopo, sempre che lo faccia, no, grazie.

Ed è anche questo il motivo per cui preferiscono evitare d’avere società di diritto italiano, e se le occasioni sono ghiotte investono utilizzando veicoli esteri e scrivendo esplicitamente che, in caso di problemi, il foro competente sarà una sede internazionale.

Mai Roma, mai Milano.

Così procedendo, però, il nostro mercato s’impoverisce, il nostro stesso fisco incassa meno e, pertanto, tutti paghiamo una tassa per l’inesistenza di una giustizia degna di questo nome.

Dall’inizio alla fine di una procedura di fallimento passano, in media, 3.140 giorni. Quasi nove anni.

Immaginate di avere un’azienda che deve avere dei soldi dal fallito e fate due conti di quanto vi costa l’inesistenza della giustizia.

Confartigianato i conti ha provato a farli (non è facile, ma a spanne sono possibili) e ne ha dedotto che per le sole imprese artigiane quei costi ammontano a 2,3 miliardi l’anno, in media 384mila euro ad azienda.

Dicono che il costo del ritardo per la riscossione dei crediti è di 1.157 milioni di euro, mentre il costo indotto dagli ingenti ritardi delle procedure concorsuali obbliga le imprese a sostenere maggiori oneri finanziari per 1.174 milioni, incrementando in tal modo del 12,2% le perdite dei fallimenti, che sono già enormi ed ammontano a 9.606 milioni.

Nel complesso, al sistema economico, i fallimenti portano una perdita di 10,7 miliardi, ovvero una cifra che fa lo 0,76% del prodotto interno lordo.

Si guardi questa tabella, frutto dell’elaborazione di Confartigianato dei dati Istat e Infocamere relativi al 2005:

Non solo sono dati drammatici, ma riportano a galla una differenza territoriale che segna lo svantaggio di certi imprenditori per il solo fatto di trovarsi in una regione anziché in un’altra.

E si tratta di uno svantaggio dovuto alla giustizia, quindi allo Stato. Senza contare lo svantaggio dell’intera azienda-Italia rispetto ai diretti concorrenti esteri.

Si calcola che “se prendiamo a riferimento il tempo per far rispettare un contratto la performance del nostro sistema giudiziario presenta profonde inefficienze rispetto ai sistemi giudiziari dei principali Paesi industrializzati. La durata media rilevata dalla Banca Mondiale nel 2006 per far rispettare un contratto del valore pari a due volte il reddito pro capite in Italia è pari a 1.210 giorni, superiore ai 515 giorni della Spagna, ai 394 della Germania ed ai 331 della Francia”. Dove, non dimentichiamolo, tutti si lamentano per la lentezza della giustizia. Abbiamo visto (secondo capitolo) che alla giustizia ed al suo naufragio ha dedicato attenzione il governatore della Banca d’Italia, nelle considerazioni finali lette all’assemblea del maggio 2007.

Prima ancora lo stesso istituto aveva pubblicato un lavoro di Amanda Carmignani2, dove si legge che: “in ambienti dove le tutele giuridiche sono più scarse o inefficienti, la disponibilità relativa del credito commerciale può risultare maggiore, soprattutto per le imprese per le quali l’esistenza di asimmetrie informative può determinare forme di razionamento da parte degli intermediari creditizi. Le informazioni utilizzate per l’analisi empirica sono state ottenute incrociando le statistiche giudiziarie civili diffuse dall’Istat con i dati sui bilanci delle imprese presenti nella base dati della Centrale dei bilanci e con quelli sul sistema creditizio tratti dalle segnalazioni di vigilanza e dall’archivio anagrafico delle banche tenuto presso la Banca d’Italia.

I risultati mostrano che laddove l’enforcement giudiziario è più debole, le imprese ricorrono in maniera più intensa alle dilazioni di pagamento presso i fornitori; ne risulta accresciuta l’incidenza del debito commerciale sul totale dei debiti”.

Ed aggiunge che: “La relazione tra funzionamento della giustizia e indebitamento commerciale può essere spiegata in base al grado di tutela dei creditori. Sotto questo profilo, il credito commerciale presenta un vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento a breve termine che lo rende più indipendente dal funzionamento dei meccanismi di tutela giuridica formale: oltre alla limitata entità degli importi e ai brevi tempi di dilazione, la protezione è assicurata dalla natura del finanziamento (input specifici piuttosto che denaro, cfr. Burkart e Ellingsen, 2002) e dalla credibilità della sanzione che l’impresa venditrice è in grado di imporre a quella acquirente in caso di inadempimento (la sospensione della fornitura della merce).

Quando la tutela legale dall’insolvenza o da comportamenti “opportunistici” dei debitori non è elevata, il livello di incertezza nei mercati dei finanziamenti aumenta ed ex ante gli intermediari finanziari sono meno disposti a concedere credito, soprattutto ai soggetti ritenuti più rischiosi (imprese più opache, caratterizzate da livelli bassi di garanzie, ecc.).

In simili circostanze le imprese che hanno difficoltà di accesso al mercato del credito possono utilizzare il credito commerciale come parziale sostituto di finanziamenti a breve termine alternativi”.

Tutto questo, naturalmente, senza considerare che l’inefficienza della giustizia nel recupero dei crediti consegna a talune organizzazioni criminali l’inquietante fascino della tempestività e dell’efficacia.

Per ragioni anche politiche, capita che la discussione sull’agonia della giustizia si concentri su quella penale, ma sarebbe un grave errore ignorare il progressivo venir meno di quella civile.

Basti considerare che il 70% delle cause civili di contenuto economico finiscono con il risolversi in un accordo fra le parti.

Il che non deve far credere al successo della volontà conciliativa, ma al fatto che nella grandissima maggioranza dei casi il debole soccombe prima del giudizio, non riuscendo a sopportarne la lentezza ed i costi.

Così capita che si accetti di avere meno soldi di quelli cui si avrebbe diritto, o che ci si arrenda in giudizio, o che ci si arrenda una volta vinto il giudizio e constatato che sta per aprirsi il calvario non meno lungo e periglioso dell’esecuzione.

Nel processo penale le tattiche dilatorie servono a fare andare in prescrizione i reati, in quello civile servono a prendere per la gola chi non ha le spalle economicamente robuste.

Proprio per queste ragioni, proprio perché la motivazione è prevalentemente economica, basterebbe un adeguato disincentivo economico per riportare molti tempi alla ragionevolezza.

