mercoledì 30 luglio 2008

Tutta la verità sulle bugie degli ex-comunisti

E' davvero gratificante, per me, trovare, condensato in un solo articolo di giornale, tutto quello che ho cercato di dire, in questi mesi e su questo blog, a proposito della inaffidabilità della sinistra, sia quando sta al governo che quando sta all' opposizione, sia nel passato che nel presente, insomma: SEMPRE.

Questo "miracoloso" articolo è comparso, sotto forma di editoriale a firma Panebianco, sul Corriere della Sera di domenica scorsa.

Consiglio la lettura a tutti quelli che, come i miei amici Andrea e Nico, ancora si chiedono, affranti e/o incazzati, come possano essere tanto bugiardi gli ex comunisti.

Panebianco lo spiega dettagliatamente e con maggiore chiarezza di quanto sia mai riuscito a fare io.

Buona lettura.

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Quando i PM commettono, impuniti, un reato

Nella seconda parte del terzo capitolo del libro di Giacalone si parla della violazione del segreto istruttorio, reato che sta alla base del connubio mostruoso fra giornalisti e Pubblici Ministeri e si inizia ad affrontare, poi, il tema della differenza sostanziale che esiste fra il dovere che i processi si svolgano in pubblico e l' abuso perpetrato dai giornalisti che li trasformano in spettacolo.

Lo svolgimento di quest' ultimo tema lo troverete nel prossimo post.

Intanto cercate di riflettere attentamente sul primo tema: la violazione del segreto istruttorio, quello che stigmatizzava persino il boss mafioso Buscetta (!!!) e che invece viene difeso a spada tratta dai vari Travaglio, Di Pietro, Violante e compagnucci forcaioli vari.

I principali responsabili di questo reato sono i PM, ovviamente, anche quando non ne siano direttamente colpevoli, nel senso che non vigilano affinchè questo reato non sia commesso.

Sapere che è un Magistrato a commettere IMPUNEMENTE un reato (o a non impedire che venga commesso) basterebbe, a mio avviso, a fugare ogni dubbio sulla necessità di riformare profondamente il sistema giudiziario italiano.

Purtroppo così non è e non lo è perchè il nostro è sempre stato e continua ad essere un popolo profondamente disinteressato alle libertà individuali, che non siano quelle di violare impunemente leggi e regolamenti.

Purchè ci lascino gettare in strada i nostri rifiuti, non rispettare la segnaletica stradale, percepire stipendi lavorando il meno possibile, evadere le tasse appena se ne offra l' occasione, noi siamo disposti a farci governare da un dittatore da operetta per venti lunghi anni o, persino, da governi democratici catto-marxisti, cioè incapaci ed imbelli, per decenni e decenni.

E siamo pure disposti, se incappiamo nelle maglie della giustizia, a farci massacrare da una casta di intoccabili mandarini, tanto si tratta di una evenienza remota persino per i delinquenti abituali .....

Angelo Guglielmi (allora direttore di Rai3, la rete delle trasmissioni verità, delle piazze e dei processi) ed Umberto Eco si sono pubblicamente chiesti quanto, in quello che trasmette la televisione, è realtà e quanto è artificio retorico.

Si sono risposti: rispettivamente il 10 ed il 90 per cento.

Sulla base di questo dosaggio si linciano le persone.

Altro che ossequio alla notizia, altro che dovere professionale, così si evoca solamente il desiderio delle masse di assistere ad esecuzioni capitali, così si sollecitano gli aspetti più bui dell’animo umano.

Per capire questi meccanismi, per capirli fino in fondo, fino al punto in cui, grazie al cielo, ancora non siamo arrivati, occorre andare a rileggere gli atti dei processi alle streghe, che si concludevano con un rogo che serviva, ad un tempo, a salvare l’umanità dal maligno ed a dare, caritatevole idea, possibilità di salvezza all’anima della strega.

Che disastro non avere più fra noi Leonardo Sciascia! Solo una penna come la sua avrebbe potuto chiarire questo intrico di sentimenti, di desideri e di paure.

Questo spettacolo con “cadaveri, drammi e storie morbose”, ha detto Dan Rather, il più famoso conduttore dei notiziari della CBS, negli Stati Uniti, fa sì che “i nostri telegiornali sono finiti ad Hollywood”.

Ma senza finzione scenica, e con la pretesa di essere presi sul serio.

E per riuscire a tenere il pubblico incollato allo schermo, questo spettacolo della realtà, deve continuamente alimentare un clima di guerra. Così, dalla guerra del golfo alle trasmissioni che propongono le liti familiari, tutto deve procedere con il ritmo serrato di un’attacco all’arma bianca.

Il che comporta che non necessariamente si trasmettono falsità, ma che anche le verità vengono trasmesse in un contesto falsato.

Poi ci si meraviglia se capita, com’è capitato, che una giovane ragazza manca da casa una notte per consumare una scappatella sentimentale, torna a casa e racconta una bugia pietosa: mi hanno rapito.

E si ritrova, la sventurata, incredibilmente, sulle prime pagine di giornali e telegiornali, quel giorno a secco di notizie.

Prima come rapita, poi come bugiarda, infine come puttana.

In un crescendo parossistico e folle, in cui una normalissima storia di scappatelle diventa una notizia da dare in pasto alla nazione. Il tutto esercitando su quella ragazza una violenza incredibile, rispetto alla quale sarebbe stato meglio che l’avessero rapita sul serio.

Com’è possibile che tutti siano caduti in questo abbaglio, com’è possibile che di quella ragazza abbiano parlato tutti i giornali?

Semplice, perché i giornali sono succubi volontari della televisione.

Sui giornali della mattina non trovate il racconto della giornata precedente, più i commenti, no, trovate i commenti su quello che ha trasmesso la televisione il giorno prima, più un breve riassunto per chi abbia perso quelle trasmissioni.

Quando qualche editore di giornali si lamenta per il ruolo preponderante della televisione nel mercato pubblicitario e, più in generale, nel mercato dell’informazione, penso sempre: provate a non portare i vostri cervelli all’ammasso, e vedrete che qualcuno si accorgerà anche della vostra esistenza.

Inutile dire che, in un sistema di questo tipo, cercare di far passare una qualche smentita delle notizie false è più un atto di guerriglia che l’esercizio di un diritto (che la legge riconosce, ma di cui nessuno si cura).

Querelare per diffamazione, poi, è il massimo del ridicolo:

ti danno ragione, se ti danno ragione, se non ti vengono a dire che il clima era tale da rendere meno gravi gli insulti, anni dopo, con il risultato di allargare anziché sanare la piaga.

Eppure si deve fare lo sforzo di non lasciarsi andare a questo modo di interpretare la professione, ed ai giornalisti vorrei chiedere: ma voi siete proprio sicuri che la deontologia professionale non debba subire una qualche rimeditazione alla luce della trasformazione subita dai mezzi di comunicazione?

Già, perché quando si stampava un solo Gazzettino era eroico dovere del giornalista dire sempre e comunque la verità, riportare la notizia, fare i nomi ed i cognomi di persone che, se lo avessero voluto, se fosero state nelle condizioni di farlo, il giorno dopo avrebbero potuto rispondere, difendersi, accusare a loro volta.

Ma oggi capita che chi è finito in un’inchiesta, o è stato protagonista di vicende giudiziarie, ha dovuto sentire il proprio nome ripetuto cento volte al giorno, da diecine di telegiornali e giornali radio, e lo ha dovuto leggere centinaia di volte al giorno, su quotidiani, settimanali e fogli di varia natura.

Siete proprio sicuri che questo non cambi le regole del giuoco?

E se, una volta, il controllo sulla fondatezza e la veridicità di una notizia era un dovere verso il lettore, oggi lo è diventato, ancora di più, verso i soggetti dei quali si scrive.

Ad essi si possono arrecare danni che poi è ben difficile riparare e ripagare.

I giornalisti fanno bene a difendere la loro libertà d’azione, il loro diritto di scrivere a proposito di tutte le notizie di cui vengono in possesso. Ma devono farlo sentendo il peso della responsabilità che si assumono, capendo quali sono le caratteristiche della macchina che stanno maneggiando.

Se si vuole evitare il bavaglio alla stampa, se si vuole evitare che certi problemi siano affrontati in sede legislativa (com’è avvenuto in Francia e come si sta facendo anche in Italia), allora si deve professionalmente avere un maggiore rispetto delle cose di cui ci si occupa.

Senza crescita professionale, senza rinuncia al sensazionalismo ad ogni costo, allora non si ha il diritto di sbarrare la strada a leggi che impongano un maggiore rispetto della privacy, o che, in qualche modo, comportano un certo tasso di censura.

Inutile convocare scioperi o manifestazioni, questo è un problema che sta nelle mani dei giornalisti. E nelle loro menti.

Quando i giornalisti che si occupano di questioni giudiziarie non sono impegnati a scrivere, e quando, conversando, li si porta ad affrontare i problemi di cui abbiamo fin qui parlato, capita di ascoltare l’esposizione della seguente tesi:

sì, certo, non è cosa bella pubblicare integralmente, come fosse oro colato, la velina che ci viene passata dalla procura della Repubblica, ma, sai, il problema è che se uno di noi non lo fa, se, magari, si spinge a criticare la violazione del segreto istruttorio, automaticamente viene depennato dalla lista di coloro che hanno diritto alla velina, e, quindi, sarà destinato a bucare (cioè perdere) tutte le notizie della cronaca giudiziaria.

Questa tesi non è una giustificazione, giacché se non è cosa bella prendere le veline dai politici, che incarnano il potere legislativo e, talora, esecutivo, cosa ancor meno ammirevole è prendere le veline dai pm, che incarnano il potere della repressione.

Tutti i poteri, in democrazia, se regolati, sono legittimi, ma quando si passa agli abusi di potere, ed alle violazioni delle regole che ai poteri sono imposte, la qualità della nefandezza cambia a seconda di quale potere ne è protagonista.

Quel discorso, però, ci porta ad affrontare l’altra faccia della medaglia:

se ci sono giornalisti che si piegano alle veline dei pm, ci sono anche dei pm che scrivono veline.