Un esempio: il tasso d’interesse legale e quello di mercato sono solo lontani parenti, così che chi deve dare dei soldi a qualcun altro ha tutto l’interesse, anche economico, a darglieli il più tardi possibile.
Ci guadagna, anche materialmente, nel rimanere in possesso di quei quattrini.

Se quell’incentivo venisse meno, se tenersi soldi di altri fosse un onere e non un modo per guadagnare, molte meno persone avrebbero interesse a perdere tempo.

È noto che gli avvocati hanno accolto con avversità l’idea che il loro onorario dipenda, sebbene solo in parte, dal patto di quota lite, ovvero dal valore reale della causa e dal suo esito.

Ma farebbero bene a riflettere su questa loro posizione, perché in altri Paesi europei il pagamento degli avvocati prevalentemente a success fee è considerato normale: mi fai vincere, ti pago; mi fai perdere, ti rifondo le spese.

In questo modo si ottiene un primo filtro professionale, di grande valore: nessuno vorrà prendersi in carico cause visibilmente suicide, in cui la probabilità di successo è praticamente nulla.

Ed in questo modo anche la giustizia civile (ovvio che il discorso non vale nel penale) respira.

Pensare, invece, che il mestiere dell’avvocato consista nell’assecondare sempre e comunque il cliente, anche quando ha platealmente torto, per poi riscuotere parcelle fissate da un tabellario non è che sia dimostrazione di una concezione particolarmente orgogliosa del proprio lavoro.

Accanto a questo va fatto un ragionamento sulla “lite temeraria”, ovvero sull’impiantare cause civili del tutto pretestuose, sapendo di essere dalla parte del torto.

Le leggi puniscono tale atteggiamento, ma solo dal punto di vista teorico, perché assegna all’altra parte l’onere di dimostrare il danno subito.

Invece questa è una strada da percorrere, per disincentivare l’insana abitudine di portare davanti ad un giudice questioni prive di rilievo e razionalità (anche se temo che, estendendo tale concetto al penale, sarebbero non pochi i pubblici ministeri protagonisti della lite temeraria). Non si deve mai perdere, comunque, la cognizione che lo sfascio della giustizia è causa di un grave ed irreparabile danno economico. Un Paese povero di giustizia è povero anche di capacità produttive.


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sabato 9 agosto 2008

Controcorrente: evviva la Cina post comunista!

Quanto sdegno verso la Cina dei Giochi Olimpici, specie da destra!

Be', voglio fare il bastian contrario: a me la Cina che ospita i giochi Olimpici è piaciuta molto. 

Folkloristicamente? Sì, certo, anche folkloristicamente! 

La cerimonia è stata bellissima, la più bella che io ricordi (e, ahimè ne ho viste tante, ormai).

Ma mi è piaciuta ANCHE politicamente. Perchè? 

Perchè, secondo me, la fatidica data di ieri - 08/08/08  - segna l' inizio della fine del regime dittatoriale comunista.

Regime che già non è più comunista da un pezzo, cioè da quando ha permesso e incoraggiato in tutti i modi l' intrapresa privata.

In questo momento la Cina è governata da una dittatura di destra, che più di destra non si può. E allora ... va bene?

No, che non va bene, ovviamente, anzi, va malissimo!

Una dittatura di polizia, qual'è quella cinese, rappresenta, ai miei occhi, il MALE ASSOLUTO.

Ma, ed il MA è grande come una casa, l' apertura al capitalismo diffuso che la dirigenza cinese ha adottato contiene in sè il germe della libertà che prima o poi (più prima che poi) fiorirà.

Un' altra considerazione: nella cerimonia di ieri non c'è stato il benchè MINIMO accenno al passato comunista di questo paese. E' stato rimosso completamente ed anche questo fatto rende - a mio avviso - improponibile qualsiasi parallelismo con le Olimpiadi naziste di Berlino che furono un enorme spot del regime.

Ieri, al contrario, si è osannata la Cina delle arti, della bellezza, dell' armonia, della cultura plurimillenaria, delle invenzioni anticipatrici che sono diventate patrimonio di tutta l' umanità.

Un inganno? No, perchè la Cina è DAVVERO anche quello ed il fatto che si siano privilegiati quegli aspetti non è stata solo una furbata, ma una scelta ben precisa che dovrebbe rallegrarci tutti.

Insomma, ieri abbiamo assistito alla volontà della Cina di aprirsi al resto del mondo e al desiderio di mostrare il meglio di sè, intendo il meglio del patrimonio umano della loro nazione.

Ora non potrà più tornare indietro, dovrà cominciare ad assomigliare all' immagine di sè che ha voluto dare.

Per questo ritengo così importante prendere atto e rallegrarsi del tipo di immagine che ha voluto trasmettere .....

Ovviamente, posso sbagliare, posso peccare di ottimismo, ma una cosa è certa: le indignazioni dei mei amici di destra verso la Cina di oggi, mi fanno irritare tanto quanto mi hanno sempre fatto irritare quelle dei trinariciuti di sinistra contro i regimi dittatoriali di destra.

Mi fanno irritare perchè si tratta di indignazioni ideologiche che, come tali, prescindono dalla realtà concreta e, soprattutto, dall' ignoranza della storia che sta alle spalle di qualsiasi regime dittatoriale (così come di qualsiasi democrazia).

Per esempio, indignarsi per la mancanza dei diritti civili in un paese che ha alle spalle millenni di dispotismo assoluto in cui l' imperatore era un Dio in terra, è sciocco, è antistorico. Al contrario, bisognerebbe entusiasmarsi all' idea che le cose stiano finalmente per cambiare e darsi da fare per "aiutare" questo processo.

Aiutare questo processo vuol dire dare fiducia, tendere la mano, non girare la schiena indignati.

E' tanto difficile da capire, egregio senatore Gasparri? (Senatore che, qualche giorno fa, ha perso l' ennesima occasione di starsene un po' zitto)

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Magistratura e Governi catto-marxisti: un' Apocalisse!

I capitoli 6 e 7 del libro di Giacalone riguardano la Storia della Corte Europea e le istruzioni per farvi ricorso. Se interessati, potete leggerli direttamente alla fonte.

Io li salto e pubblico, oggi, l' intero capitolo 8, intitolato "La legge Pinto".

Vi troverete la storia di una legge che è il simbolo della assoluta incapacità di governo di una compagine politica, quella cattolica e marxista, comunemente intesa - nei decenni - come "centro-sinistra", che ha martoriato questo paese per 40 anni.

In particolare scoprirete, attraverso questa storia, in che conto questa gente abbia sempre tenuto i cittadini: carne da macello da sacrificare alle proprie esigenze propagandistiche e di conservazione del potere, senza alcun interesse al cosiddetto "bene comune".

Scoprirete, inoltre, quanto "europeista" sia la gente di centro-sinistra e capirete perchè il resto d' Europa ci disprezzi profondamente.

Basterebbe, a giustificare tanto disprezzo, solamente l' ideazione ed il varo di "questa" legge" .....


L’ incapacità dei tribunali italiani di rendere giustizia in tempi ragionevoli ha di molto superato i limiti patologici, ma ha anche preso una lunga rincorsa. Da quando esiste la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pertanto, l’Italia si è subito segnalata fra i Paesi più condannati, per poi prendere saldamente il primo posto.

Nonostante la procedura di ricorso a Strasburgo non fosse poi così diffusa, e solo una piccola, direi minima, parte degli aventi diritto andava a reclamare giustizia, i ricorsi dall’Italia crescevano in modo talmente impetuoso da mettere in crisi anche quella Corte, che aveva il dovere di sentenziare contro la lentezza, ma a sua volta era stata colta dal tormento del lavoro arretrato.

Per questa ragione il consiglio dei ministri del Consiglio d’Europa, dopo numerosi e ripetuti richiami, s’apprestava a prendere dolorosi provvedimenti contro l’Italia.

Quei provvedimenti sarebbero stati salutati come un successo da noi europeisti ed amanti del diritto, avremmo visto con piacere le punizioni inflitteci, perché la relativa umiliazione (l’Italia è uno dei Paesi fondatori!) avrebbe finalmente reso necessarie ed urgenti quelle riforme strutturali che la politica, da sé sola, non aveva la forza, e neanche la voglia d’intraprendere.

Fino a quando non si giunse vicini al punto di rottura, del resto, l’Italia aveva assunto un atteggiamento neghittoso nei confronti delle condanne.

Le davano fastidio, ma non al punto di indurre una reazione.

Leggeva gli ammonimenti con il falso animo contrito del somaro rimproverato e colto a copiare, ma senza alcuna intenzione di rimediare con una disciplina meno deprecabile.

Ma oramai, al debutto del nuovo millennio, si era giunti al punto di rottura: per evitare d’essere sopraffatta dai ricorsi contro l’Italia la Corte avrebbe chiesto una più dura, risolutiva e generale condanna contro il nostro Paese, questa volta politica e non giudiziaria, talché non saremmo stati considerati degni d’appartenere al novero dei Paesi civili, saremmo stati fra i violatori cronici della Convenzione e, pertanto, i nostri cittadini avrebbero perso il diritto di ricorrere ad una Corte che non considerava più affidabile l’Italia.

Ipotesi, questa, di immensa gravità. Che non è affatto esclusa per il futuro.

Certo, la cosa più seria da farsi sarebbe stata mettere la giustizia nelle condizioni di funzionare, ma da noi esistono fantasie prodighe ed inesauribili, che s’industriano ad evitare di risolvere i problemi, cercando però di non pagarne lo scotto.

Questa volta è toccato all’avvocato Michele Pinto, senatore è già ministro dell’agricoltura (esatto, il ministero che doveva abolirsi) nel governo Prodi del 1996 – 1998, il quale ideò un machiavello straordinario:

il Paese che non riusciva a far funzionare la propria giustizia avrebbe demandato ai propri giudici il compito di punirlo.

Il ricorso alla Corte di Strasburgo, difatti, è possibile (salvo eccezioni) quando si sono esaurite tutte le vie per ottenere giustizia nel proprio Paese, ed allora il buon Pinto propose di inventare un nuovo livello di giudizio, che avrebbe allungato la broda dell’ingiustizia e, almeno in quel momento avrebbe evitato all’Italia l’umiliazione dell’espulsione, dato che tutti i procedimenti pendenti tornavano a casa, come il cane Lassie, per essere esaminati da giudici nostrani.

Contenta la Corte, che si tolse i fastidi, contento il governo di centro sinistra, che poteva sottrarsi all’incubo della condanna, ma scontenti i cittadini.

E scontente anche le Corti d’Appello che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, annettono alla legge Pinto la responsabilità di averne rallentanto il già lento lavoro.

La legge n. 89 del 2001, detta Pinto, approvata in fine di legislatura, inventò uno strumento che consente un’equa riparazione a “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione”.

In pratica, chiunque sia stato parte in un procedimento che ha avuto una durata non ragionevole può rivolgersi alla Corte d’Appello della circoscrizione vicina alla propria (per evitare che i giudici giudichino se stessi) per chiedere un’equa riparazione.

Secondo il Pinto e la Pinto, però, la Corte d’Appello avrebbe avuto l’obbligo di emettere una sentenza entro quattro mesi dall’introduzione dei ricorsi, e questo serviva, al momento dell’approvazione e della propaganda, a far credere che si fosse trovato il rimedio per far correre il bradipo come fosse una lepre.

Ma di rimedi non ce n’era neanche uno, e l’effetto di questa tragicomica previsione è stato che i cittadini che lamentano la lentezza eccessiva dei processi si devono sobbarcare un altro procedimento lento, con l’aggiunta del disturbo di doversi recare in una città diversa dalla propria.

Vero sadomasochismo giudiziario.

Inoltre, una volta concluso in un anno, un anno e mezzo quel che si sarebbe dovuto fare in quattro mesi, ed aggiungendo quel tempo alla decade inizialmente lamentata, il medesimo cittadino può andare ancora a Strasburgo a dire:

non solo hanno violato i miei diritti, ma mi hanno preso in giro facendomi perdere ulteriore tempo.

E, difatti, i ricorsi alla Corte sono ripresi a fioccare, così come le condanne che presto ci riporteranno al punto di rottura che Pinto riuscì a rimandare, senza nulla risolvere.

Eppure, e non mi stancherò mai di ripeterlo, nonostante i numeri rivelino un crescendo rossiniano, ancora una minoranza degli aventi diritto si decidono a chiedere dei risarcimenti. La tabella che segue1 serve a farsi un’idea sull’andamento di questi ricorsi:



Tutto questo ho voluto raccontarlo perché è pur vero che si tratta di un particolare, di un dettaglio che nel nostro ragionamento generale poteva anche omettersi, ma non è affatto irrilevante da un altro punto di vista:

lo scarso rispetto che il legislatore porta al cittadino.