La prima cosa equivale ad una forte dequalificazione professionale, la seconda è un reato. Ed è un reato grave. Molto grave.



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martedì 29 luglio 2008

Il mostruoso connubio fra Magistratura e Stampa

Il terzo capitolo del libro di Giacalone si intitola "L' inferno dei presunti innocenti".

Sto leggendo questo libro insieme a voi, mentre trasformo il documento originale, che è in PDF, in un file di testo da poter copia-incollare nei post che vado pubblicando, puntata dopo puntata.

Ebbene, la puntata di oggi mi porta a presagire che questo capitolo mi farà accapponare la pelle.

Scoprire che un sanguinario boss mafioso come Tommaso Buscetta, ricordando il metodo di lavoro di Giovanni Falcone e confrontandolo con i metodi dei suoi successori, si permette di capire e stigmatizzare quel che non capiscono e non stigmatizzano i forcaioli seduti in Parlamento o nelle redazioni giornalistiche, mi riempe di angoscia .....

Ma in che cazzo di paese vivo, viviamo, se un boss mafioso è più intelligente e "colto" di un Travaglio e di una parte minoritaria ma consistente dei miei onesti concittadini?




Taluno, forse, potrà ritenere ovvio il diritto ad essere considerati innocenti, almeno fino a quando una sentenza definitiva non abbia stabilito il contrario.

Si sbaglia.

Si sbaglia ed, evidentemente, ha scelto di coprirsi gli occhi e non osservare quel che gli succede attorno.

Il diritto ad essere considerati innocenti viene quotidianamente ed incivilmente calpestato.

L’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti del-l’Uomo, al suo secondo comma, recita: “Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accerta”.

La Costituzione Italiana, all’articolo 27, afferma: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Il concetto è simile, addirittura identico nelle finalità, ma preferisco il diritto all’innocenza piuttosto che quello alla non colpevolezza.

A parte le preferenze, però, noi sappiamo che il diritto riconosciuto dalla Costituzione Italiana non è affatto tutelato dai tribunali italiani.

Voltaire, nel suo “Trattato sulla tolleranza”, ricorda che “il governatore romano Festo, che doveva giudicare Paolo, già condannato dagli ebrei, disse: ‘Non è costume dei Romani condannare un uomo prima che gli sia data la libertà di difendersi’”.

A distanza di tanti anni, purtroppo, il costume si è diffuso. Vediamo come questo fondamentale diritto viene negato, e vediamo come la Corte Europea ha già, per questo, emesso delle condanne.

Quando un cittadino viene indagato, magari con l’applicazione di misure cautelari, e, quindi, trattenuto in carcere, quando, poi, viene processato, non deve vedersela solo con la giustizia dei Tribunali, no, egli diventa anche carne da macello offerta in dono ad un sanguinario sistema dell’informazione.

Non si capirà mai nulla di come concretamente funziona la giustizia (e di quanto pesanti possano essere le ingiustizie) se non si tiene presente questa, assai poco ammirevole, evoluzione tecnologica della diffamazione legalizzata.

Esiste, lo abbiamo visto, una garanzia costituzionale che prevede, per ogni cittadino, la presunzione d’innocenza fino a quando, in via definitiva, la giustizia non abbia stabilito il contrario.

Di questa garanzia, fattualmente, non si tiene molto conto nell’amministrare la giustizia, ma, almeno formalmente, non la si può certo negare o considerare decaduta.

Sul fronte giornalistico, invece, l’unica presunzione che esiste è la presunzione di colpevolezza.

Della serie: sbatti il mostro in prima pagina.

L’innocenza non fa spettacolo, se non riconosciuta a chi era già stato ritenuto colpevole.

Ma quando ancora un cittadino ha il diritto di essere considerato innocente l’unico spettacolo che viene imbandito è quello della sua colpevolezza.

Questo meccanismo è autenticamente cannibalesco, cieco nel suo desiderio di sangue. Cercherò di chiarire perché.

Tanto per cominciare esso non è deprecabile solo quando massacra persone che saranno poi riconosciute innocenti, non ha nessuna importanza se la persona indagata, o imputata, sia o no veramente colpevole.

Mettiamo che lo sia, in questo caso esiste una proporzione fra il reato che ha commesso e la pena che dovrà scontare. Tale proporzione va a farsi benedire se la questione viene data in pasto alla stampa.

Faccio un esempio, che è solo apparentemente paradossale.

Se mi beccano a correre in autostrada, e mi fotografano con le apposite macchinette, mi mandano a casa una salata e meritata multa. E ben mi sta.

Ma se quella foto, già che ci si trovano, la passano anche alla stampa, ed esce una bella serie di articoli in cui si dice: “ecco il pazzo che potrebbe uccidere i vostri bambini”, allora mi sento vittima di un’ingiustizia.

Primo, perché non ho mai ucciso nessuno; secondo, perché non sono pazzo; terzo, perché non sono il solo a correre in autostrada.

E se qualcuno replica alle mie proteste dicendomi: “ma lei che vuole? lei è sicuramente colpevole, stava veramente correndo in autostrada”, allora reagisco dandogli del pazzo, perché confonde i dati logici del problema: l’essere vero un elemento non rende vera la storia inventata e raccontata dai media.

E non sono mancate simili esagerazioni, come descrizioni dettagliate di cose inesistenti, del tipo: arrestato Tizio che aveva un sontuoso attico pluribalconato, con piscina e giardino pensile, e voleva farlo passare, l’indegno, per una cantina.

Quel signore, magari, abita all’ultimo piano senza ascensore, dispone di un terrazzino dove stende i panni, non ha piscina, ma solo una vasca da bagno, possiede tre piante di gerani che espone alla finestra, utili anche contro le zanzare, e non ha mai tentato di far passare tutto ciò per una cantina, ha solo fatto presente che alla casa è annessa una cantina.

A quel punto c’è solo da sperare che il Tizio in questione abbia un po’ di senso dell’umorismo, e sappia prenderla con un sorriso. Altrimenti si mette ad imitare il Michael Douglas di “Un giorno di ordinaria follia”.

Insomma, non poche sono le vittime di un’informazione che mente alludendo, che lascia intendere, che smozzica a piacimento la realtà.

“I media industriali - ha scritto Paul Virilio - si avvalgono di una strana depravazione delle leggi democratiche. Infatti se la televisione e, per osmosi, la stampa non dispongono a priori della libertà di diffondere notizie false, la nostra legislazione concede loro il potere esorbitante di mentire per omissione, censurando e sottoponendo a interdetto le notizie scomode o che potrebbero nuocere ai loro interessi”.

Il secondo motivo per cui il meccanismo del “mostro in prima pagina” è un meccanismo sanguinario, sta nel fatto che esso annulla tutta una vita in un’unica, e ancora non dimostrata vicenda.

Questa è, credo, l’ingiustizia più pesante, più incivile che si subisce.

Ed è questo meccanismo, non la vergogna (come qualcuno ha sostenuto con infinito cinismo), che provoca l’annullamento della persona, e fa scattare il desiderio dell’autoeliminazione, del suicidio.

Come si fa a sopravvivere se si è dedicata la propria vita a delle cose, magari a degli ideali, a delle battaglie, e poi ci si ritrova sulla bocca di tutti come dei delinquenti?

Come si fa ad accettare che tutti i propri meriti nei confronti della collettività non contino più assolutamente nulla, mentre i propri errori divengono tutto?

Sull’interazione fra la scena giudiziaria ed il sistema della comunicazione ha scritto Daniel Soulez Larivière, evidenziando come sia difficile, nella situazione da circo mediatico-giudiziario che si è creata, difendere i diritti di quanti, per una ragione o per un’altra, sono impopolari.

Talora è proprio la magistratura giudicante a dovere fare da scudo contro il pericolo di giudizi prematuri e del tutto extragiudiziali.

Ma il problema resta quello della magistratura inquirente, sono, infatti, i pubblici ministeri ad avere scoperto di maneggiare un’arma devastante: l’uso dei mezzi d’informazione.

L’uso che se ne è fatto è smodato, tanto da sembrare ingenuo: certe armi, infatti, si rivoltano sovente contro chi crede di averle in mano.

È evidente che quando l’avvocato francese ha dovuto fare un esempio di come e dove tutti questi pericoli hanno toccato il loro punto più alto, e di dove la difesa dei diritti individuali ha toccato il suo punto più basso, ha subito pensato ad un paese: l’Italia.

Qualche lettore potrà ritenere che le critiche all’uso giudiziario dei mezzi d’informazione, vengono sempre dal fronte degli incalliti garantisti, o da coloro che si affannano a farsi passare per vittime, e che, invece, il magistrato, che spiffera tutto ai giornalisti suoi amici, è da elogiare per il dimostrato desiderio di pubblicità e trasparenza.

A costoro propongo di leggere cosa ne pensa un signore che ha esperienza diretta della giustizia: Tommaso Buscetta. Egli parla di quanto avvenne in Italia, nel 1992:

“Fui molto deluso dalla baraonda che circondava le indagini e i processi. Rispetto a otto anni prima, il peso della stampa era enormemente cresciuto. I giudici erano preoccupati dai titoli dei giornali.

Giovanni Falcone mi aveva interrogato per tre mesi. Da solo, scrivendo a mano i verbali. La polizia aveva effettuato 2600 riscontri alle mie dichiarazioni senza essere disturbata da nessuno. (...) I verbali delle deposizioni dei ‘pentiti’ finivano adesso sui giornali ancora prima che le indagini fossero iniziate. Ancora prima di eseguire un accertamento, una verifica, un arresto.

Il nome del giudice Signorino come persona collegata a Cosa Nostra era stato dato in pasto all’opinione pubblica mentre mi trovavo in Italia. Il giudice si era suicidato. (...)

Lessi sulla stampa che anch’io avrei fatto il nome di Signorino come magistrato colluso. Mi indignai. Era una falsità”.

C’è di che riflettere.

Come vedete gli interessi della giustizia e quelli di qualche magistrato assetato di popolarità, vanno in direzioni diametralmente opposte.

Ciò che aggrava enormemente l’interazione fra giustizia ed informazione, o, meglio, fra giustizia e spettacolo, è l’orrendo conformismo dei giornalisti che animano questo circo. Il loro supino appiattimento sulla tesi ritenuta, per definizione e senza impegno di alcun spirito critico, giusta.