E qui c’è poco da fare gli spiritosi. Ci sono persone e famiglie che si rovinano per far fronte a processi incivilmente lunghi, a conclusione dei quali l’assoluzione sembra una beffa, ed a queste vittime di uno Stato inefficiente e deficiente il legislatore ebbe l’ardire di proporre un nuovo ingresso negli stessi tribunali, un nuovo presentarsi davanti alla medesima casta togata, fidando che molti non avrebbero avuto il fegato, la voglia, di ricominciare.

Sperando che il cittadino non creda ai propri diritti, come spesso il legislatore non crede al diritto.

Parlo per esperienza personale: dopo tredici anni di procedimento ci vuole la rabbia dell’ingiustizia subita per trovare il coraggio di dovere rifotocopiare le carte, ricercare un avvocato, ripagarlo, per poi mettersi in fila in un tribunale dove nessuno ti rispetta, dove se dici che devono decidere in quattro mesi, come la legge stabilisce, ti ridono in faccia, dove nessuno sarà mai punito per avere violato anche questa legge.

Io ho ottenuto il risarcimento, benché non abbia nulla di equo, ma ho anche moltiplicato il disagio di vivere in un Paese che con quel meccanismo esclude dal diritto i più deboli economicamente, culturalmente e caratterialmente.

Quella di cui qui si parla, dunque, non è una battaglia utile ad uno schieramento anziché ad un altro, è una guerra per la civiltà, contro l’arroganza dell’ignoranza legislativa.


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martedì 5 agosto 2008

"L’onda alta e melmosa dell’inciviltà giuridica"

Ho tratto il titolo di questo post dall' ultima frase di questa seconda (ed ultima) parte del quinto capitolo del libro di Giacalone.

Credo superfluo ogni ulteriore commento da parte mia.

Leggete ed inorridite.

(Questo capitolo, come i precedenti, è denso di note che supportano le informazioni fornite dall' autore. Per brevità - e problemi di editing - le ho omesse ma potrete trovarle nel testo originale di cui ho fornito, qui sopra, il link).


La durata ragionevole di un procedimento giudiziario influisce direttamente sulla credibilità e efficacia della giustizia.

Se la durata non è ragionevole la giustizia viene di fatto negata.

Il primo problema che si pone è quello di misurare questa durata: da dove si inizia e dove si finisce?

In campo civile il tempo decorre dal momento in cui il caso viene portato all’attenzione dell’autorità giudiziaria, nel caso vi sia un problema di attribuzione della competenza la Corte fa iniziare la procedura dal momento in cui una qualche autorità giudiziaria è stata posta a conoscenza del caso, non importa se poi si è dimostrata incompetente.

In campo penale, invece, il tempo non decorre da quando il Tribunale è stato investito del caso, ma dal momento in cui il cittadino ha saputo di essere indagato e posto sotto accusa;

nel caso italiano, se non vi sono ragioni per considerare l’indagine antecedente, il tempo decorre dal momento in cui si riceve l’avviso di garanzia.

Il termine finale, invece, è individuato nel momento in cui la causa si conclude, quindi, se vi è stato ricorso, con la sentenza della Corte di Cassazione.

Il che vale anche nel caso in cui la Cassazione rigetti il ricorso. La giurisprudenza della Corte non ha fissato in maniera perentoria, quindi con l’indicazione di un periodo temporale, la ragionevole durata di un procedimento, preferendo regolarsi caso per caso.

Tre sono i parametri che vengono presi in considerazione:

la complessità del caso;
il comportamento del ricorrente;
il comportamento delle autorità nazionali, con particolare riferimento, naturalmente, a quelle giudiziarie.

È nel caso di negligenza di queste ultime che la Corte non esita a emettere delle condanne.

Procedere caso per caso consente alla Corte di fissare “tempi ragionevoli” anche assai brevi.

Ciò accade quando si tratta di procedimento in cui

l’accusato è detenuto (in Italia molti casi, anche noti, di processi con detenuti si prolungano irragionevolmente per anni);
quando sono coinvolti cittadini portatori di handicap;
e specialmente quando si tratta di procedimenti che vedono coinvolti gli interessi di cittadini malati di aids.

Sono casi in cui, intuitivamente, non agire con immediatezza significa elargire ingiustizia.

Innanzi a queste denunce l’Italia si difende con una specie di ritornello: i procedimenti sono lunghi perché la nostra giustizia è intasata da troppe cause arretrate.

Chissà quando gli avvocati dello Stato capiranno che questa non è una tesi difensiva, bensì un elemento di accusa.

Difatti, spetta allo Stato organizzare la giustizia in modo tale che non vi siano ingorghi, arretrati e ritardi, è compito dello Stato assicurare tempi rapidi e, quindi, ragionevoli.

Se lo Stato non riesce a fare questo allora merita di essere condannato, cosa che puntualmente avviene.

Nella valutazione del tempo ragionevole, da parte della Corte, entra anche il dettato legislativo che regola la giustizia in ciascuno Stato.

Da noi, ad esempio, vi sono una serie infinita di termini che la legge prevede e che nessuno rispetta (la fantasia azzeccagarbugliesca ha inventato i termini “ordinatori” e quelli “perentori”: i secondi sono quelli che devono essere rispettati, i primi sono lì solo per bellezza).

Un Tribunale ha dei tempi fissati per depositare le motivazioni di una sentenza di primo grado, ed a partire da quel deposito decorrono i tempi che le parti hanno a disposizione per presentare appello; se, però, un Tribunale ci mette un paio d’anni per depositare le motivazioni di una sentenza di due anni prima ecco che l’intero procedimento si allunga di due anni, in maniera irragionevole ed ingiustificata.

Dalla fine delle indagini preliminari il pm ha tempi fissati per chiedere il rinvio a giudizio degli indagati, ma se ci mette anni per farlo .... eccetera, eccetera.

In tutti questi casi, che in Italia sono milioni, e che nel campo della giustizia civile sono un numero semplicemente impressionante, se solo i cittadini fossero coscienti del loro diritto ad una sentenza (non importa se a loro favorevole o sfavorevole, non importa avere ragione, perché in ogni caso si ha quel diritto), l’Italia sarebbe mille volte di più seduta, a Strasburgo, sul banco degli accusati.

E quei cittadini potrebbero contare su un risarcimento di almeno parte del danno che subiscono per denegata giustizia.

Se solo ne fossero consapevoli.