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lunedì 28 luglio 2008

Il centrodestra sta rubando l' anima alla sinistra

Tempi duri per i giornalisti di sinistra. 

I più intellettualmente onesti, come Antonio Polito, sono costretti a registrare, giorno dopo giorno, la liquefazione della sinistra italiana, da quella cosiddetta riformista, che riformista non riesce a diventare, a quella massimalista, che ha appena deciso un balzo indietro ideologico di più di 20 anni  (la caduta del muro di Berlino risale al novembre del 1989).

Nel suo fondo di oggi sul Riformista, uno sconsolato Polito denuncia il fatto che il Governo di centro-destra sta "rubando l' anima" alla sinistra, compiendo lui quella politica "anche" di sinistra che Prodi non provò neanche a fare.

La cosa non deve stupire perchè sono i generali a concludere concretamente la pace, gli imprenditori a fare politiche sociali concrete nelle loro aziende, le destre a redistribuire concretamente le ricchezze che hanno aiutato ad accumulare, mentre i pacifisti alla Chamberlain le guerre le provocano, i sindacalisti contribuiscono a far sfruttare gli operai e le sinistre ad affamarli cercando di distruggerla, la ricchezza.

Sembra che io stia dicendo assurde cazzate, vero, cari ignorantoni trinariciuti di sinistra? Bè, basterebbe studiarsi anche soltanto la storia europea del secolo scorso per sapere che NON ne sto dicendo ...

Quello che i trinariciuti nostrani, digiuni di storia e di capacità critica, non riescono a capire è che le altre sinistre europee, quelle cosiddette  riformiste, in realtà non sono più di sinistra da decenni. 

Hanno accettato e condiviso IN PIENO il sistema capitalista, cosa che invece continuano a rifiutare - di fatto - i Piddini nostrani.

Come dice Polito, "Ripetono pari pari lo stesso errore di sempre, Ochetto, Fassino o Veltroni non cambia niente perchè tanto hanno fatto le stesse scuole e letto gli stessi libri e dunque, messi alla prova, hanno sempre le stesse reazioni".

Non capiscono cosa sia una politica di sinistra, nel mondo di oggi, secondo Polito, ma non lo capiscono da decenni e decenni, secondo me, ammesso e non concesso che lo abbiano mai capito.

Il fatto è che il marxismo, nell' ottocento, aveva un senso perchè il padronato di allora era  davvero becero, incivile, ladro e assassino.

Diciamo che ha avuto ancora un senso persino nella prima metà del novecento, nei paesi europei sottosviluppati come il nostro. Ma dopo l' ultima guerra mondiale, col trionfo del capitalismo democratico e consumista arrivato da noi grazie alle baionette americane e  ai fiumi di dollari del piano Marshall, il marxismo doveva sparire come, infatti è sparito in tutta l' Europa libera, MENO CHE DA NOI.

E pensare che questi ciechi imbecilli, incapaci di leggere sia la storia che l' attualità, si credono ancora più intelligenti di tutti ....

Per fortuna qualcuno di loro, come ad esempio Polito e Calderola, ha cominciato ad aprire gli occhi ....

Ok, ok, c'è voluto un loro impegno diretto in Parlamento durante il disastro del Governo Prodi e c'è voluto il trionfo elettorale di Berlusconi e di Bossi per risvegliarli dal loro sonno ma insomma, meglio tardi che mai, no?

Il fatto che abbiano capito che Tremonti e Brunetta stiano facendo concretamente una politica ANCHE di sinistra fa ben sperare per un loro totale ravvedimento ...

I trinariciuti seguiranno, magari fra qualche decennio (o anche prima se Veltroni se ne  andrà finalmente in Africa), ma seguiranno ....

Chiudo segnalando che fra i ravveduti c'è già, forse,  persino il vecchio Napolitano che, in queste settimane,  sembra avere molto più sale in zucca dei dirigenti del suo partito d' origine.


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"Lodo Alfano? C’era già, fu inventato per salvare Scalfaro"

Grazie ad una segnalazione dell' amico Nico, sul suo blog, riporto qui un articolo pubblicato da il Giornale di oggi che mi pare aggiunga un tassello importante alla mia piccola campagna di verità sulla magistratura italiana.

Devo ricordare che, in questi giorni, il Presidente Emerito Oscar Luigi Scalfaro, protagonista di questo articolo, ha avuto da ridire sul lodo Alfano?

Della serie: avere la faccia come il culo ....


Il Lodo Alfano? «C’è un precedente», spiega Giuseppe Di Federico, professore emerito di sistemi giudiziari all’Università di Bologna.

Quale? Una vecchia legge dimenticata?


«No, io mi riferisco a un provvedimento della magistratura. Strano che nessuno se lo ricordi».

L’ex componente del Consiglio superiore della magistratura sorride, sospira, borbotta:

«Strano Paese il nostro. Certo sono passati quindici anni, ma la storia è nota, stranota: riguarda il presidente Oscar Luigi Scalfaro».


Lei pensa ai fondi riservati del Sisde?


«Esatto. Una vicenda che mi è tornata in mente nelle scorse settimane, osservando le polemiche sorte a proposito del Lodo Alfano».


Perché?


«Perché il Lodo Alfano tutela le quattro più alte cariche dello Stato».


E che c’entra Scalfaro?


«Allora, nel 1993, il Lodo non c’era ancora ma i magistrati inventarono uno scudo su misura per tutelare il capo dello Stato».


Come andò quella storia?


«Alcuni funzionari del Sisde erano stati indagati per peculato dalla Procura di Roma. Alcuni di loro tirarono in ballo Scalfaro. Dissero che all’epoca in cui era ministro degli interni, quindi prima di diventare presidente, gestiva 100 milioni di lire al mese».


Una situazione esplosiva.


«A disinnescarla ci pensarono i magistrati della Procura di Roma, non il Parlamento, con un provvedimento mirato».

Che cosa accadde?


«Anzitutto quei funzionari furono messi sotto inchiesta per attentato agli organi costituzionali».


Risultato?


«Questi 007, rischiando una condanna pesantissima, decisero di tacere, come ci racconta Francesco Misiani che all’epoca era Pm a Roma nel libro La toga rossa. Ma non è questo il punto più importante».


E qual è?


«Il passaggio successivo».


Ovvero?


«Dopo una riunione cui parteciparono alcuni magistrati della Procura di Roma si stabilì di fermare l’indagine su Scalfaro».

Su che base?

«Sempre facendo riferimento all’articolo 289 del codice penale, quello che punisce severamente l’attentato agli organi costituzionali».


L’articolo 289 come il Lodo Alfano?


«Sì. L’articolo allora suonava così: “È punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un reato più grave, chiunque commette atti diretti a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al presidente della Repubblica” e ad altre cariche istituzionali” l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge”.

La Procura di Roma stabilì un’interpretazione assai estensiva del codice?


«Certo».

L’attentato agli organi costituzionali è un reato gravissimo: è stato contestato, per esempio, ai generali dell’Aeronautica militare che avrebbero mentito e depistato, ingannando il governo a proposito della strage di Ustica.

«Nel 1993 la Procura di Roma fu lodata da tutti per questo gesto che metteva il Quirinale al riparo delle tempeste. In pratica si fece leva sull’articolo 289 per sostenere che un’indagine avrebbe impedito alla presidenza della Repubblica di svolgere i propri compiti».


Quindi il procedimento fu sospeso?


«Certo, rimase congelato per sei anni. La controprova è che ripartì solo nel ’99, quando Scalfaro lasciò il Quirinale. E a quel punto fu rapidamente archiviato».


Dunque?


«Io spero che la Corte costituzionale non faccia a pezzi il Lodo Alfano. Se no, saremmo al paradosso».


Quale?


«Vorrebbe dire che i giudici possono fare quel che non riesce ai politici. E che è un pool di magistrati e non le Camere a decidere le regole del gioco democratico. Fra l’altro se si va a vedere l’articolo 289 si scoprirà che il Lodo della Procura di Roma batte il Lodo Alfano anche come estensione».


Perché?


«Perché l’immunità prevista dal 289, secondo quell’interpretazione, copre anche il Parlamento e le Regioni».


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Divulgazione ... con tutti i mezzi e con tutte le forze!

Caro Andrea, pubblico anche qui il tuo commento al mio post precedente per dare maggior risalto alle tue accorate, ancorchè retoriche, domande che descrivono lo stato d' animo di molti elettori di destra, almeno di quelli che non si lasciano distrarre troppo dal teatrino della politica e anche perchè mi piacerebbe che fosse accolto il tuo invito alla divulgazione di documenti che smascherino le grandi bugie della sinistra.

Come ci si può riempire la bocca di parole come "democrazia", "giustizia sociale", "stato di diritto", "rispetto della costituzione" quando più della metà della popolazione carceraria è in attesa di giudizio?

Quando solo chi ha i "capitali" per pagarsi la difesa può sperare di contrastare l'offensiva di una magistratura che si può permettere centinaia di milioni di spesa per - faccio un esempio - le intercettazioni?

Con che faccia certa magistratura si definisce "democratica"?

Fu il partigiano Scalfaro il primo ad assimilare il nostro regime carcerario a quello della "tortura", lo hanno dimenticato i moderni vati dell'una-dieci-cento-mille piazze?

Dove sono finiti i difensori dei diritti umani...radicali compresi?

Come si fa a non capire che la malagiustizia è la matrice di tutti i mali di questo paese?

Con che faccia di tolla si può negare che essa è il frutto degli inganni ideologici dei tanto decantati "padri costituenti"?

Come si fa a non capire che la Repubblica italiana è nata sulla base di abominevoli BUGIE?

Cosa aspettiamo a restituire dignità al concetto di "storia"?

Ora capisci Paraffo caro perchè, dopo aver letto Pansa, questo meraviglioso pamphlet di Giacalone, il libro del figlio di Calabresi, mi sono incazzato un bel pò e ho dato vita al mio blog.

Vedi, a me la politica interessa un bel pò, mi appassionano le dialettiche che si sviluppano sui temi dell'attualità, ma lotterò sempre per dissipare le ombre, le omertà, i delitti con cui taluni mascalzoni hanno incatenato la vita civile dell'Italia.

Qui, come dici sempre tu, ci vogliono distrarre con il teatrino mentre loro da 60 anni mettono in scena la tragedia. E nun se po fa...

Divulgazione ... con tutti i mezzi e con tutte le forze!


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domenica 27 luglio 2008

Due GRANDI BUGIE sul malfunzionamento della Giustizia

Con questo sesto post si conclude il Secondo Capitolo del libro di Giacalone sulla Malagiustizia e, soprattutto, si smascherano due Grandi Bugie propalate ad arte da chi non vuole riformare la giustizia:

PRIMA GRANDE BUGIA: alla magistratura mancano uomini e mezzi.
SECONDA GRANDE BUGIA: i ritardi dei processi sono dovuti all' ostruzionismo degli imputati e dei difensori.

Tabelle di dati alla mano, Giacalone ci fa sapere che l' Italia ha più personale e spende per la giustizia di più di tutti gli altri paesi simili al nostro e che i ritardi sono dovuti, principalmente, all' imperizia degli uffici giudiziari e, spesso, dei PM in persona.

Come al solito, per questioni di spazio, non pubblico le tabelle e, stavolta, neppure le sintetizzo, perchè lo fa lo stesso autore. In ogni caso, come ormai sapete bene, le tabelle le potete trovare qui e potete leggervele per conto vostro.

In questa stessa puntata, in apertura, scoprite che il 57% della popolazione carceraria è costituito da gente che - secondo la nostra costituzione - è innocente, cioè o è in attesa della prima sentenza di condanna, oppure della condanna definitiva.

Questo è un dato che lascia indifferente i forcaioli (e, permettetemi, gli imbecilli che credono che incappare nelle maglie della giustizia, possa capitare
come la morte o la malattia o gli incidenti, solo agli altri), ma che fa inorridire chiunque amerebbe vivere in uno stato di diritto, in una democrazia liberale, in un paese civile.

In un sistema che funziona la pena deve essere certa e deve essere scontata, ma deve anche essere umana. Molti istituti carcerari italiani rispondono ad una struttura e ad una logica che di umano non ha nulla. Ma qui m’interessa un aspetto diverso.

Chi si trova in carcere? I criminali, sarebbe lecito rispondere. E chi sono i criminali? Sono quei cittadini condannati per i reati commessi. Giusto, ma guardate, invece, chi (secondo i dati del ministero della Giustizia) c’è in carcere:

I condannati sono quelli la cui condanna è definitiva, gli unici ad essere stati riconosciuti colpevoli di qualche cosa.
Gli imputati sono quelli che hanno ancora un processo in corso e gli internati quelli sottoposti a misure di sicurezza.

Se fate i conti rabbrividite, se guardate il grafico qui sotto vi arrabbiate: Il 57% della popolazione carceraria è composta da cittadini che la Costituzione e la civiltà c’impongono di considerare dei presunti innocenti.

Di questi il 61% sono giudicabili, il che vuol dire che non sono mai stati condannati da nessuno e si trovano in custodia cautelare; gli appellanti sono i condannati in primo grado che attendono il giudizio di secondo; ed i ricorrenti sono quelli che aspettano la cassazione.

Tutti insieme sono degli innocenti, ma si trovano in carcere. Siccome non sono un ipocrita, e neanche un parroco carcerario, so bene che in quel 57% c’è una presunta abbondanza di criminali, ma è proprio questo lo scandalo:
se ne stanno in galera senza che la giustizia riesca a discernere con sicurezza fra colpevoli ed innocenti.

Quel 57% è uno sconcio sia per i singoli che patiscono senza colpa, sia per la collettività che vede i criminali a rischio scarcerazione per decorrenza dei termini. Comunque la mettiate, questo è un frullato fra violazione dei più elementari diritti umani e resa della giustizia innanzi al crimine.

E se non siete ancora sufficientemente arrabbiati, vi ricordo che dell’indulto varato dal governo Prodi si è giovato solo il 39%, ovvero i condannati in via definitiva.

Quelli che sono usciti dal carcere grazie a quel provvedimento erano gli unici di cui si sapeva con giuridica certezza che erano colpevoli. Ma ci torneremo.

Attenzione ai tre tipi di dati su cui adesso ragioniamo. La fonte da cui li ho tratti è il Cepej (Commision Européenne pour l’Efficacité del la Justice), ovvero dati ufficialmente trasmessi da ciascun Paese del Consiglio d’Europa.

La prima tabella riguarda la spesa per la giustizia, in ciascun Paese, esclusi i costi del pubblico ministero, delle procure, e quelli dell’aiuto giudiziario, ovvero il gratuito patrocinio previsto per i meno abbienti. Nella prima colonna si trova il valore assoluto della spesa, nella seconda la spesa pro capite, cioè per ciascun abitante:

Il grafico serve a dare immediata visione della spesa pro capite, quindi di quel che si è letto nella seconda colonna:

L’Italia, quindi, spende più di tutti gli altri Paesi direttamente paragonabili.

È da notarsi, e questo vale anche per i dati che seguiranno, che alcuni dei Paesi in elenco sono di più recente democrazia, quindi affrontano spese straordinarie per la strutturazione del loro sistema di giustizia, o sono molto piccoli, quindi la necessità di disporre di un sistema che funzioni ne aumenta il peso della spesa pro capite.

Ma l’Italia resta il Paese che spende, in valore assoluto, più di tutti e che spende, pro capite, più dei Paesi di eguali e più grandi dimensioni (come la Francia).

Vediamo adesso una tabella eguale alla prima, ma questa volta riferita alla spesa statale per il solo pubblico ministero.

Nella prima colonna sempre la spesa assoluta e nella seconda quella pro capite:

Ed ecco il grafico relativo alla spesa pro capite:

Guardate come cambia la classifica quando si prende in considerazione la spesa pubblica per l’aiuto giudiziario, vale a dire la spesa diretta al cittadino che si trova ad avere a che fare con la macchina della giustizia e che non ha i mezzi per essere rappresentato o difendersi adeguatamente:

È bastato che la spesa statale non fosse diretta alla macchina degli addetti ai lavori e, improvvisamente, le virtù amministrative sono ricomparse. Significativo, non vi pare?

Un’ultima tabella, per avere il quadro completo della situazione. Quanta gente lavora nella nostra giustizia?

Limitiamoci agli avvocati ed ai giudici che si trovano in tribunale secondo i dati ufficialmente trasmessi e relativi al 2004:

Ciò significa, in estrema sintesi, che il nostro sistema di giustizia è costosissimo, ci lavora un esercito di persone e che tutti quelli che reclamano più soldi e più personale o non sanno quel che dicono o fingono di non saperlo.

Spesa enorme, elefantiasi strutturale ed umana, inefficienza ed intasamento. Ma guardando dentro la macchina della giustizia, guardando nei meccanismi che quotidianamente si riproducono nei tribunali, quali cause ne continuano a bloccare la produttività?

II processo dura troppo, questo nessuno sano di mente si permette di contestarlo, ma perché?

È quel che si sono chiesti alla camera penale di Roma, dove, sotto la guida di Gian Domenico Caiazza e Francesco Petrelli, aiutati dalla Fondazione Tortora e coadiuvati dall’Eurispes, hanno condotto una singolare ricerca.

Il metodo può non essere del tutto scientifico, ma ha una sua suggestione ed efficacia: per giorni un gruppo di avvocati s’è piazzato in tutte le aule del tribunale di Roma segnando in un modulo l’andamento delle udienze ed il loro esito. Come se si fosse in una fabbrica e si cercasse di capire dove il processo produttivo s’inceppa.

1632 processi in cinque giornate lavorative, un campione, certo, ma già una premessa metodologica mette il lettore in allarme: abbiamo, dicono, seguito le sedute dall’inizio alla fine e non solo in determinate fasce orarie, perché se ci fossimo limitati alle ore prima del pranzo il risultato sarebbe cambiato, dato che in quelle i rinvii si fanno più fitti.

E già l’idea che la giustizia rallenti per non mettere a rischio d’ipoglicemia i non denutriti magistrati, un po’ inquieta.

Vediamo il primo dato: quanto dura, in media, un’udienza? Da quando il giudice apre un fascicolo, presenti le parti in un tribunale, a quando lo chiude, quanto tempo passa? Ecco le risposte:

a. per i procedimenti monocratici 12,51 minuti;
b. per i procedimenti collegiali: 32,00 minuti.

Con il che sappiamo che la lentezza complessiva non si deve al tempo passato nel discutere la causa.

E, mediamente, quando si rinvia, dopo quanto tempo si fissa l’udienza successiva?

a. per i procedimenti monocratici dopo 152 giorni;
b. per quelli collegiali dopo 134 giorni.

Ora è evidente che se ad un caso singolo si dedicano una ventina di minuti ogni cinque mesi è difficile sperare che si faccia in fretta.

Ma cosa succede nel corso delle udienze, come si concludono, di solito, cosa accade prima del rinvio ai cinque, sei mesi successivi?

La ricerca evidenzia che
nel 69,7% dei casi l’esito è il rinvio ad altra udienza,
nel 28,6% la sentenza,
nell’1,7% la restituzione degli atti al PM.

I rinvii rappresentano dunque l’esito della netta maggioranza delle udienze.

C’è, dunque, quasi sempre un errore formale commesso dallo stesso pubblico ministero. Il dato davvero clamoroso è il seguente: ben il 42,6% dei processi fissati per lo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale viene rinviato senza lo svolgimento di alcuna attività, perchè l’atto, in verità assai banale, della citazione del testimone o è stato del tutto omesso, o è stato effettuato in modo errato ovvero, pur effettuato regolarmente, non è stato ottemperato dal destinatario.

Quanti, quindi, dicono che i processi sono troppo lunghi a causa dell’atteggiamento ostruzionistico dell’imputato e della sua difesa, quanti affermano che i tempi di prescrizione incivilmente lunghi non devono essere toccati perché altrimenti non si farebbe che incoraggiare quelle condotte, semplicemente non sanno quel che dicono.