Si è detto prima che la Corte non ha ritenuto di indicare un termine fisso del “tempo ragionevole”, ed abbiamo visto il perché. Detto questo, però, la giurisprudenza ci autorizza a sbilanciarci ed a dire che, solitamente, è giudicato comunque irragionevole un tempo processuale che supera i quattro anni.

Faccio fatica a ricordare procedimenti italiani che durano di meno e, comunque, il ministro Mastella ha indicato al Parlamento come obiettivo da raggiungere quello di processi penali che durino in media cinque anni.

Quindi, se Mastella avrà pieno successo resteremo un Paese incivile.

Ma Mastella se ne andrà assai prima, ed il successore ricomincerà da capo, così come anche il successore del successore.

Un ultimo, importantissimo particolare. Come vedremo quando ci occuperemo della procedura per ricorre alla Corte Europea, i ricorsi possono essere presentati una volta che il procedimento si sia concluso secondo le procedure previste dalle leggi nazionali: quando il processo è finito, insomma, in tutti i suoi gradi di giudizio.

Questo principio ha un’eccezione: quello dei ricorsi per irragionevolezza dei tempi processuali.

In questo caso il ricorso può essere presentato anche quando la causa è ancora pendente.

Prima non era così, ma la Corte è giunta a questa determinazione per una ragione elementare: negando la giustizia, negando l’accesso al Tribunale, prolungando in eterno i tempi processuali uno Stato si tutela, in eterno, dai ricorsi dei cittadini che si ritengono danneggiati.

A ingiustizia, insomma, si sommerebbe ingiustizia.

Il diritto ad un processo equo e ragionevole, secondo la Corte, ha valore non dal momento in cui inizia il processo, ma da quello in cui iniziano le indagini, ciò perché “l’inosservanza iniziale rischia di compromettere il carattere equo del processo”.

Anche questo è un principio importantissimo, che assume una valenza dirompente in Italia, se solo si pone mente a quello cui si accennava a proposito del ruolo e dei comportamenti dei giudici per le indagini preliminari.

Non ci si dimentichi, inoltre, che secondo la legge italiana (articolo 358 del codice di procedura penale) “il pubblico ministero compie ogni attività necessaria (...) e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini”.

Questa legge dello Stato non solo rimane costantemente come mai scritta, ma è stata anche pubblicamente svillaneggiata da un pubblico ministero (Antonio Di Pietro, poi parlamentare eletto dalla sinistra e ministro in due governi con quella maggioranza).

La totale assenza di parità fra le parti nel corso delle indagini preliminari fa sì che molti elementi a favore dell’indagato vengano costantemente occultati, quando non distrutti (secondo un modo di procedere che porterebbe l’indagato in carcere con l’accusa di inquinamento delle prove).

Se ne è avuta pubblica e clamorosa dimostrazione nell’Italia del 1998, quando, dopo due anni di indagini, si è giunti solo casualmente, nel corso del processo, a conoscenza dell’esistenza di una videocassetta che mostrava l’assoluta contraddittorietà di un teste che l’accusa aveva presentato come decisivo e che mostrava anche le pressioni fortissime che il pm esercitava su quel teste, incredibilmente minacciandolo di incriminazione per omicidio (ci si riferisce al processo per l’uccisione di Marta Russo, all’Università di Roma, ed il video mostrava la pietosa condizione della signora Gabriella Alletto, teste decisivo dell’accusa).

In quel caso è apparso evidentissimo quanto giusta sia l’affermazione della Corte Europea: se non è equa la gestione delle indagini non sarà equo il processo.

Non risulta, però, che siano stati presi provvedimenti nei confronti di chi operò in quel modo.

Affinché sia garantita l’equità fin dalle indagini preliminari devono essere affermati due diritti:

quello alla presunzione d’innocenza e
quello a non rispondere alle domande del pubblico ministero.

Diritti di cui ci siamo già occupati, purtroppo per verificarne il non rispetto sul nostro territorio nazionale.

La violazione di quei diritti, la tortura del tintinnar di manette, oltre tutto, non ha neanche la (peraltro insufficiente) attenuante di mirare all’ottenimento di una verità: quei sistemi vengono utilizzati al fine di ottenere gli elementi che l’accusa giudica coerenti con le proprie tesi, quindi, in molti casi, finiscono con il propiziare una menzogna, annegano la verità nella bugia, privilegiano la convenienza immediata a danno di un comportamento responsabile.

È bene dirle, queste cose, perché c’è in giro troppa gente che dice di “guardare alla sostanza”.

Ecco: la negazione delle regole, il dileggio del loro rispetto porta, nella sostanza, al trionfo della bugia, dell’ingiustizia.

Tutto il contrario di quel che si vuol far credere.

Ovvio che un imputato ha diritto di difendersi. Ovvio, no? be’, non del tutto, perché, dice la Corte Europea, tale diritto deve essere concreto ed effettivo, e non sempre, nella realtà, le cose stanno così.

Perché ci si possa difendere, in modo concreto ed effettivo, bisogna, prima di tutto, che l’accusa sia chiara e dettagliata.

Non si può essere accusati di avere rubato, se non si viene informati di dove, quando e cosa si sarebbe rubato.

Non si può essere accusati di avere corrotto se non essendo informati di chi, quando, come e perché si sia corrotto.

Le accuse apodittiche e non particolareggiate, invece, sono all’ordine del giorno del nostro malcostume giudiziario.

Come faccio a difendermi se non mi dite con dettagliata precisione di cosa mi accusate?

Questo vale ancora prima che l’accusa sia dimostrata, cioè provata.

La prova esiste solo al dibattimento, quando il pubblico ministero documenta il perché mi ritiene colpevole; mentre l’accusa deve essere chiara fin dal primo istante, fin dalle prime indagini preliminari, altrimenti viene messo in discussione il mio diritto a difendermi.

Cosa che avviene più frequentemente di quanto si sia autorizzati a sospettare e temere. La difesa è concreta ed effettiva, inoltre, quando l’accusato ha la possibilità di far ascoltare i testimoni a difesa nelle stesse condizioni in cui vengono ascoltati i testimoni d’accusa, e quando, naturalmente, ha la possibilità di interrogare a sua volta (direttamente o tramite i difensori) chi lo accusa.

Questo principio viene violato un’infinità di volte.

Viene violato in tutte le fasi che precedono l’accesso al Tribunale e durante le indagini preliminari.

Un detenuto in custodia cautelare, ad esempio, ricorre al Tribunale della Libertà perché ritiene del tutto ingiuste le accuse che gli vengono mosse: qui giunge davanti a tre giudici i quali ascoltano le tesi dell’accusa, innanzi ai quali vengono depositati i verbali d’interrogatorio di signori che l’accusato non ha mai avuto modo di controinterrogare e che nessuno si sogna di convocare.

Così il detenuto (che deve ancora essere considerato innocente) lotta contro le carte scritte da chi lui non vede.

Ciò toglie molto alla sostanza del diritto alla difesa.

Di più: il detenuto, in quelle condizioni, chiede al pubblico ministero di essere messo a confronto con chi lo accusa.

Questa richiesta, però, deve trovare accoglimento da parte del pm, il quale può anche infischiarsene e non organizzare il confronto.

Come fa quel cittadino, in quelle condizioni, a difendersi?

Ma in Italia si è scesi ancora più in basso: si è creato un meccanismo per cui i testimoni d’accusa possono anche rifiutarsi di andare in Tribunale a ripetere le loro accuse, in questo caso il pm prende i verbali dell’interrogatorio reso senza la presenza dell’imputato e dei suoi avvocati, senza che questi possano controinterrogare, e li legge in Aula.

Ciò viola tutto intero il diritto alla difesa che la CEDU tutela, e fa del nostro Paese di questi anni un Paese fuori legge.

Nessuno, difatti, potrebbe mai essere condannato se la causa non è stata pubblicamente discussa davanti ad un Tribunale, nel corso di un processo in cui l’esame incrociato dei testimoni possa far emergere le prove.

Ma come si fa a esaminare un testimone che non si presenta? come si fa a dimostrare l’inaffidabilità di una persona che non c’è?

Nei sistemi in cui il processo accusatorio funziona (e fra questi non possiamo certo mettere l’Italia) il solo fatto che un testimone non si presenti al dibattimento, o non risponda, toglie qualsiasi valore alle cose che può avere detto al pm, che non è un giudice, bensì una parte.

Quando il Parlamento italiano ha tentato di porre rimedio a questo abominio, votando la riforma dell’articolo 513 del codice di procedura penale, da molte parti si è gridato allo scandalo: così si affossano i processi, si è sostenuto.

Ma su cosa mai erano fondati quei processi, se bastava chiedere che le accuse fossero ripetute in Tribunale per affossarli?

Anni bui e tristi, in cui anche l’ovvio, anche il banale buon senso, hanno dovuto cedere il passo all’onda alta e melmosa dell’inciviltà giuridica.


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lunedì 4 agosto 2008

I giovani stanno abbandonando la sinistra

Questa è la tesi che sostiene oggi Ilvo Damianti, su Repubblica, analizzando i flussi elettorali da Tangentopoli in poi e sondaggi recenti.

Mi auguro che abbia ragione, anche se i giovani, in Italia, sono meno numerosi dei vecchi e, quindi, questo supposto abbandono non è, a breve, determinante.

Il fatto è - secondo me - che, in Italia, di sinistra ce n' è sempre troppa, non in termini quantitativi ma qualitativi.

Finchè l' intellighenzia (professori universitari e non, giornalisti, scrittori) continuerà ad essere monopolio della sinistra, la destra - sia pure maggioritaria in termini numerici - rimarrà in soggezione e continuerà a fare la fronda contro i suoi stessi leaders, Tremonti, Bossi, Berlusconi.

Non so quanto ci sia di vero, nella vulgata dei giornali di questi giorni, che i ministri stiano litigando con Tremonti per il rigore che vuole imporre al bilancio dello Stato ma, se è così, allora vuol dire che la sinistra sta continuando a condizionare la destra .....

Pare, insomma, che la destra al e di governo non si sia ancora resa conto che i nodi di 40 anni di mal governo democristiano-marxista stanno venendo al pettine tutti insieme e che non esiste altra ricetta che tagliare indiscriminatamente le spese.

Il che, in soldoni, vuol dire che la spesa per lo stato sociale DEVE essere ridotta, in questo paese, volenti o nolenti.

D' altra parte chiunque sia dotato di un minimo di buon senso, sa benissimo che il nostro caritatevole stato sociale viene finanziato, da decenni e decenni, ricorrendo al debito pubblico.

Se Governo e maggioranza credono di poter risanare la situazione fallimentare di questo Stato continuando a godere del favore popolare, bè, lasciatemi dire che non hanno capito la drammaticità della situazione.

Che non la capisca la sinistra direi che è naturale (vista la loro "antipatia" per la realtà dei fatti) ma che non la capisca la destra al governo fa venire i brividi ...

La destra non può lasciare Tremonti da solo, in questo frangente, e deve trovare il coraggio morale e civile, direi persino patriottico, di dire a voce alta che ci aspettano anni "di lacrime e sangue", pena il fallimento definitivo dello Stato.

Insomma, dobbiamo PER FORZA smettere di vivere al di sopra dei nostri mezzi ed è bene che questo venga detto chiaramente da chi ha la responsabilità di governarci.

Ad un Bersani che afferma che le entrate dell' IVA sono diminuite del 7% perchè il governo di destra sta favorendo il ritorno dell' evasione fiscale, va risposto prima con una pernacchia di italica espressività ma, poi, con un discorso chiaro e limpido, cioè dicendo agli italiani la verità sul reale stato della Nazione.


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Cossiga sui processi per la strage di Bologna

La lettura del libro di Giacalone rende molto più comprensibile questa intervista rilasciata da Francesco Cossiga, oggi, su il Resto del Carlino.

Se Giacalone non ci avesse illuminato sulla tempra morale e professionale dei magistrati italiani, infatti, avremmo potuto prendere le parole del Presidente Emerito come farneticazioni di un ottantenne invecchiato male.

E invece ....




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domenica 3 agosto 2008

In Italia un processo è SEMPRE e COMUNQUE ingiusto.

"Diritto al processo" è il titolo del quinto capitolo del libro di Giacalone.

Dopo aver indicato le nefandezze, le storture, del nostro sistema giudiziario , in questo capitolo si affronta un tema, a mio avviso ancora più drammatico:

quand' anche il magistrato italiano fosse personalmente integerrimo nei suoi comportamenti e preparatissimo nella sua dottrina giuridica, produrrebbe comunque una giustizia ingiusta!

Perchè? Perchè ingiusto è TUTTO il nostro sistema giuridico.

Se vogliamo, dunque, questo capitolo è molto più drammatico dei precedenti (il che è davvero "tutto dire") ....