La realtà quotidiana smentisce questo modo di descrivere e vedere le cose, i fatti, insomma, sono più duri della testa di chi continua a ripetere le stesse e sbagliate cose.

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sabato 26 luglio 2008

La Magistratura italiana calpesta i diritti umani

La quinta puntata del libro di Giacalone sulla Malagiustizia è di pesante lettura, tuttavia è di estremo interesse, specie in questi giorni che hanno visto l' opposizione parlamentare stracciarsi le vesti per l' "infamia" del pacchetto sicurezza varato dal governo con annesse sospensioni dei processi e polemiche per i diritti umani dei Rom.

Queste urla di disperazione mi appaiono come le lamentazioni di un malato terminale di cancro che si dispera perchè gli è venuto un orzaiolo all' occhio.

Interessante è anche un fatto che scoprirete oggi: la legge che ha aggravato la lentezza e l' onerosità dell' azione penale italiana (puntualmente condannata dalla Corte Europea) è una delle perle che ci ha regalato il penultimo governo di centrosinistra, ad ennesima dimostrazione della incapacità a governare di quello schieramento.

Ogni anno, alla fine del mese di gennaio, si tengono in tutta Italia le cerimonie d’apertura dell’anno giudiziario. E già che l’anno cominci alla fine di gennaio la dice lunga, per una categoria, quella dei magistrati, il cui lavoro in tribunale viene poi sospeso per due mesi di ferie estive, manco siano bambini dell’asilo.

Ogni anno si abbatte sui cittadini un diluvio di parole inutili e dati sconfortanti, fuoriuscenti dalla bocca di chi non si sente mai responsabile di quel che accade, ma, anzi, non perde l’occasione per attribuire a tutti gli altri ogni possibile colpa.

Una prima buona cosa, quindi sarebbe la soppressione di tali cerimonie, il cui lato più umanamente toccante è rappresentato dalla strenua battaglia che molti degli invitati, specie nelle prime file dove le più alte cariche dello Stato coincidono con le età meno giovani, ingaggiano con il sonno.


Nel 2007 s’è anche raggiunto il grottesco relativo all’inesistenza di un legittimo presidente della Cassazione, giacché chi avrebbe dovuto tenere il discorso non poté farlo, perché non era il presidente della Cassazione, avendo il Csm bocciato l’unico candidato, Vincenzo Carbone.

Lo ha bocciato perché le correnti di sinistra non lo volevano, ma sarebbero finite in minoranza se non le avesse salvate il presidente Napolitano, il quale si è presentato, si è astenuto e così facendo ha ottenuto il pareggio, quindi la sconfitta di Carbone.

Quest’ultimo non si arrende e ricorre al tribunale amministrativo regionale, bloccando la procedura per la scelta del nuovo vertice, sarà poi il Consiglio di Stato a dargli definitivamente ragione (e definitivamente torto al Csm ed alla trovata tattica di Napolitano).


Riassumendo: magistratura politicizzata, divisa in correnti, incapace di autogovernarsi, impegnata a sfidarsi in tribunale. Il giorno della cerimonia ermellinata il Presidente della Repubblica non intendeva assistere ad un discorso di Carbone (aggiungendo i capricci al torto giuridico), e, quindi, s’è trovato un sostituto per anzianità. Ed anche questo è a suo modo emblematico.

Fatta questa premessa, però, cercando bene fra le acque del diluvio si trovano perle di gran valore. Abbiate pazienza, non lasciatevi spaventare dal linguaggio falso forbito, perché i concetti sono davvero straordinari.

Tocca a Gaetano Nicastro, presidente di Cassazione in attesa che s’insedi quello vero, tenere il discorso ufficiale, nel quale si trova la seguente frase :

Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti per l’irragionevole durata dei processi non basterebbero – è stato detto – tre finanziarie”.

Ma vi rendete conto? Il presidente Nicastro non solo ammette candidamente che l’Italia viola massicciamente un diritto dell’uomo, ma immagina d’essere arguto nel sottolineare che neanche potrebbe permettersi di risarcire il danno, perché ci vorrebbero troppi soldi. Forse avrebbe potuto dire solo questo, fermarsi lì ed invitare tutti a tornare a casa.


Spingiamoci oltre anche noi, leggiamolo:

“Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti per l’irragionevole durata dei
processi non basterebbero – è stato detto – tre finanziarie. Il problema non è tuttavia quello di evitare le condanne dello Stato italiano, bensì di assicurare quello che è ormai definito, con termine in fondo improprio ma caustico, il ‘giusto processo’, il tempestivo riconoscimento del diritto, il tempestivo proscioglimento dell’innocente o l’applicazione della pena al colpevole.

Nel 2006 la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo non appare costellata, come negli anni precedenti, di condanne dell’Italia per la violazione della ragionevole durata del processo. Ma ciò si deve, chiaramente, all’applicazione della cosiddetta ‘legge Pinto’ (l. 24 marzo 2001, n. 89), che ha previsto e regolamentato l’equa riparazione, demandando alle corti di appello i relativi accertamenti e le corrispondenti liquidazioni.

Dopo alcune controverse decisioni, si può dire che le Corti italiane (ivi compresa la Corte di cassazione) si siano ormai adeguate ai parametri della Corte europea, evitandosi in tal modo il ricorso a quest’ultima in una funzione di supplenza, chiarimento ed integrazione.

Vistosa eccezione alla limitazione degli interventi della Corte europea le otto sentenze pronunciate dalla Grande Chambre il 29 marzo 2006 per violazione dell’art. 6 comma 1 della Convenzione: nonostante la ragionevolezza dei tempi della procedura per conseguire l’equa riparazione, i ricorrenti avevano dovuto attendere vari mesi e in alcuni casi iniziare una procedura esecutiva prima di ottenere l’indennizzo loro riconosciuto: per essere efficace, il rimedio – secondo la Corte - deve essere accompagnato da previsioni di bilancio adeguate al fine di dare immediata esecuzione alle sentenze (vi si segnala altresì che certe spese fisse, come quelle di registro, possono ridurre grandemente l’efficacia del risarcimento)”.

Cos’è la legge Pinto lo vedremo nell’ottavo capitolo, ma, visto che ancora sarà citata, qui basti sapere che si tratta di un trucchetto inventato dal legislatore, nel 2001, per rendere più difficile la vita agli italiani e togliere loro il diritto di ricorrere subito a Strasburgo, imponendo di andare prima a lamentarsi presso una Corte d’appello.

Il trucchetto si è poi rivelato anche un boomerang, intasando quei tribunali. Il senatore Michele Pinto è stato anche ministro nel primo governo Prodi, e temo che per molti questa sia già una spiegazione.

Infatti, lo stesso Nicastro osserva:

“L’aumento dei procedimenti di primo grado presso le Corti di appello preoccupa (…), ove si consideri la correlativa limitata competenza dell’organo, indicando una massiccia incidenza delle richieste di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo (cosidetta ‘legge Pinto’), come,
del resto, confermano quasi tutte le relazioni pervenute dai vari distretti”.

In altre parole: le Corti sono schiantate sotto la Pinto e ci mettono un tempo lunghissimo a discutere cause relative alla lunghezza dei processi.

Sembra una scena dal teatro dell’assurdo.

Nonostante il trucchetto e la conseguente catastrofe, però, l’Italia continua a beccare botte da orbi in quel di Strasburgo, e sono sempre parole di Nicastro:

“Sempre più la nostra giurisprudenza si trova a confrontarsi con le convenzioni internazionali e con il riconoscimento in quei testi di ampi diritti fondamentali.

Chiarificatrice, al riguardo, ed in linea con numerose pronunce della nostra Corte Costituzionale (dinanzi alla quale è stato ripetute volte sollevato conflitto da parte dei tribunali italiani) la sentenza della Corte europea 20 aprile 2006 (Patrono e altri c. Italia), in ordine al problema della immunità parlamentare prevista dall’art. 68 della Costituzione, con la quale è stato ribadito che sussiste la violazione della Convenzione allorché le deliberazioni del Parlamento vengano a paralizzare le azioni dei privati a tutela della loro reputazione, in assenza di un evidente collegamento tra le condotte ascritte e l’attività parlamentare, rilevandosi che nella fattispecie sottoposta al suo giudizio non era stato rispettato ‘il giusto equilibrio tra le esigenze del generale interesse della comunità e gli imperativi della tutela dei diritti fondamentali della persona’, anche perché i parlamentari non avevano manifestato, in quella circostanza, opinioni politiche, ma avevano espresso esclusivamente affermazioni denigratorie nei confronti dei ricorrenti.


Con numerose pronunce la Corte ha censurato il meccanismo dell’occupazione appropriativa, considerata quale forma di ‘espropriazione indiretta’, che, permettendo all’amministrazione di superare le regole del procedimento di espropriazione, consolida una situazione di illegalità che contrasta con il principio di legalità che deve presiedere all’attività della pubblica amministrazione (sentenza 2 febbraio 2006, Genovese e altri c. Italia; sent. 9 febbraio 2006, Prenna e altri c. Italia; e, recentissimamente, sent. 21 dicembre 2006, De Angelis e altri c. Italia); né vale a sanare tale illegittimità l’art. 43 del testo unico sulla espropriazione per pubblica utilità (d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327), poiché l’occupazione acquisitiva, anche se disciplinata dalla legge, non può costituire una alternativa alla procedura ‘en bonne et due forme’ (sent. 12 gennaio 2006, Sciarrotta e altri c. Italia).

La Grande Chambre ha preso posizione anche sulla determinazione della indennità di espropriazione, ponendo chiaramente in discussione il sistema italiano dell’art. 5 bis d.l. n. 333 del 1992, convertito in legge n. 359 del 1992, e l’art. 37 del t.u. n. 327 del 2001: pur riconoscendo la discrezionalità degli Stati, che in via eccezionale possono fissarne l’entità in misura non coincidente con l’integrale compensazione, ha ritenuto che l’art. 1 del I°protocollo addizionale della Convenzione impone in ogni caso di mantenere un giusto equilibrio tra le esigenze riconducibili all’interesse generale della comunità e la salvaguardia del diritto fondamentale dell’individuo al rispetto dei propri beni (sent. 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

Il contrasto della disciplina interna con la Convenzione universale dei diritti dell’uomo e col suo I°Protocollo addizionale, come interpretato dalla Corte europea, ha indotto la Corte di cassazione a sollevare la questione di costituzionalità delle norme interne in tema di indennità di espropriazione (Cass., ord. 29 maggio 2006, n. 12810) e di risarcimento da occupazione appropriativi (Cass., ord. 20 maggio 2006, n.. 11887), sotto il profilo, tra l’altro, della violazione dell’art. 117, c. 1, della Costituzione (nel testo risultante dalle modifiche apportate al titolo V) e delle norme convenzionali, cui quel testo avrebbe conferito valore di ‘norme interposte’”.