Mentre lo leggerete, non dimenticatevi di fare, nella vostra mente, riferimento agli infiniti casi concreti che la cronaca ci ha regalato in tutti questi anni, dal caso Tortora al caso Franzoni, per non parlare degli innumerevoli casi Berlusconi .....




I diritti dell’uomo sono connessi uno all’altro in maniera inscindibile, così è evidente che il diritto a essere considerati innocenti perderebbe qualsiasi valore se non si accompagnasse al diritto di potere avere un processo giusto, equo.

L’articolo 6 della CEDU garantisce l’equità del processo, e quel testo è stato di recente riprodotto all’interno della nostra Costituzione.

Tutto quello che, nella realtà, contrasta con il dettato di questo articolo può essere fatto oggetto di denuncia alla Corte Europea.

La giurisprudenza della Corte, inoltre, si è incaricata di specificare che tale diritto deve essere garantito per ogni obbligo o diritto di tipo civile, così come di tipo penale.

Insomma, vale in ogni caso in cui il cittadino si trova a dovere affrontare il giudizio di un’autorità pubblica a ciò preposta.

Al diritto ad un equo processo la Corte assegna un ruolo centrale, in quanto consacra il principio della preminenza del diritto in una società democratica, e presiede a una buona amministrazione della giustizia.

Perché possa esservi un processo equo bisogna che ci sia, prima di tutto, un processo, bisogna, cioè, che sia garantito il diritto di accedere a un Tribunale.

L’accesso al Tribunale deve essere concreto ed effettivo, e sono illegittimi tutti gli ostacoli di carattere giuridico.

Ricordiamo, ad esempio che solo di recente la Corte Costituzionale italiana ha riconosciuto il diritto dei detenuti di rivolgersi a un Tribunale.

Se qualcuno, prima, avesse per questo motivo denunciato l’Italia alla Corte Europea ne avrebbe ottenuto la condanna.

Sono altrettanto illegittimi tutti gli ostacoli di fatto.

In Italia non solo i processi durano troppo a lungo (i numeri di questa bancarotta li abbiamo già visti), ma assai spesso sono interminabili i tempi che dividono l’inizio di un’indagine dall’avvio di un processo; e capita che in questi tempi lunghissimi vengano più volte cambiati i capi d’imputazione, così come capita che cambi la giurisdizione (per competenza territoriale o per competenza di materia).

Ciò porta i cittadini accusati a trovarsi in una situazione nella quale, di fatto, viene loro negato il diritto ad accedere ad un Tribunale.

Un altro “vizio” della magistratura inquirente è quello di avviare indagini dalle fondamenta alquanto traballanti, facendolo con gran clamore di stampa e, conseguentemente, con gran danno degli accusati.

Il tutto, poi, viene messo a dormire per anni, fino a quando non soggiunge la prescrizione.

A quel punto si versa qualche lacrimuccia, si lascia intendere che l’istituto della prescrizione è una sorta di eccesso di benevolenza verso i criminali (e non è così, la prescrizione è un istituto civile che serve ad evitare che ci si accanisca per anni contro persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza), e si provvede a mettere una pietra sopra il tutto.

Vero è che l’imputato ha diritto di rinunciare alla prescrizione e di chiedere che il processo si tenga e si concluda, ma vero è anche che mentre i pubblici ministeri lavorano a spese della collettività gli avvocati di parte lavorano a spese dell’imputato, il quale, a quel punto, li paga già da una decina di anni.

Si comprende, quindi, perché molti, pur protestandosi innocenti, piantino in asso ogni ipotesi di continuare a difendersi da chi non può più attaccare.

Questo meccanismo, però, agisce come ostacolo di fatto ad accedere a un Tribunale e, pertanto, può essere fatto oggetto di denuncia alla Corte Europea.

Non può esistere processo giusto se le due parti non combattono ad armi pari, laddove ciò non fosse sarebbe compromesso il diritto ad avere giustizia.

La Corte si è dimostrata attentissima a questo punto, facendone più volte oggetto di approfondimenti sia per quel che riguarda i casi specifici, sia per quel che riguarda i giudizi sull’insieme della procedura che viene seguita.

L’uguaglianza delle armi “implica l’obbligo di offrire a ciascuna parte una ragionevole possibilità di presentare le proprie ragioni ... in condizioni che non la collochino in una situazione di svantaggio nei confronti dell’avversario”.

Lo svantaggio si realizza, ad esempio, quando l’amministrazione fiscale pretende dei pagamenti motivandoli in maniera generica e sommaria (e nessuno si è preso la briga di portare all’attenzione della Corte le nostrane “cartelle pazze”).

Ma ciò avviene anche quando il pubblico ministero riversa nel fascicolo processuale montagne di carte sostanzialmente inutili e ripetitive, accatastate da diecine di suoi collaboratori, mettendo così in crisi una difesa che non dispone degli stessi mezzi e che paga i collaboratori (e le fotocopie) di tasca propria.

Combattere ad armi pari significa anche stabilire con certezza la durata delle indagini ed assegnare alla difesa gli stessi diritti che ha l’accusa.

In Italia questo è vero solo su un terreno del tutto astratto e teorico, nella pratica, invece, se l’accusato si permette di avviare indagini che possano portare ad elementi utili per la difesa viene immediatamente accusato di volere inquinare le prove, con il rischio di vedere scattare provvedimenti di custodia cautelare.

Se la procura paga un folto gruppo di collaboratori di giustizia (alias pentiti), che si contraddicono fra di loro e nel tempo, tutto bene; se la difesa contatta un pentito, invece, rischia accuse pesantissime.

Se la procura arruola un testimone di comodo, che è stato indotto a dire cose non del tutto vere (quando non del tutto false), potrà offrire a costui l’impunità, magari coimputandolo di reato connesso (cosa del tutto diversa è il sistema americano, dove non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e dove l’impunità viene offerta solo a chi dice, subito, tutta la verità, senza rateizzazioni ed improvvisi, oltre che improbabili, ritorni o vuoti di memoria).

La difesa non ha questa possibilità.

Anche per questo (oltre che per una oggettiva impreparazione del mondo forense, degli avvocati), quindi, in Italia è impossibile assistere a processi “all’americana”: le indagini può svolgerle solo il pm.

Il che compromette la parità delle parti.

Non esiste, infine, parità delle parti se non in presenza di un Tribunale indipendente.

Anche su questo la Corte Europea si è dimostrata molto attenta: il giudice deve essere terzo e terso.

Deve essere assicurata la totale indipendenza del giudice tanto dal potere esecutivo quanto dalle parti. Così come deve essere protetto da ogni forma di pressione esterna.

Nel febbraio del 1999 una sentenza della Corte di Cassazione, in Italia, è stata al centro di una violentissima polemica. La sentenza si riferiva a un caso di stupro (nel merito del quale qui non entriamo affatto), e la polemica si è incentrata sulla valutazione di un elemento di prova (vale a dire il fatto che la presunta vittima portava dei jeans molto aderenti).

Si è levato un coro di dissenso durissimo, che ha raccolto le voci di molti parlamentari e molti esponenti di governo, a partire dal presidente del medesimo. Si è accusata la sentenza di medioevalismo, di maschilismo, di cecità e così via argomentando.

Si tenga presente che la Cassazione aveva, in quel caso, disposto il riesame della sentenza da parte di un nuovo Tribunale di secondo grado e non aveva affatto sostenuto che i jeans attillati giustificavano la violenza, ma avevano notato che la sentenza di secondo grado non aveva compreso che se la presunta vittima non se li fosse tolti la violenza avrebbe incontrato qualche ostacolo tecnico.

Ecco, chi potrà credere che quel Tribunale di riesame, dopo tanto clamore, agirà libero da condizionamenti esterni?

L’indipendenza del giudice, afferma la Corte Europea, deve essere oggettiva e soggettiva, il giudice non solo deve essere, ma deve anche apparire indipendente nel suo giudizio.

Ci si deve domandare “se, indipendentemente dalla condotta personale del giudice, certi fatti verificabili autorizzano a sospettare dell’indipendenza di quest’ultimo”; ed in tal senso anche le apparenze possono avere un ruolo importante.

Anche le apparenze contano .... ma in Italia siamo giunti ben oltre le apparenze.

Intanto siamo l’unico Paese civile di questo mondo in cui i pubblici ministeri ed i giudici sono dei “colleghi”: vengono dallo stesso concorso, vivono nello stesso palazzo, possono periodicamente scambiarsi di posto.

È mai possibile l’indipendenza, in queste condizioni?

Anche l’occhio, come si dice, vuole la sua parte: prima delle udienze e durante le pause si vedono giudici e pm che si salutano, si parlano, scherzano, fumano, vanno a prendere un caffè.

Come faccio a credere che siano indipendenti gli uni dagli altri?

Ci sono giudici che hanno già fatto domanda per andare a lavorare in procura e, nel frattempo, giudicano le cause portate da quella medesima procura.

Come faccio a credere che siano del tutto sereni ed indipendenti?

Si dirà: non drammatizziamo, sono pur sempre persone che lavorano, ogni giorno, nello stesso ambiente, che male c’è se si conoscono?

Difatti, non vedo nulla di male nel fatto che il pm e l’avvocato vadano a prendere un caffè assieme, prima di affrontarsi, da avversari, in aula; mentre trovo abominevole che l’uno o l’altro ci vadano con il giudice.

Il giudice dovrebbe essere, per le parti, inavvicinabile anche nella sua vita privata, figuriamoci nell’anticamera dell’aula di giustizia.

Invece basta mettere piede nei Tribunali per trovare comitive di compagni di merende. Ma non basta.

È capitato che una ripresa televisiva abbia colto il giudice mentre spiegava al pubblico ministero la propria tattica “del bastone e della carota” nei confronti della difesa.

Voi penserete, miei beati ed ingenui lettori, che quel giudice abbia passato dei guai, che sia stata compromessa la sua carriera. Invece no, non è stato neanche rimosso dalla funzione, ha solo ritenuto, bontà sua, di astenersi da quel particolare giudizio (e solo perché scoperto).

Sono agli atti della storia i bigliettini che si scambiavano un pubblico ministero ed un Giudice delle Indagini Preliminari (gip) in cui il secondo consigliava al primo, affettuosamente chiamandolo per nome e da questo ricambiato, come meglio incastrare l’indagato.

Peccato che a giudicare l’operato del pm è poi stato il suo suggeritore.

E se quello fu un caso portato alla notorietà (ma, non illudetevi, non successe nulla, o, meglio, successe solo all’indagato), vi sono migliaia di provvedimenti presi dai gip che sono copiati di sana pianta, errori di ortografia compresi, dagli atti trasmessi dai pm.

Altro che apparenze! Non basta ancora. Essendo colleghi, i giudici ed i pm, eleggono i loro rappresentati nel medesimo parlamentino sindacale come nel medesimo Consiglio Superiore della Magistratura, naturalmente entrambi divisi per correnti, naturalmente politicizzate.

Si eleggono fra di loro.

Per cui abbiamo assistito a campagne elettorali di gip sponsorizzate da pm. Voi pensate che, in quella situazione, il gip potesse essere indipendente dal pm? pensate che potesse dirgli: grazie per l’appoggio elettorale fuori dall’orario di lavoro, ma per quel che riguarda le carte che lei mi ha mandato (“tu” agli amici, “lei” alle parti, regola che non esiste) sappia che sono colme di castronerie?

Fate bene a dubitarne, perché le cose andavano e vanno all’opposto.

Tutto questo è condannabile e condannato, sol che le vittime si rivolgano a un Tribunale indipendente: la Corte Europa dei Diritti dell’Uomo.

Tutelando il principio dell’indipendenza la Corte ha anche interdetto la possibilità che un medesimo magistrato si trovi a ricoprire, nel tempo, diversi ruoli giurisdizionali a proposito di un stessa vicenda giudiziaria.

Insomma, si può essere solo pm, o solo gip, o solo giudici ed in un solo grado di giudizio. Il resto è proibito.

È proibito laddove si tengano in conto i diritti umani ed i principi del diritto, è capitato e capita, invece, in Italia.

Per questi motivi, purtroppo, da noi i giudici spesso non sono né terzi né tersi.

Questa, però, non è una fatalità cui rassegnarsi è una realtà da combattere. Con le armi del diritto e della politica.

E veniamo a una nota dolentissima, che procura all’Italia, presso la Corte Europea, un numero considerevole di condanne. Numero considerevole, però, che è solo un’infinitesima parte di quel che dovrebbe essere: basterebbe solo che i cittadini fossero consapevoli dei loro diritti e le denunce aumenterebbero in maniera esponenziale, con conseguente aumento delle condanne.

La durata ragionevole di un procedimento giudiziario influisce direttamente sulla credibilità e efficacia della giustizia.

Se la durata non è ragionevole la giustizia viene di fatto negata.

( … segue alla prossima puntata).


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