So di avere abusato nelle citazioni, ma portate ancora la pazienza necessaria a leggerne altre due, questa volta tratte, sempre in quella radiosa giornata, dall’intervento di Mario Delli Priscoli, procuratore generale della Repubblica.

Fatevi coraggio, ne vale la pena (questa volta ho inserito io delle sottolineature).

Anche il procuratore generale ha qualche cosa da dire sui poveri cittadini che la giustizia massacra: “La cosiddetta legge Pinto, che disciplina l’equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, dispone, all’art. 5, che il decreto di accoglimento della domanda sia comunicato, a cura della cancelleria, ‘ai titolari dell’azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento’.

Sono ben note le imponenti ripercussioni economiche che la predetta legge determina sulle finanze dello Stato, non tanto per l’entità dell’indennizzo liquidato nei singoli casi, quanto piuttosto per l’ammontare complessivo degli esborsi dell’erario, in ragione dell’elevato numero di soggetti aventi diritto al compenso per la lesione del diritto alla ragionevole durata di ogni processo.

La stessa Corte europea (sentenza Scordino, 1 § 183) ci ha ammonito sull’errore di direzione rappresentato da questa strada che ritiene di risolvere con il ristoro economico la violazione sistematica di un diritto fondamentale dei cittadini, quello alla ragionevole durata dei processi.

Tale Corte ha suggerito un’altra strada, peraltro ovvia, se non si vuole seguire quella della monetizzazione dell’ illecito: l’adozione di misure acceleratorie del procedimento, come era previsto nell’originario disegno di legge Conso e come hanno fatto Paesi più attenti agli effetti perversi di leggi frettolose.

Ma questa legge ha prodotto e sta producendo gravissimi danni, oltre che per l’erario dello Stato, anche per il funzionamento della giustizia.

Non sono solo le Corti di appello e la Corte di cassazione, investite ogni anno da migliaia di ricorsi, ad essere interessate dal problema. Anche la Procura generale della Corte di cassazione, cui vengono trasmessi, senza alcun filtro selettivo, tutti i decreti di condanna relativi a ritardi dei giudici ordinari, (3.612 nel 2006) risulta sovraccaricata di accertamenti di natura disciplinare.

L’obbligatoria, automatica comunicazione di tali decreti comporta per l’ufficio disciplinare la gestione e l’esame di una quantità notevole di procedimenti, prendendo le mosse da una situazione di totale carenza di informazioni, posto
che, di regola, i decreti stessi si limitano a dare atto delle vicende processuali e dei relativi tempi di definizione, senza specificare né l’identità dei magistrati che le hanno trattate, né possibili responsabilità individuali di natura disciplinare.

È così demandata alla Procura generale l’attuazione di una cernita, pressoché ‘in astratto’, che impone comunque di richiedere poi informazioni agli uffici giudiziari coinvolti in ciascun caso apparentemente rilevante a fini disciplinari.

Se si ha riguardo alla delicatezza del tema e, quindi, alla cura con cui detti uffici devono dare corso alle richieste della Procura generale, all’impegno che ciascuna risposta comporta (in quanto inerente a vicende processuali risalenti nel tempo, spesso complesse e coinvolgenti diversi magistrati) e alla combinazione di tali caratteri col numero di casi sui quali i vari uffici giudiziari sono chiamati a riferire, se ne desume la significativa entità delle risorse e del tempo dedicati allo scopo (e contestualmente sottratti, quindi, al lavoro ordinario).

Ma l’effetto negativo del meccanismo disciplinare innescato dall’art. 5 cit. si coglie appieno rapportando l’impegno dianzi illustrato ai risultati concreti.

L’esperienza ormai pluriennale mostra che la percentuale di casi nei quali la Procura generale è in grado di ravvisare estremi per l’esercizio dell’azione disciplinare è assai bassa e, peraltro, l’esito dei relativi procedimenti disciplinari è pressoché costantemente assolutorio, in quanto la durata dei processi risulta quasi sempre conseguenza di difficoltà operative e strutturali, piuttosto che di responsabilità di singoli magistrati.

Infatti nell’anno 2006 non è stato possibile iniziare sulla base di detti decreti alcun procedimento disciplinare e negli anni precedenti dei 19 procedimenti iniziati uno solo si è concluso con la irrogazione di una sanzione; e la più lieve, cioè l’ammonimento.

In prospettiva futura, tale tendenza dei risultati è destinata a perpetuarsi, ed anzi ad accentuarsi (…).

Alla luce di tale quadro di insieme è auspicabile un intervento legislativo che elimini l’automatismo della comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare attualmente previsto dall’art. 5 della legge n. 89 del 2001”.

L’ottimo Delli Priscoli ci consegna una perla d’inestimabile valore: noi riceviamo, per ogni condanna subita dallo Stato, quindi per ogni violazione dei diritti dei cittadini, una segnalazione disciplinare, però, primo, non siamo in grado di scoprire nemmeno chi sono i magistrati cui addebitare qualche cosa (ma come fanno a non essere in grado? I nomi sono nelle sentenze!), secondo, quando anche ci riusciamo tanto li assolvono tutti.

Meraviglioso, questa è la descrizione di un’irresponsabilità di massa. I
processi vanno così lentamente da violare i diritti umani, ma la colpa non è mai, dicasi mai, di nessuno.

Sì, certo, ci sono le solite lamentele sui soldi e l’organico, ma fra poco ci arriviamo e vedremo che sono tutte balle.

Rimane, però, la consapevolezza di quanto sia grave la condizione dell’Italia:

“Particolarmente grave appare la
situazione del nostro Paese dinanzi agli organi di tutela dei diritti dell’Uomo di Strasburgo (C.E.D.U.).

Nel corso della riunione del dicembre dello scorso anno, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha ripreso l’esame del piano di azione elaborato dalle autorità italiane per dare una soluzione globale al persistente problema della lentezza dei procedimenti giudiziari.

Il Comitato dei ministri ha preso atto che il Capo del Governo ed il Ministro della Giustizia hanno riconosciuto l’importanza fondamentale di trovare finalmente una soluzione durevole al problema e che questa necessità è riconosciuta del Consiglio superiore della magistratura e da tutti coloro che partecipano alle procedure giudiziarie.

L’organo di tutela ha, in particolare, preso nota del rapporto presentato in data 30 novembre 2006 dal Sottosegretario di Stato alla Giustizia sull’adozione di un certo numero di riforme legislative sulle procedure giudiziarie e su un ambizioso progetto riguardante l’organizzazione informatica delle procedure civili (c.d. processo telematico), ma ha deciso di rendere più incisivo e pressante il procedimento di controllo sulla situazione – che, giova ricordarlo, risale alla sua Risoluzione n. 336 del 1997 – rinviando alla riunione del 13/14 febbraio 2007 l’approfondito esame delle informazioni fornite.

Accanto però al problema della intollerabile lentezza dei procedimenti, le preoccupazioni degli organi di Strasburgo si sono accentrate sull’omesso adempimento, da parte delle autorità italiane, dell’obbligo di uniformarsi alle sentenze della Corte europea e di eliminare le perduranti conseguenze delle riscontrate violazioni.

L’argomento ha formato oggetto del rapporto della Commissione giuridica e dei diritti dell’uomo sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e dei relativi provvedimenti dell’Assemblea Parlamentare contenenti l’ennesimo severo monito nei confronti del nostro paese”.

Insomma, siamo dei sorvegliati speciali, siamo un Paese considerato a rischio e lo siamo sul delicato terreno dei diritti umani. Una cosa vergognosa e gravissima.

Nel corso di quell’inaugurazione nessuno ha citato i dati riguardanti i detenuti e la loro condizione giuridica.

Il pianeta delle carceri, e più in generale il tema della pena, meriterebbe un libro a sé.

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giovedì 24 luglio 2008

Sondaggio: crollo della credibilità della Magistratura

Potrei scommettere la vita (sicuro di non perderla) sul fatto che i 1280 cittadini intervistati da Demos & Pi, per conto di Repubblica, non abbiano letto il libro di Giacalone.

Eppure il sondaggio rileva che soltanto il 32,4% della popolazione nutre molta fiducia nella giustizia e solo il 2, 7% ne nutre moltissima.

Pensate che queste due percentuali di cittadini rimarrebbero così elevate se fossero davvero informati? Permettetemi di dubitarne.

Vi fornisco il link per esaminare l' intero sondaggio.

Qui riporto solo le prime due tabelle, la prima per darvi conto del dato generale, la seconda perchè mi serve per condividere un paio di considerazioni.





La percentuale più alta degli elettori di ciascun partito che hanno fiducia nella magistratura è quella dell' IdV. Era prevedibile? Certamente! Ma quello che mi stupisce è che persino in quel partito di forcaioli, il 32, 3% non ne abbia fiducia ....

Quanto al PD, metà del suo elettorato si fida della Magistratura e metà no: insomma, anche da questo si evince che l' identità di questo partito è ancora un oggetto misterioso ...

Un' altra cosa che mi ha stupito è che la percentuale dei cittadini che votano per PdL e Lega e che non si fidano della Magistratura sia, oltre che elevatissima, anche praticamente la stessa.

Questo mi fa ben sperare sulle possibilità che il Berlusca riesca a riformare la Magistratura, sempre che trovi egli stesso il coraggio civile e politico di farlo, ora che, grazie al lodo Alfano, si è messo personalmente al sicuro.

Vabbè, aspetteremo Settembre e vedremo ....

Probabilmente è casuale (ma più probabilmente no): la percentuale di consenso alla magistratura è praticamente la stessa di quella di consenso al PD che poi è la stessa di quella, storica, al PCI.

Due Italie: una minoritaria nei numeri ma egemone nei media ed una maggioritaria ma silenziosa, con buona pace di quei trinariciuti convinti che Berlusconi vinca perchè ha il "monopolio" dei mezzi di informazione.

Tentare di spiegare a costoro che la sinistra sopravvive solo perchè è lei ad avere il monopolio culturale sui media è impresa da Mission Impossible .....

Così come il 35% della popolazione ha fiducia nella giustizia SOLO perchè non ne conosce la realtà e non la conosce perchè i media la nascondono, così il 35% degli degli italiani ha fiducia nella sinistra perchè ne ignora la realtà, accuratamente manipolata dai media da oltre mezzo secolo.

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mercoledì 23 luglio 2008

Quando la Magistratura impoverisce la Nazione

Con questa quarta puntata, inizio la pubblicazione del secondo capitolo del libro di Giacalone sulla Malagiustizia.

Il titolo del capitolo è: "Le dimensioni dello sfascio". Giacalone riporta un gran numero di tabelle che illustrano i numeri di questa vergogna nazionale. Potrei pubblicarle anche io, ma occuperebbero troppo spazio e appesentirebbero la vostra lettura.

Ho scelto la strada di abbreviarne il contenuto riassumendole in poche frasi che troverete fra parentesi e in colore diverso da quello del testo.

Chi non si accontenterà potrà, ovviamente, scaricarsi l' intero libro da qui e consultare le tabelle.

In questa prima parte del secondo capitolo scoprirete perchè a questa Malagiustizia è imputabile anche l' impoverimento del nostro Paese: lo sfascio della giustizia civile, infatti, oltre a danneggiare direttamente la nostra economia, lo fa anche indirettamente, tenendo lontani gli investitori stranieri.


A forza di parlare di sfascio della giustizia italiana c’è il rischio che anche questa diventi una frase fatta, un concetto vuoto, quindi privo di forza.

Per evitarlo, per far vedere quanto è grande il disastro, mettiamo in fila qualche numero. I numeri, certo, non misurano il dolore e neanche son capaci di restituire le dimensioni del danno economico collettivo, ma sono assai efficaci nel far vedere che il nostro sistema giudiziario costa quanto e più degli altri, ma fa impareggiabilmente schifo.

Anticipo una delle conclusioni, per introdurre la prima tabella di dati: parleremo spesso della Cedu, la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e la relativa Corte di Strasburgo, lo faremo perché questa è una delle chiavi per risolvere il problema.

Il cittadino vittima non deve più solo difendersi, deve trovare la forza di attaccare e tale forza deve trovarla, naturalmente, nelle leggi.

La Cedu gli da la possibilità di denunciare il proprio Stato. È un dovere civile farlo.

Torneremo sul punto e descriverò meglio la Cedu, per ora guardiamo questa tabella, relativa alle condanne emesse nei confronti degli Stati membri, fino al 19 ottobre 2006. Il primo numero si riferisce alle denunce, il secondo alle condanne.

Per noi italiani è impressionante.

(L' Italia è stata denunciata 1.250 volte e condannata 1.012 volte. Le seconde classificate sono Spagna e Francia, che hanno totalizzato, entrambe, 305 denunce e 255 condanne (4 volte meno dell' Italia). Il Regno Unito ha avuto 26 denunce e 22 condanne)


Questi numeri sono incontestabili, tratti da una fonte non solo al di sopra delle parti, ma da ciascun Paese riconosciuta come seria.

Si può obiettare che vadano letti con una certa cautela: nei Paesi di più giovane libertà è naturale che la propensione del cittadino a denunciare il proprio Stato sia inferiore, ed in quelli in cui le garanzie di libertà individuale non sono poi troppo solide è comprensibile che ci si muova con maggiore prudenza.

Ma se anche limitassimo il paragone ai Paesi a noi più direttamente assimilabili, il risultato sarebbe comunque imbarazzante e vergognoso.

Prima di leggere i tempi della giustizia italiana soffermiamoci su un dato che, forse, già da solo dice molte cose: nel 2006, rispetto al 2005, i reati denunciati sono diminuiti dell’11,51%, passando da 2.855.872 a 2.526.486.

Voi pensate che siano diminuiti i reati commessi?

Non credo proprio, mentre ho l’impressione che siano diminuite le denunce, considerate del tutto inutili, anche perché questo dato va corretto con un aumento del 62% dei reati contro la legge sull’immigrazione.

Se proprio non ti portano via i documenti o le carte di credito, che lo denunci a fare il furto di un portafogli?

E anche per i furti in casa, state attenti: quando subii il furto di alcuni orologi feci regolare denuncia, con il risultato che la notizia finì su un giornale, e chi se ne frega se io ero la vittima e non mi andava di far sapere a tutti i fatti miei, mentre i Poliziotti m’invitarono a far visita ad alcuni ricettatori, per vedere se gli oggetti rubati fossero da quelle parti.

Ma come? Io non conosco ricettatori.

Furono loro a darmi l’indirizzo di due negozi nel centro di Roma. Non ci andai, perché penso che la Polizia dovrebbe arrestare i ricettatori, non mandarci i clienti, e temevo anche di trovarci roba mia, nel qual caso sarebbe stato difficile buttarla sullo spiritoso.

Del resto, di quei reati denunciati ce ne sono ben 1.992.943 che sono e restano a carico d’ignoti.

E veniamo alla durata media di un processo, misurato in giorni. Si tratta dei dati ufficiali, resi noti dalla giustizia all’inizio del 2007.

(Dalla tabella relativa ai processi CIVILI si ricava che quelli svolti presso un giudice di pace durano mediamente 1 anno, quelli di primo grado presso il giudice ordinario 2 anni e mezzo, per il secondo grado occorrono altri 3 anni e per l' ultimo grado, sentenza definitiva della cassazione, altri 3 anni. Totale: dalla denuncia alla sentenza finale passano mediamente8 anni e qualche mese)

Dunque, per un processo civile ci vogliono, mediamente 3.009 giorni, 8 anni e tre mesi. Questo nella media, perché se si disaggrega il dato e lo si riferisce al solo primo grado, guardate cosa succede:

(Nel Tribunale di Torino la media di durata di un processo civile di primo grado è di quasi 600 giorni, negli altri tribunali il numero dei giorni necessari cresce fino ad arrivare ai 1400 di Messina)

A Messina servono, mediamente, 1400 giorni per un primo grado, quasi 4 anni.

(Segue la tabella della durata dei processi penali, nei vari gradi di giudizio, per un totale di oltre 4 anni)

Questi sono i dati, già drammatici, della durata del processo, ma non tengono conto che prima ci sono stati anni d’indagine, mesi e talora anni per concludere l’udienza preliminare e rinviare a giudizio.

Non c’è da stupirsi, quindi, se un buon numero di quei procedimenti sono di fatto suicidi, nel senso che continuano nonostante alla loro fine i reati saranno prescritti, quindi inutili il lavoro e le spese affrontate, sia a carico della collettività che, in questo caso, dei singoli.

E guardate questi due raffronti europei, tratti dalla banca dati della Commissione europea per l’efficacia della giustizia (Cepej).

Il primo si riferisce alla durata media di un procedimento relativo ad un licenziamento:

(In Italia, prima classificata, oltre 600 giorni per la prima istanza e 800 per la seconda, in Francia, seconda classificata, 340 e 540 giorni ...)

E proprio lo scorso 31 maggio, in occasione delle tradizionali Considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia, il governatore Mario Draghi ha detto: “Le manchevolezze della nostra giustizia civile sono segnalate da studi internazionali, testimoniate dal disagio dei cittadini e delle imprese. Nella durata dei processi il confronto internazionale è impietoso. Un esempio fra tutti: i procedimenti di lavoro nel primo grado di giudizio durano da noi in media oltre due anni, uno in Francia, meno di sei mesi in Germania (i dati sono anche peggiori n.d.r.). I tempi lunghi della giustizia non dipendono tanto da una carenza relativa di risorse, quanto da difetti nell’organizzazione e nel sistema degli incentivi”.

Le lungaggini non risparmiano neanche i divorzi, moltissimi dei quali si risolvono in via consensuale.

(In Italia, prima classificata, 600 giorni per la prima istanza e 500 per la seconda, in Francia, seconda classificata, 420 e 440 giorni ...)


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martedì 22 luglio 2008

Magistrati che isolano e lasciano assassinare Falcone

Grazie a Radio Radicale, ho appena potuto visionare la registrazione video di 40 minuti di teatrino della politica andati in scena, ieri pomeriggio, in Parlamento.

Titolo della pièce: "Il dito medio di Bossi".

Bossi, ministro della Repubblica, ha osato dileggiare l' inno nazionale, quello - per capirci - che i giocatori di calcio si rifiutavano di imparare e di cantare in occasione delle partite internazionali, quello che ha riportato in auge il Presidente Emerito Ciampi per salvarsi l' anima dal fatto di aver malgovernato l' Italia da Governatore di Bankitalia,
da Ministro e da Presidente del Consiglio del centrosinistra.

40 minuti di teatrino che ha visto il solito trionfo della retorica italiota che privilegia la forma alla sostanza. Tutti rispettosi della Bandiera, dell' Inno nazionale, della Costituzione, salvo calpestarli ogni giorno, da 60 anni, nei fatti, sgovernando in modo ignobile questo paese.

Dunque, parlando di ignominie italiane, eccovi la terza e ultima parte del primo capitolo del libro di Giacalone dedicato alla prima delle patrie ignominie, la Malagiustizia.

In questa terza parte sono ricostruite le vicende di tre eroi nazionali, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino e dei loro nemici mortali, tutt' ora vivi, vegeti e operanti: Violante, Caselli, Leoluca Orlando.

Ecco, lasciate perdere la retorica della bandiera e documentatevi sui fatti reali leggendo quanto segue, che non è opera di fantasia, ma tragica realtà.

Il Parlamento, insomma, il potere legislativo approntò gli strumenti giuridici per rinunciare al proprio ruolo, per mettere il potere esecutivo, il governo, al riparo da una battaglia durissima che lo avrebbe esposto sul fronte delle relazioni internazionali (allora i democristiani erano filo
palestinesi ed anche in Vaticano soffiava dall’est un vento assai diverso da quello poi portato da Karol Vojtyla, allora governava Agostino Casaroli, e molte cose si capiranno quando un giorno si potrà conoscere la verità del rapimento Orlandi), per consegnare ai magistrati le armi del combattimento.

Alla lunga si vinse, ma tenete bene a mente un nome, quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Già, perché credo che nella vittoria dello Stato non abbia contato tanto l’imbarbarimento del diritto, ovvero quei provvedimenti legislativi che già allora destavano il sospetto di giovanissimi garantisti, certamente anticomunisti (quali eravamo e siamo), ma anche sensibili al rispetto del diritto.

Allora, dato che il terrorismo era comunista, il garantismo era di sinistra. Ah, che beffa, con il senno di poi!

Ma non furono quelle norme da sole a segnare la svolta, contò molto la decisione del generale di entrare in un bar genovese ed ammazzare i terroristi che vi si trovavano.

Era il segnale della guerra, che ogni equilibrio era rotto, che chi si armava contro lo Stato sarebbe morto sotto al fuoco delle armi dello Stato.

Fu il generale Dalla Chiesa a segnare la svolta, non le retate del 7 aprile 1977 ed il processo ad Antonio Negri ed Autonomia Operaia. Tenetelo a mente, perché fra poco ci torniamo.

Potevano, le cose, andare diversamente? Sì. L’esempio più pertinente ci viene dall’allora Repubblica Federale Tedesca. Anche quello era un Paese di frontiera, lo era anche più dell’Italia, visto che era diviso in due, anche lì la democrazia aderente alla Nato dovette subire l’attacco terrorista finanziato dall’est.

Ma lì la risposta politica fu statuale e durissima, lì lo Stato era più forte e la sinistra di governo era socialdemocratica. Lì dei comunisti non si
aveva gran rispetto, era proibito esserlo e se lo eri non potevi neanche accedere ai pubblici uffici.

Altro che Magistratura Democratica.

Lì presero i capi della Raf (le locali Brigate Rosse) e li ammazzarono. Fecero prima e fecero in fretta quel che a Dalla Chiesa era costato tempo e fatica. Un’altra storia, appunto.

Per le sue caratteristiche e per i suoi legami internazionali il terrorismo comunista non poteva certo definirsi un’“emergenza”. Non era una catastrofe naturale, ma un derivato della guerra fredda e della nostra debolezza politica ed istituzionale.

Era parte della nostra storia, al punto che, ancora oggi, si fa fatica a chiamare le cose con il loro nome, si fa fatica a definire Gian Giacomo Feltrinelli un criminale, si fa fatica a scandagliare il mondo che alle spalle ed attorno a quel terrorismo si mosse perché si rischia d’incontrare gente che ci ostiniamo a considerare per bene.

Restiamo il Paese dei misteri perché restiamo il Paese dei bugiardi, degli ipocriti tremuli che non sanno guardare in faccia la propria storia.

Per questo preferimmo far finta che si trattatasse di un’“emergenza”, l’ennesima parentesi destinata a durare quasi venti anni e che si pretende d’isolare dal resto della nostra identità collettiva.

Se non era un’“emergenza” il terrorismo, figuriamoci la mafia.

Ma, anche in questo caso, si preferì imboccare tale strada, isolando e mandando a morte Giovanni Falcone, come Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Ed anche qui c’entra la giustizia, anche qui la si scassò pur di delegare ai magistrati una guerra che la politica non seppe e non volle gestire.

Il generale fu nominato prefetto. Era osteggiato dalla sinistra e certo non trovava solidarietà fra i governanti della città di Palermo. Era troppo facile dire che si comportava come un corpo estraneo, che non conosceva l’ambiente, fino al punto di mettere in mezzo il recente matrimonio con una donna più giovane, come a dire che non ci stava troppo con la testa.

Lui chiedeva più poteri per riuscire a portare in città un’idea diversa di far la guerra alla mafia.

Quei poteri vennero dati al successore, quando la partita era oramai persa, il corpo estraneo era stato rigettato e lui era morto.

Giovanni Falcone ha avuto più tempo per lavorare ed ha potuto dimostrare che da una parte le indagini patrimoniali e, dall’altra, l’idea di addebitare le responsabilità penali alla “cupola”, vale a dire al ristretto gruppo che comandava la mafia, davano buoni frutti.

Il tutto, sempre, cercando riscontri e non fidandosi della parola dei mafiosi disposti a collaborare. Si deve ricordare che ai tempi della lotta al ter-
rorismo, quando si varò la legislazione premiale per i collaboratori di giustizia (che furono chiamati, spesso del tutto a sproposito, “pentiti”), un eroe della Resistenza e gran democratico, Leo Valiani, ci tenne a sottolineare che quelli erano, prima di tutto, dei traditori e degli spioni, salvo il
fatto che lo Stato faceva bene ad approfittarne.

Figuratevi cosa si doveva pensare dei mafiosi che si decidevano a parlare, a violare l’inviolabile principio dell’omertà. Falcone, che parlava la lingua, ben sapeva quale tipologia umana si trovava fra le mani e certo non si sognava di fidarsi.

Tu mi dici una cosa, io cerco il riscontro, la prova, se non li trovo la tua resta la parola di un disonorato.

Falcone fu isolato e silurato da Magistratura Democratica.

Fu osteggiato e sconfitto da gente come Luciano Violante ed Elena Paciotti. Tutti e due capi bastone della magistratura politicizzata, tutti e due parlamentari eletti nelle liste del fu partito comunista.

Furono loro a far sì che il Consiglio Superiore della Magistratura giudicasse Falcone indegno di combattere la mafia.

E fu Leoluca Orlando ad accusarlo di essere addirittura connivente con i politici in odor di mafia, nascondendo nei cassetti le prove della loro
colpevolezza.

Questa sinistra, politica e giudiziaria, che negli anni appresso, per garantire onnipotenza ed immunità ai propri uomini, avrebbe sostenuto che la mafia ammazza solo quelli che sono prima stati isolati e negletti, riservò esattamente questo trattamento a Giovanni Falcone, che morì ammazzato.

Da quel momento si poté smettere di combatterlo e cominciare a santificarlo. Così gli stessi che lo avevano allontanato da Palermo potevano, ogni anno, sfilare condolenti per ricordare il suo coraggio, la sua tenacia ed il suo sacrificio. Se c’è una pagina orribile, è questa.

Attenzione: Falcone suscitava tanta ostilità perché faceva il magistrato, e lo faceva indagando e cercando di ottenere la condanna degli imputati che portava a processo, senza timore nel prosciogliere gli innocenti.

Si rifiutava di usare le armi della giustizia per fare politica, si rifiutava di muovere accuse non dimostrabili solo per rendere favori
propagandistici. Era un magistrato, come tutti dovrebbero essere.

Tolto di mezzo lui, e, anzi, usando proprio l’emozione popolare legata alla morte sua e del collega Borsellino, si poté realizzare il capolavoro di passare tutti i poteri ai suoi avversari, portando a Palermo quel Giancarlo Caselli, antico collega e sodale di Violante, che avrebbe fatto l’esatto contrario, ovvero avrebbe seguito la via tracciata da una commissione parlamentare, quella antimafia, presieduta da Violante, per tradurne in tribunale le conclusioni.

E avrebbe portato sul banco degli accusati quella politica e quel politico, Andreotti, del cui governo Falcone era stato collaboratore.

Anche dopo morto, dunque, a parte le ipocrisie rituali, continuarono a combatterlo.

Ed ecco, dopo quella terroristica, la seconda delega in bianco data ad alcuni magistrati, quella contro la mafia.

Il Parlamento ed il governo la diedero per ignavia, paura, viltà. Nessuno osava opporsi alla politica di Violante, nel timore di doverne rispondere in altra sede. Nessuno osava sollevare la testa, e così passò il secondo mostro giuridico, il reato di non affiliazione, ma collaborazione esterna con
la mafia.

Una roba che non era la partecipazione diretta e neanche il favoreggiamento (nel qual caso si doveva dimostrare con quali atti, od omissioni si era favorito o coperto un crimine).

Invece, con il “concorso esterno” si poteva mettere le mani su chiunque. E così fu, fra le grida di osanna della cosiddetta libera stampa e l’accusa di mafiosità ai pochi, pochissimi che osavamo dire: questa è barbarie giuridica.

Il mondo politico che così si castrò, e per sicurezza anche evirò, ha colpe enormi e nessuna attenuante.

Non è un caso che quello stesso mondo politico sarebbe stato eliminato dalla mano che aveva contribuito ad armare, quella delle procure.

Badate, quella delle procure, non della giustizia. Perché la giustizia, lentamente, a singhiozzo, troppo tardi, ma delle volte arrivò.

Quando giunse, però, gli accusati erano già civilmente morti, e talora anche fisicamente.

Su questo occorre tornare, e lo faremo parlando dell’interazione fra il giustizialismo di certe procure ed il giornalismo.

Quello che, per ora, mi premeva raccontare e chiarire è che il deragliamento della giustizia è stato lungamente preparato, cospargendo i binari del diritto del bitume portato da leggi descriventi reati niente affatto chiari, dai quali era difficile difendersi, al punto da consegnare nelle mani dell’ accusa un potere smisurato.

Ne è derivato che per una politica giudiziaria di quel tipo era del tutto irrilevante che si giungesse a delle sentenze, e lo stesso processo era visto
non come il momento in cui si potesse accertare la verità, ma, al contrario, come quello in cui la verità iniziale, quella dell’accusa, sarebbe stata inquinata e corrotta, fino all’abominevole punto d’essere negata.

Ma, pur giudizialmente negata, quella era la verità storica, venduta a piene mani nei supermarket dell’informazione asservita. Ed è questo vele-
no ad essere penetrato nel profondo del terreno civile e culturale, rendendone imbevibili le acque e mortali le esalazioni.

Per questo il compito che ci aspetta non è “solo” quello di rimettere il treno della giustizia sui suoi binari, ma anche quello di bonificare tutto l’ambiente intorno rivitalizzando la cultura del diritto e dei diritti.

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